venerdì 23 luglio 2010

Uno Stato senza corporazioni

Lo stato corporativo fascista, iscritto pomposamente nelle varie agiografie fasciste, è notoriamente - per gli addetti ai lavori - una generosa chimera. Infatti, paradossalmente, fino al febbraio del 1934, il regime fascista fu uno Stato senza corporazioni, poichè solo in quel dato momento furono create. Come se non bastasse, esse erano del tutto subordinate all'amministrazione statale e al potere politico; non godendo, dunque, d'autonomia decisionale, dipendevano, in tutto e per tutto, dal potere politico medesimo. Per tale motivo, le corporazioni non furono altro che inutili "rottami" burocratici che si andavano costosamente ad aggiungere a quelli già preesistenti. Le tesi a favore di certo "fascismo di sinistra" sono del tutto irrilevanti. Si pensi a quello pseudo-filosofo di Ugo Spirito, per esempio... Tali tesi, infatti, sono per lo più frutto della demagogia, non fondate, dunque, su dati economici veri e propri. Grande attenzione, insomma, alle strutture giuridiche e alle istituzioni create dal fascismo; scarso o nullo l'interesse circa il loro reale funzionamento.
lavori in corso...

giovedì 15 luglio 2010

Insieme per una nuova etica politica (quarta parte)


Dalla “fogna” all’ingresso nella politica che conta.


Il crollo del muro di Berlino. Il disgelo. Il Governo Craxi e la mano morta del Berlusca.

Con l’abbattimento del “muro” non si sono aperte solamente le frontiere, non si è unicamente dato il via alla riunificazione della Germania, ma si accordato il “placet” all’occidentalizzazione dell’ex mondo del cosiddetto “socialismo reale”.

La marginalizazione del Msi finisce, almeno in parte e, per la prima volta, con l’ascesa a Palazzo Chigi di Bettino Craxi. In questo breve periodo, difatti, la destra esce dalla “fogna”; viene altresì ammessa a consultazioni formali, invitata a tavole rotonde e, soprattutto, quando invitata dai mass media, viene meno il solito clichè retorico e demonizzante.

In verità, v’è stato già nel 1977 un tentativo di legittimazione democratica dell’MSI, attraverso la scissione concretizzatasi nella creazione fallimentare di Democrazia Nazionale. In quell’occasione, i vertici del partito stigmatizzarono con parole di fuoco l’atteggiamento dei “Traditori Badogliani”: Servello, Tremaglia e Pisanò.

Almirante, primo fra tutti, accusa i suoi “compari” di fare “sporchi giochi”.

Ecco qui sotto uno stralcio dell’editoriale “Aria Pulita”.
"Se è vero, come è vero, che il partito che ho l’onore di dirigere è una
“casa di vetro” nella quale tutti possono guardare, non sorprenderà nessuno la
risoluzione presa nei confronti degli “ultimi seguaci di Badoglio” dei resti di
quella “Democrazia nazionale” sepolti nel ridicolo elettorale".
“Su Servello,…principale responsabile di questa losca manovra, avevamo sospetti fin dal 1945. Uomo degli americani, agente della CIA, erano trent’anni che lo
tenevamo d’occhio. Abbiamo permesso che salisse alle cariche più alte del
Partito di cui ho l’onore di essere segretario, per meglio sorvegliarlo, per
poter toccare con mano la sua indegnità fisica e morale….”


Non scenderò nei particolari, ma è superfluo rimarcare la soverchiante retorica di cui è pregno l’intero articolo. Inoltre, è palese l’utilizzo di un non velato sofisma con cui si giustifica l’ascesa al vertice di un dirigente. Del resto, l’apparentamento con la CIA o con i servizi segreti non era appannaggio esclusivo di Servello. Ma tant’è. Pisanò - per esempio - non ha mai dissimulato la sua fede “atlantica” e la sua simpatia per la “Benemerita”.
Inoltre, secondo alcune indiscrezioni apparse sul n°1 de “Lo Stato” di Marcello Veneziani, a firma del logorroico Roberto Gervaso, scopriamo che il “Cavaliere” con la macchia ma senza vergogna, non solo avrebbe “sdoganato” il “neofascista” Gianfranco, portandolo con se al governo insieme a quel simpaticone dell’ “Umba” ma, nella sua lungimiranza e preveggenza, avrebbe tentato - già vent’anni prima dello scontro con l’Alberto Sordi della Politica italiana, Frangiasco - di favorire lo spostamento al centro dell’MSI, finanziando la scissione che poi si concretizzo con la creazione di “Democrazia Nazionale”.

Secondo Massimo Anderson, all’epoca presidente del FdG, oltre ai finanziamenti sottratti all’ MSI, vi furono altre cospicue somme garantite da un personaggio del mondo economico che aveva già le idee ben chiare di come avrebbe dovuto “evolversi” la Destra Nazionale.
Questo nome, sempre tenuto segreto per molti anni, è uscito dal “Cappello del mago” della Commissione Stragi, quando Andreotti, a proposito dei fondi dati dallo Scudocrociato a D.N. fu sconfessato da una lettera dell’On. Delfino che scopriva la losca trama. Tale missiva non fu mai smentita né da Andreotti né tantomeno dal ns. “caro” Cavaliere.

Rauti, dal canto suo, non è da meno. Quest’ultimo risultava da tempo sul libro paga della Cia, al pari di Guido Giannettini, mediocre giornalista e pessimo agente del Sid. I due scrissero a quattro mani anche un interessante testo (oggi introvabile) sulla guerra controrivoluzionaria: “Le mani rosse sulle forze armate”. Quando si tratta di creare panegirici o, in questo caso, scrivere libercoli ad uso e consumo dei camerati in buona fede tutti fanno la loro parte.

Vengo al punto. Nel 1983 sulla scia della legittimazione avanzante, il segretario del PSI, Bettino Craxi, nel corso delle consultazioni per la formazione del suo governo, dichiara che il suo partito è aperto al dialogo con il Movimento Sociale Italiano.
Questo è il segnale per l’inizio dell’ascesa a Montecitorio.

Insieme per una nuova etica politica


Dalla “fogna” all’ingresso nella politica che conta.


Il crollo del muro di Berlino. Il disgelo. Il Governo Craxi e la mano morta del Berlusca.

Con l’abbattimento del “muro” non si sono aperte solamente le frontiere, non si è unicamente dato il via alla riunificazione della Germania, ma si accordato il “placet” all’occidentalizzazione dell’ex mondo del cosiddetto “socialismo reale”.

La marginalizazione del Msi finisce, almeno in parte e, per la prima volta, con l’ascesa a Palazzo Chigi di Bettino Craxi. In questo breve periodo, difatti, la destra esce dalla “fogna”; viene altresì ammessa a consultazioni formali, invitata a tavole rotonde e, soprattutto, quando invitata dai mass media, viene meno il solito clichè retorico e demonizzante.

In verità, v’è stato già nel 1977 un tentativo di legittimazione democratica dell’MSI, attraverso la scissione concretizzatasi nella creazione fallimentare di Democrazia Nazionale. In quell’occasione, i vertici del partito stigmatizzarono con parole di fuoco l’atteggiamento dei “Traditori Badogliani”: Servello, Tremaglia e Pisanò.

Almirante, primo fra tutti, accusa i suoi “compari” di fare “sporchi giochi”.

Ecco qui sotto uno stralcio dell’editoriale “Aria Pulita”.
Se è vero, come è vero, che il partito che ho l’onore di dirigere è una “casa di vetro” nella quale tutti possono guardare, non sorprenderà nessuno la risoluzione presa nei confronti degli “ultimi seguaci di Badoglio” dei resti di quella “Democrazia nazionale” sepolti nel ridicolo elettorale.
“Su Servello,…principale responsabile di questa losca manovra, avevamo sospetti fin dal 1945. Uomo degli americani, agente della CIA, erano trent’anni che lo tenevamo d’occhio. Abbiamo permesso che salisse alle cariche più alte del Partito di cui ho l’onore di essere segretario, per meglio sorvegliarlo, per poter toccare con mano la sua indegnità fisica e morale….”

Non scenderò nei particolari, ma è superfluo rimarcare la soverchiante retorica di cui è pregno l’intero articolo. Inoltre, è palese l’utilizzo di un non velato sofisma con cui si giustifica l’ascesa al vertice di un dirigente. Del resto, l’apparentamento con la CIA o con i servizi segreti non era appannaggio esclusivo di Servello. Ma tant’è. Pisanò - per esempio - non ha mai dissimulato la sua fede “atlantica” e la sua simpatia per la “Benemerita”.
Inoltre, secondo alcune indiscrezioni apparse sul n°1 de “Lo Stato” di Marcello Veneziani, a firma del logorroico Roberto Gervaso, scopriamo che il “Cavaliere” con la macchia ma senza vergogna, non solo avrebbe “sdoganato” il “neofascista” Gianfranco, portandolo con se al governo insieme a quel simpaticone dell’ “Umba” ma, nella sua lungimiranza e preveggenza, avrebbe tentato - già vent’anni prima dello scontro con l’Alberto Sordi della Politica italiana, Frangiasco - di favorire lo spostamento al centro dell’MSI, finanziando la scissione che poi si concretizzo con la creazione di “Democrazia Nazionale”.

Secondo Massimo Anderson, all’epoca presidente del FdG, oltre ai finanziamenti sottratti all’ MSI, vi furono altre cospicue somme garantite da un personaggio del mondo economico che aveva già le idee ben chiare di come avrebbe dovuto “evolversi” la Destra Nazionale.
Questo nome, sempre tenuto segreto per molti anni, è uscito dal “Cappello del mago” della Commissione Stragi, quando Andreotti, a proposito dei fondi dati dallo Scudocrociato a D.N. fu sconfessato da una lettera dell’On. Delfino che scopriva la losca trama. Tale missiva non fu mai smentita né da Andreotti né tantomeno dal ns. “caro” Cavaliere.

Rauti, dal canto suo, non è da meno. Quest’ultimo risultava da tempo sul libro paga della Cia, al pari di Guido Giannettini, mediocre giornalista e pessimo agente del Sid. I due scrissero a quattro mani anche un interessante testo (oggi introvabile) sulla guerra controrivoluzionaria: “Le mani rosse sulle forze armate”. Quando si tratta di creare panegirici o, in questo caso, scrivere libercoli ad uso e consumo dei camerati in buona fede tutti fanno la loro parte.

Vengo al punto. Nel 1983 sulla scia della legittimazione avanzante, il segretario del PSI, Bettino Craxi, nel corso delle consultazioni per la formazione del suo governo, dichiara che il suo partito è aperto al dialogo con il Movimento Sociale Italiano.
Questo è il segnale per l’inizio dell’ascesa a Montecitorio.

mercoledì 14 luglio 2010

Insieme per una nuova etica politica (terza parte)



Le deviazioni ideali.
L’asservimento delle coscienze in funzione filo atlantica ed anticomunista.

La materia che sto per trattare è così vasta e intricata che non basterebbero mille pagine per volerla esaminare con puntualità, oggettività ed esaustività. Ad ogni buon conto, farò ricorso a tutte le risorse di sintesi e di buon discernimento che ho a disposizione. Questo restringimento deve esser tenuto ben presente. La ragione di tutto ciò va ricercata non solo nella necessità di una brevità e di una sintesi ma, soprattutto, nell’intenzione di fornire un quadro d’insieme che prescinda dalle inchieste giudiziarie e si soffermi invece sugli aspetti ideali, politici e strategici.

Molti sostengono che con la nascita del M.S.I. sia coincisa un’esigenza d’incanalare e distogliere quegli elementi rivoluzionari che, a causa dell’ultima incarnazione sociale della R.S.I., potevano simpatizzare e confluire nelle file del P.C.I. A riprova di quanto testé affermato, possiamo citare l’adesione di Stanis Ruinas e il gruppo de “il Pensiero nazionale”.


Gli anni ’70
In questi anni si è assistito alla più grande strumentalizzazione delle idee e d’uomini legati all’ambiente “cosidetto” neofascista.
In primis v’è stato da parte dei vertici missini un pressappochismo d’idee che, di volta in volta, assumeva le vesti più diverse secondo le esigenze operative da attuarsi sul campo. Il già citato generico anticomunismo veniva usato sempre più in funzione Atlantica e filoamericana. Quest’ultimo elemento insieme con una paccottiglia nostalgica, fatta di gagliardetti, distintivi e quant’altro, è stato il filo conduttore delle masse giovanili in quei burrascosi anni.

D’altra parte, in questo particolare ambiente, si cominciava a sentire l’esigenza di qualcosa di più vicino agli “immortali ideali”. Il MSI appariva, dopo la vicenda del ’68, troppo moderato, troppo borghese e perbenista.
Nasceva così “Ordine nuovo” che doveva restituire la volontà di combattere alle nuove generazioni.
Ecco uno stralcio di un documento programmatico del giornale di “Ordine Nuovo”:


"Se ci sentiamo legati al fascismo come al movimento politico autoritario e
gerarchico più vicino alle nostre esperienze dirette, più prossimo all'epoca
storica nella quale siamo vissuti, non per questo non potremmo non dire che
egualmente ci sentiamo vicini alla sostanza e ai valori, ai principi e alle idee
fondamentali che informarono l'essenza politica di ogni Stato autoritario o
aristocratico dei tempi andati [...]. Siamo vicini tanto alla Repubblica sociale
italiana che al III Reich, quanto all'lmpero napoleonico o al Sacro romano
impero [...]. Chi viene al nostro fianco avrà un’altra sensazione che è propria
del combattente quando a pie' fermo attende l'istante per balzare dalla trincea
e gettarsi nella mischia per colpire, colpire, colpire".


A questo punto, dalla penna di un esponente di O.N., Salvatore Francia, sul n°144 della rivista “Orion”, troviamo scritto:


“Gli anni 60 e 70 sono stati anni di duro impegno politico e spesso le posizioni assunte hanno risentito di artificiose posizioni imposte dall’ambiente politico esterno più che essere dettate da scelte effettuate liberamente”.
“Del fascismo, e non sarà mai ripetuto sufficientemente, sono state e continuano ad essere date definizioni le più diverse e stralunate, in nessuna delle quali credo di essermi mai identificato….”


Dallo stesso scritto si evince, per pacifica ammissione dell’autore, che:
“ci fu la tendenza a solidarizzare con la presenza europea in Africa, con i francesi dell’OAS, con i portoghesi dell’Angola e del Mozambico, con i bianchi del Sudafrica.”

Sempre per ammissione dell’autore si ignorava che:
“….l’OAS era sostenuta ed addestrata dagli israeliani dell’Irgun e dell’Haganah, avendo Israele tutto l’interesse a che non si realizzasse l’indipendenza di un altro stato arabo….”
• “…che il Sud Africa non era dominato da europei ma dalle multinazionali ebraiche dei diamanti e dell’oro ….”

Già da queste poche righe s’intravede la strumentalità dei propositi asservita ad ideali estranei alla tradizione fascista e nazionalsocialista. Tradizioni a cui ON asseriva d’ispirarsi.

Ed ancora, il soldato politico, Vincenzo Vinciguerra, nel libro “Ergastolo per la libertà - Ed. Arnaud ” scrive:

“Tanto rassicuranti erano l’atmosfera del MSI per i poliziotti e le vecchie
zie, tanto rivoluzionari erano in ON. …Tutto contribuiva a farlo credere: i discorsi, l’atmosfera cospirativa, i colori della bandiera, il motto delle SS:”Il nostro onore si chiama fedeltà”; solo l’aquila che volteggiava sul mondo, raffigurata sulla tessera di “Ordine Nuovo” aveva una somiglianza inquietante con quella americana, ma, a quel tempo, non si notava.”


Purtroppo, questo fu solamente fumo. Fumo che, in un certo senso, annebbio la vista a molti camerati in buona fede. A tutto ciò, chiaramente, bisognava dare una parvenza di “legalità” o, meglio, di base ideologica. Dopo avere inserito il fascismo nel “Solco della Tradizione”, si prefigurò, a tal guisa, una continuità ideale e morale che andava dai Legionari romani ai Cavalieri Templari, dalle Waffen SS alla Legione Straniera, finanche agli odiati “marines” americani. L’identificazione del comunismo quale “nemico comune” – anche se fatta in pieno clima di “guerra fredda” – non era accettabile per chi disponesse di un minimo di fierezza e di coerenza con le ideologie del passato. Questo, tuttavia, permise l’avvicinamento d’alcuni militanti neofascisti a strutture parallele che operavano all’interno dello stato.

Sempre Vinciguerra, scrive a pag. 5 del citato libro:


“La distinzione fra Stato e regime che tanti, o tutti, avevano
acriticamente accettato era una trappola che non aveva funzionato nel mio caso.
…Per me che sentivo quel passato come il mio passato e che mi collocavo
storicamente e idealmente al di qua della “linea Gotica” che segnava la via
divisoria non di due eserciti in guerra ma di due mondi e di due concezioni
antitetiche della vita, la sconfitta militare non aveva sancito la prevalenza
del migliore sul peggiore ma solo quella del numero e dei mezzi. Continuavo
quindi a restare al di qua di quella linea ideale e ad oppormi a tutto quello
che si trovava ad essa contrapposto: democrazie e comunismo, militari e
partigiani”.



Lungi dall’approfondire la materia delineata dal Vinciguerra, si può coerentemente affermare che, in quell’ambito, siano sorti non pochi equivoci.
La seguente parziale digressione potrà servire a chiarire i termini della coerenza di alcuni personaggi della cosiddetta area di “estrema destra”, senza alcun “pathos” ma, con la semplice constatazione “de facto” che anche le dichiarazioni fanno parte di una “strategia” abilmente messa in atto da capi e gregari…

In questo clima nacquero diverse tendenze che non erano proprie al fascismo originario ma, per converso, operavano in sintonia con gli apparati militari deviati e di controspionaggio. Questi apparati, inoltre, operavano in subordinazione alla CIA e ai servizi segreti stranieri.

Lo stesso Rauti, intervistato da “il Borghese” parla anch’oggi di “Teste calde e servizi”, respingendo ogni sua personale responsabilità.
Secondo Vinciguerra, (reo confesso della “Strage di Peteano”) Rauti “non poteva non sapere”. La stessa tesi è condivisa da scrittori, magistrati, giornalisti e da altri neofascisti.

Dello stesso parere è il pentito Enzo Siciliano, militante della cellula di Mestre di ON, capeggiata da Delfo Zorzi;
anzi, costui aggiunge alcuni aneddoti inediti sul conto del “nazista” Rauti. Ecco alcuni stralci raccolti dal settimanale “il Borghese” del 28-12-97.

Siciliano: “…Rauti era il padre-padrone di ON, avendolo fondato nel 1956, una volta uscito dal MSI. Ricordo quando veniva a Mestre, o a Venezia: ci arringava, diceva che bisognava “spegnere la Fiamma del MSI pisciandoci sopra” (oggi il simbolo del suo partito è proprio la fiamma!), ci incitava a rispondere con la violenza agli avversari.

Siciliano: “Rauti fu prosciolto, è vero. Peraltro stava per essere eletto deputato, con relativa immunità: insistendo su di lui, D’Ambrosio rischiava di perdere l’inchiesta. Il che accadde comunque, poco tempo dopo”.

Dopo queste amenità che, peraltro, la dicono lunga sulla coerenza di certi personaggi, passiamo a cose più serie.

Il Borghese: “ …dall’inchiesta su Piazza Fontana emerge una regia occulta di uomini dei servizi segreti italiani e americani. Aveva ragione chi, allora, parlava di “Strage di Stato”?

Siciliano: “Purtroppo si. Resta da capire quale Stato. Se quello italiano, quello americano, o tutti e due insieme…”

Peccato che il Borghese, allora diretto da Mario Tedeschi, era di diverso parere.

Per chiudere con “l’equivoco Rauti” citiamo una sua dichiarazione riportata sul libro “Interrogatorio alle destre”, Ed. Rizzoli, di Michele Brambilla.

“Avevo scelto di combattere per la RSI , sapendo che la guerra era perduta,
per motivi più patriottici che ideologici”.

Da questo si deduce che il “nazista” de “Il Tempo” mai fu fascista e, men che mai, nazionalsocialista!
Rauti non ha mai assunto un radicale presa di posizione contro il liberalcapitalismo e, soprattutto, contro gli Stati Uniti!
Difatti, nel breve periodo della sua segreteria, non fece alcunché per contrastare l’intervento italiano nella guerra del Golfo.

Queste sono solo alcune delle testimonianze più eclatanti. C’è ne sono molte altre. Il compianto Pisanò, che non ha mai dissimulato la sua “fede atlantica”, è stato uno dei primi ad indicare la responsabilità di elementi sovversivi di destra nelle bombe e nella strategia della tensione. Mi fermo qui.
Non è il caso di soffermarsi oltre su queste testimonianze. Come ho scritto prima, qui di esse interessa il valore d’indici di una confusione ideale strumentalmente ordita dai vertici in quegli anni.

La guerra non ortodossa - Il Convegno del Parco dei Principi.
Dal 3 al 5 maggio del 1965 si svolse in Roma il primo convegno di studi politici e militari indetto dall'Istituto Alberto Pollio, per iniziativa di tre giornalisti di destra, Enrico De Boccard e Gianfranco Finaldi e Edgardo Beltrametti. L’organizzazione del convegno fu realizzata con fondi forniti dal SIFAR e dall'Ufficio REI. Il convegno fu presieduto da un magistrato e da due alti ufficiali dell'esercito. Fra i relatori i nomi di Guido Giannettini e Pino Rauti; allo stesso partecipano, tra gli altri, Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino. Al convegno si parlò di "Guerra rivoluzionaria" in altri termini, di una dottrina che circolava da qualche anno negli ambienti militari. Il tema all’ordine del giorno era che una terza guerra mondiale fosse già in atto, non nelle forme tradizionali del conflitto dichiarato, ma condotta "secondo dottrine, tecniche, procedimenti, formule e concetti totalmente inediti... elaborati adottati e sperimentati dai comunisti in termini globali e su scala planetaria" ai cui "principi è ispirata comunque e dovunque la condotta non soltanto degli stati comunisti ma anche dei partiti comunisti che operano nei paesi del mondo libero" e per i quali "la competizione politica è in ultima analisi un fatto bellico avente come obiettivo la sconfitta totale dell'avversario". (Così Finaldi nella sua relazione introduttiva).
In altre parole, la ”guerra non ortodossa” prevede l’impiego dei Mass Media, di slogan “artatamente” suggestivi, in luogo dei fucili o di divisioni corazzate. Bisogna dire, a questo punto, che la struttura Gladio era già stata costituita da circa un decennio. Sembra quindi indubitabile l'esistenza in ambito militare intorno alla metà degli anni 60 di un dispositivo flessibile volto al contrasto di "sovvertimenti interni". Estremamente ragionevole è l'identificazione di tale dispositivo con l’organizzazione Gladio, nell’impraticabilità di dare al riferimento una base diversa. Da ciò l'ulteriore conferma dell'esattezza di un'ipotesi già in precedenza avanzata; e cioè l'impossibilità di ridurre i fini cui la struttura Gladio era stata costituita nello "stay behind" nell'ipotesi d’occupazione del territorio nazionale da parte di un esercito nemico. Ipotesi che veniva riconosciuta dallo stesso Beltrametti come ormai (già nel 1965) estremamente improbabile. A ciò si aggiunga che il convegno, stante la vastità e il grado di partecipazione determina una conferma della incapacità di ridurre le ipotesi di cui la Commissione è chiamata ad occuparsi, a meri momenti di deviazione degli apparati di sicurezza, sul presupposto che l’istituzionale circospezione di tali strutture ne legittimi un’attenta valutazione come monadi isolate. Gli atti del convegno attestano, peraltro, una ben più ampia rete di convergenti interessi, che riguardarono non soltanto le forze armate nella loro complessiva e articolata realtà, ma pure vasti settori del mondo imprenditoriale, politico e culturale. Parteciparono al convegno, tra gli altri, un qualificato esponente del ceto industriale come Vittorio De Biase che svolse un intervento dal titolo significativo: "Necessità di un’azione concreta contro la penetrazione comunista"; politici come Marino Bon Valsassina e Ivan Matteo Lombardo, Giorgio Pisanò, G. Accame, alti ufficiali, e intellettuali: uno spaccato sociale che chiaramente testimonia l’ampia disponibilità ad un impegno operativo comune. Peraltro se nella riflessione degli organizzatori del convegno i risultati già raggiunti (nell'approntare un dispositivo flessibile di risposta alla guerra sovversiva) apparivano eccellenti, diffusissima ed anzi unanime era la valutazione della necessità di un salto qualitativo ulteriore. De Boccard esortava la Commissione ad elaborare un piano per un mutamento radicale dell'intero dispositivo militare italiano al fine di una decisa e chiara risposta controrivoluzionaria. In particolare, degna di singolare attenzione appare la proposta avanzata dal Prof. Pio Filippani Ronconi di opporre "un piano di difesa e contrattacco rispetto alle forze di sovversione" predisponendo uno "schieramento differenziato su tre piani complementari, ma tatticamente impermeabili l'uno rispetto all'altro", utilizzando "le tre categorie di persone sulle quali si può in diversa misura contare".
Da quanto delineato, appare incontrovertibile l’interna commistione tra apparati militari, imprenditori, politici e intellettuali. Tutti volti nel perseguire lo stesso ed identico fine.

La Reazione alla “Guerra rivoluzionaria” di Mosca.

L’attuazione pragmatica delle contromosse “atlantiche” comincia con l’assunto di Rauti:

“Oggi la difficoltà di combattere il comunismo dipende quasi esclusivamente dal fatto che i comunisti non si vedono”.

Si cominciò a delineare la tecnica dell’infiltrazione a sinistra. Si sfruttò, all’uopo, la divergenza allora esistente tra la Cina maoista e l’URSS. Nel 1967 questa teoria si realizzerà concretamente attraverso l’opera di Claudio Orsi, Claudio Mutti e, soprattutto, di Pier Giorgio Freda. Quest’ultimo non si limitò all’azione, ma approntò una sorta di “bibbia” del reazionario. L’opera in quistione prende il titolo de “La Disintegrazione del Sistema”. Nella stessa ottica deve vedersi l’affissione dei manifesti cinesi inneggianti al presidente Mao. Questa azione “infiltrante” - secondo il Vinciguerra - era da attribuirsi al direttore de “il Borghese”, Sen. Mario Tedeschi. Nasce cosi il soldato controrivoluzionario.
Il passo verso il baratro fu breve.

La strategia della tensione – Il depistaggio delle indagini
Questa terribile e deprecabile strategia mirava a “destablizzare per stabilizzare”; vale a dire, destabilizzare l’ordine pubblico (seminando panico ed orrore nelle piazze) al fine di stabilizzare l’ordine politico. In parole povere, s’induceva, subdolamente e obliquamente, la popolazione a rinunciare a parte della propria libertà al fine d’ottenere una maggiore sicurezza. Questa, sicuramente, è una delle pagine più esecrabili della nostra storia recente; in quanto vi era una guerra in atto senza che la popolazione fosse stata avvertita. Si giocò, in questo modo, sulla pelle di innocenti una guerra sporca, indegna di un mondo libero e consapevole delle proprie scelte. Questa bieca e macabra messa in scena, trovò il suo completamento nel depistaggio delle indagini. Da qui, era divenuta una prassi consolidata dopo attentati, stragi ecc. quella di deviare le indagini su altri “siti”, affibbiando, di volta in volta, la responsabilità ad esponenti della sinistra extra parlamentare, scatenando, tramite i mezzi di comunicazione, la furia popolare. Si strumentalizzò ogni attentato al fine del mantenimento dello Status Quo. Non solo. Anche coloro i quali si misero a servizio dello stato, furono “traditi”. E lo furono in grazia della “Ragion di stato”.

I samurai, il bushido e la razza euro-giapponese.
Molto si è scritto sui problemi legati all’appartenere a una data razza e al razzismo in genere. Molto meno si è letto circa il razzismo biologico e quello che a noi più interessa: il razzismo spirituale. Andiamo per ordine.
Qui varrà il caso di citare integralmente il Vinciguerra che a pag. 9 della prefata opera scrive:
“Non era solo tempo di spioni e di poliziotti travestiti da nazisti, ma anche di progetti la cui origine, all’epoca, non riuscivo ad individuare con certezza. Progetti strani e strane idee, come quello della creazione di una razza euro- asiatica o , più specificamente, euro-giapponese, destinata nel tempo a divenire la nuova razza padrona del mondo. I suoi fautori e sostenitori non erano burloni perché alle parole facevano seguire i fatti, magari sposandosi con qualche giapponesina e mettendo al mondo dei figli che assicurassero il diritto di assidersi nella futura élite nata dall’incrocio fra le due razze. Follie? Forse. Rimane incontestabile e documentato il fatto che all’epoca tutte le cosiddette case editrici di destra, e non solo quelle, si affrettarono a riscoprire il Giappone, i giapponesi, i samurai e l’immancabile tradizione esoterica e guerriera dei figli del sol levante. Sfornarono decine di libri che presentavano il Giappone in tutti i suoi aspetti migliori e che però avevano un difetto, il solito: erano rivolti al passato e non al presente. Anche questo era inevitabile perché nel Giappone d’oggi non v’è più posto, da molto tempo, per le tradizioni guerriere e per il bushido, il codice d’onore dei samurai, i quali erano tanto diversi dai giapponesi di oggi come lo è la luce dalle tenebre. “

Appare evidente l’illusione chimerica di una tale grossolanità ideale. urtuttavia, bisogna ricondurre il problema al suo aspetto autentico. Ebbene, anche qui, sarà opportuno rimandare alla lettura di alcuni testi del ”maestro”, Juilius Evola. Il “Barone ghibellino”, già nel 1942, in pieno periodo delle leggi razziali, auspicò la differenza tra il razzismo scientifico, inutile ed anacronistico e quello dello spirito. Quest’ultimo, fra l’altro, scriveva:
“L’indirizzo scientista della propaganda razzista è sbagliato, perché se l’idea della razza da noi deve divenire davvero una forza, essa deve essere intesa in primis et ante omnia in sede etica e politica, spirituale ed eroica…”
Ed anche:
“Ora si sa bene che dal punto di vista scientifico e puramente biologico una razza italiana non esiste…”
“Giacché l’ebreo, da noi, è stato messo al bando non perché le sue labbra e il suo cranio si differenziassero davvero radicalmente da quelli di alcune componenti mediterranidi, presenti anche nel nostro popolo, bensì sulla base delle sue opere, del suo modo d’essere e d’agire, del suo spirito.
Orbene, lungi dal dilungarci in una simile digressione, appare superfluo rimarcare ciò che, avanti ora, è stato lapidariamente scritto. Perciò, è essenzialmente la tesi evoliana che conta.
La civiltà Spartana, quella ariana d’Oriente e l’aristocrazia romana non avevano bisogno di simili sciocchezze per autentificare qualcosa che intimamente e pubblicamente sapevano di possedere.

Fine della terza parte.

martedì 13 luglio 2010

La critica della reazione

LA SCUOLA E IL ’68.

"I contestatori distruggono quel che il potere neo capitalistico vuole abbattere… usano contro il neo capitalismo armi che portano in realtà il suo marchio di fabbrica e sono quindi destinati a rafforzare il suo dominio”


Pierpaolo Pasolini.



Abbiamo letto con vivo interesse lo scritto “Insieme per una nuova etica politica” e, dobbiamo aggiungere, non senza un malcelato imbarazzo. Nonostante i buoni propositi del titolo non si sono sinora intravisti altrettanto buoni propositi per “rimanere insieme”; ma, unicamente, accese invettive! Non che questo sia oggettivamente deprecabile, però…
Veniamo al dunque. In primo luogo, ci soffermeremo sulla parentesi sessantottina citata nella seconda parte dello scritto in questione. Vera è la storia di Valle Giulia e la partecipazione del MSI alla carica dell’Università Romana.
La scelta di non appoggiare e, anzi, di opporsi energicamente alla “marmaglia rossa” trova seguito e coerenza nell’opposizione alla logica della sovversione studentesca che mirava a dissolvere e distruggere l’ultimo baluardo della società civile. D’altra parte, troviamo penosa la “commedia” inscenata sulle pagine della rivista “Area”, da parte dell’On. Giulio Caradonna che, in uno scritto a sua firma, si dissociava e scaricava la sua personale responsabilità su Almirante e Michelini. In altre parole, costui si è appiccicato addosso la figura del “servo sciocco” oppure, quella più attuale dell’utile idiota. Ma tant’è. Il ’68 e la rivoluzione studentesca hanno rappresentato il punto terminale dello stato di degrado venutosi a creare all’indomani del dopoguerra. La scuola, in particolare, è stata la prima “vittima sacrificale” dei cosiddetti “Yupppies” odierni, i creativi, gli pseudo-intellettuali, di coloro i quali “volevano fare la rivoluzione”.
Parole come: “Basta con la formazione selezionativa… Distruggiamo la scuola istituzionale… Eliminiamo i professori… Evviva l’alfabetizzazione di massa…" sono state pronunciate negli anni ’70 da colui che siede sul più alto scranno dell’odierna Scuola Italiana: il ministro, Luigi Berlinguer.
Per il resto condividiamo pienamente la tesi sulla conseguente colpevolizzazione della destra e sulla sua relegazione nel “ghetto delle idee”. Ma noi confidiamo nel tempo e auspichiamo che questo “galantuomo” ci dia ragione. Concludiamo questa parte sulla Scuola e il ’68 sottoponendo all’attenzione dei lettori uno stralcio tratto da: Giorgio Almirante “Autobiografia d’un fucilatore”
Ciarrapico, Roma.


"Scuola, la mia generazione ti ringrazia. C'è tanta malinconia in questo ringraziamento perché sappiamo che non ti rivedremo più, ma con pari
certezza sappiamo che mai ti vedranno i nostri figli, i nostri nipoti. Nessun'altra istituzione è stata così spietatamente corrosa, cancellata dalla ruggine del tempo. Il che non vuol dire che tu fosti sbagliata. Eri antica. Avevi difeso tra le vecchie mura i metodi, come quei vecchi borghi toscani, umbri o marchigiani che vivono senza tempo più che fuori tempo, che rifiutano di misurarsi col ritmo imposto dall'uomo all'uomo nel nome della civiltà. Eri antica e patetica. La tua inflessibile capacità di coltivare il silenzio emergeva in ogni attimo, quando di colpo in apertura taceva e in chiusura scoppiava, al segnale di un campanello, il cinguettio dell'infanzia e il brusio dell'adolescenza. Dicono che tu fossi pedante, dispensatrice sterile e puntigliosa di inutili nozioni. Ed è strano che te lo dica la civiltà delle macchine, dei numeri, della musica dodecafonica, degli astratti e sterili simbolismi artistici. Tu, scuola, insegnavi. Insegnavi chi era Dante per farci capire quel che Dante scriveva.
Indulgevi all'eccesso delle nozioni quando la pigrizia nemica d'ogni scuola e d'ogni studio, meccanizzava l'insegnamento, lo disumanizzava. Di frequente
eri anche, pertanto, la scuola dello sbadiglio; e quando spalancavi su noi le fauci con i tuoi terribili esami di maturità, sapevi anche essere la scuola della tensione nervosa e della confusione mentale. Ma eri in ogni caso la scuola dell'esempio, perché eri la scuola del dovere. Le tue cattedre erano troppo alte, in parecchi casi troppo elevate e lontane; ma il fatto che per definizione fossero ad un superiore livello di sapere, accreditava nella nostra coscienza, forse nel nostro istinto, il
convincimento che si trovassero anche ad un superiore livello di civiltà e di moralità. Sicché tu, scuola non ti limitavi ad
insegnare, con quei tuoi
modi e metodi antichi. Tu ci educavi. Ciò significa che sapevi farti amare. Anelavamo, in quell'ambiente di dovere e quindi di compressione, alla fine della lezione, alla fine della mattinata, agli intervalli, alla fine dell'anno, alle vacanze; ma, licenziati o diplomati o "maturi" tornavamo a trovarti; e non di rado i1 rapporto d'amicizia che il timore reverenziale aveva prima impedito, si manifestava dopo; e rivedere il professore, il preside, a scuola finita, era una piacevole emozione. C'è chi tra noi, cinquantenni, sessantenni, rivede i tuoi non restaurati edifici, antica scuola, e quasi non li riconosce per le scritte che li deturpano, per l'inciviltà che li stringe in stato d'assedio; e vorrebbe poter rientrare inosservato e tranquillo, non per ritrovare la propria giovinezza, ma per cercare di raggiungere, lì dentro, lo spirito di una generazione che entro quelle pareti apprese a conoscere se stessa".

Giorgio Almirante.

Arrivederci alla prossima!

lunedì 12 luglio 2010

Insieme per una nuova etica politica (seconda parte)


La collocazione errata del fascismo e dei suoi epigoni a destra.

La volta scorsa ho, in modo oltremodo eloquente, spiegato le ragioni della mia distanza dalle cosiddette organizzazioni partitiche "classiche". Questa volta, invece, mi soffermerò sui preconcetti acquisiti e "genetici" della cosiddetta area di destra. Il primo concetto errato è, fuor di dubbio, la collocazione del partito missino a destra. Il 26 dicembre, nello studio di Arturo Michelini, fu fondato il MSI. All'inizio questo movimento nacque come strumento per assicurare una cittadinanza politica ai reduci fascisti, mantenendo, altresì, una continuità ideale con i valori esemplarmente incarnati nell'epopea di Salò.
Fino al 1948, Il MSI non aveva ancora sposato le ragioni della destra. La prova palese di tutto ciò va ricercata nel dibattito che seguì dopo la collocazione (in senso letterale) in parlamento all'estrema destra dei parlamentari missini.
In quell'occasione si rispose - assicurando la base militante - che l'opzione non era "ideologica" ma solo "tattica". Questo perché gli uomini di Togliatti erano seduti all'estremo opposto. Questa è la storia ufficiale.
In realtà, sia per posizione presa da parte di alcuni membri sia per l'influenza esercitata dai "centri di potere", il MSI si trasformò, gradualmente e diabolicamente da forza dinamica, antiplutocratica e rivoluzionaria in una forza statica, conservatrice al servizio dello Stato democratico antifascista!
Nel 1949, dopo un dibattito acceso e aspre polemiche, questo "movimento" si trasforma in un breve lasso di tempo da partito anti-americano a portabandiera dell'alleanza atlantica. Il passo successivo viene compiuto nel 1952. In occasione delle amministrative le liste missine ottengono un successo elettorale per un accordo a Roma tra missini, monarchici e democristiani. Ma veniamo al punto. Il primo preconcetto da rimuovere è quello dell'anticomunismo. Giuseppe Rauti fu il primo a determinare limpidamente la differenza tra bolscevismo e comunismo. Difatti su la rivista "Asso di bastoni" del 2 -01-55 scriveva, tra l'altro:
"La generica aspirazione anticomunista(…) si divide e si differenzia nettamente. C'è l'anticomunismo dei "valori", e c'è l'anticomunismo degli interessi. Ci sono quelli pronti a reagire contro la sovversione dilagante, per creare qualcosa di nuovo, e ci sono quelli che sono disposti solo a difendere quello che già esiste. V'è, insomma, un anticomunismo borghese ed un anticomunismo rivoluzionario, quello che per meglio distinguersi, ameremmo veder chiamare col suo più vero nome: antibolscevismo".

Peccato però, che dopo meno di dieci anni, Rauti rinnegò integralmente le sue convinzioni e si pose al servizio di chi nasconde solidi interessi, anziché proseguire sul difficile percorso prima intrapreso.
L'equivoco è così diffuso che neppure i vertici ne sono rimasti immuni. Mirko Tremaglia in un'intervista rilasciata alla rivista "AREA" dichiara:
"Allora Rauti era l'antitesi della sinistra: quando facemmo il congresso dell'Aquila, nel '53, da una parte c'eravamo noi, chiamati i "visi pallidi" che eravamo quelli della “sinistra”, e poi c'era Rauti che capeggiava "i figli del sole" cioè la destra "aristocratica" del raggruppamento…"
Beh, sono cambiate tante cose d'allora, vero?".
Dopo aver letto ciò, si sarebbe tentati di chiedere a Tremaglia il motivo (vero) per cui non si è iscritto al PCI di Togliatti.
Adesso, senza entrare nel merito di questa strumentale e improvvisata dichiarazione, ritengo utile sgombrare il campo da questi inutili dubbi citando il maestro, Julius Caesar Andrea Evola.
Il Barone nero, anticomunista serio e convinto, ha sprecato litri d'inchiostro per spiegare ai sedicenti camerati questa esemplare verità:

"L'antitesi vera non e' quella tra capitalismo e marxismo, ma è quella esistente tra un sistema nel quale l'economia è sovrana, quale pure sia la forma che essa riveste, e un sistema nel quale essa è subordinata a fattori extraeconomici entro un ordine assai più vasto e più compiuto, tale da conferire alla vita umana un senso più profondo e di permettere lo sviluppo delle possibilità più alte di lei."


Ma tant'è…

Franco Cardini, nel numero 18 de "lo Stato", lucidamente, scrive:
"La risposta è tutta compresa in un equivoco e un paradosso: il 1848.
Per questo, le destre non sono omologabili. Esistono i liberal-conservatori, come i Gentile, i Salvador de Madariaga, Gli Ortega y Gasset, i Max Weber. Ma questo tipo di Destra non ha nulla ha che vedere con quella che nasce dalla Controrivoluzione, né con quella che - animata da un odio feroce e irremissibile contro i valori borghesi usciti dall'ottantanove - finisce spesso col simpatizzare con utopisti e rivoluzionari".

E' noi a questo ultimo tipo dobbiamo riferirci e, di conseguenza, impostare la nostra politica comune. Bisogna disfarsi, al più presto, dell'inutile ciarpame nostalgico e imboccare una "strada nuova".
Un altro macroscopico errore va sicuramente rintracciato nel voler associare il fascismo alla destra. La sola connessione tra il fascismo correttamente inteso e la destra la si può ritrovare solo col nazionalismo. Dopo di che, le strade si dividono in modo irreversibile. Il socialismo rivoluzionario di un Sorel, la morte di Bombacci insieme ai gerarchi fascisti, il nichilismo di Nietzsche, il disprezzo dell'essere borghese di Drieu La Rochelle, non possono in alcun modo essere associati alla "moda borghese" di destra e di sinistra!
Per quanto concerne, poi, il fascismo, le sue origini e soprattutto l'epopea della RSI, non vi sono, a mio parere, dubbi di sorta. A prescindere dalla provenienza socialista del Duce e dall'incarnazione sociale e nazionalsocialista dell'esperienza finale, vi sono numerosi scritti del ventennio che confermano in modo inequivocabile le scelte operate da Mussolini. Scriveva Benito Mussolini il 7-04-1926:
"Noi rappresentiamo un principio nuovo, noi rappresentiamo l'antitesi netta, categorica, definitiva di tutto il mondo della democrazia, della plutocrazia, della massoneria, di tutto il mondo, per dire in una parola , degli immortali principi dell'89(…)"

A tutt'oggi, v'è, da parte di qualcuno, l'infelice scelta di associare il Fascismo al liberalismo. Non so se questo sia avvenuto più per caso (il caso non esiste) o per attirare alcuni nostalgici verso il lido sicuro dei propri interessi. Il fascismo è la negazione del liberalismo e dell’individualismo. Il fascismo è avanguardia totale, rispetto al marciume ideale ed epocale del 1789 del '48 e del 1917. Il fascismo e il nazionalsocialismo sono il superamento del materialismo storico marxista ed insieme il ripudio della società del "benessere borghese". A questo "benessere" il nazifascismo contrappone un altro benessere: il sano spirito legionario. Per operare una sintesi. Il fascismo è rivoluzionario nei principi, nelle idee e soprattutto nelle azioni. La destra è conservazione dell'ordine borghese, reazione, politica antipopolare al servizio del capitale, delle banche e di chi ha solidi interessi da difendere. Nessuna analogia con la porcilaia borghese. Nessun apparentamento coi monarchici reazionari. Le somiglianze artificiose servono ai massoni del blocco conservatore, alla destra tutta, che nell'attuale clima, tendono a dividere il fascismo buono da quello cattivo. Questa è la strategia elaborata e portata a compimento da tutta la destra, a scapito dei camerati in buona fede. Per rendersene conto basta leggere un qualsiasi giornale di destra.
Ma veniamo ai giorni nostri. La rappresentazione più eclatante e macroscopica la si è avuta nel '68. Non ricorderò, per essere breve, le vicissitudini di Valle Giulia e l'assalto all'Università di Roma deciso dal MSI. Ad ogni buon conto, si può affermare, senza tema di smentita, che nel breve lasso di tempo intercorso fra questi due eventi nasce e muore l'unica idea di una rivoluzione unitaria antiborghese.
L'idea così teorizzata da Pierre Drieu La Rochelle moriva sul nascere, per mano di Almirante, Caradonna e altri. Dopo quest'ultimo episodio il potere utilizzo, a propria discrezione e consumo, i due opposti estremismi per consolidare e mantenere lo "Status quo". Appare evidente, che a farne le spese maggiori fu proprio il neo fascismo. Difatti, da quel momento, si guadagno, sul campo, la nomea di violento reazionario. Non solo! L'università perse i suoi rappresentanti. La cultura, già fortemente politicizzata e antifascista, si consolidò come unica cultura dominante del paese. La sinistra aveva messo a segno un altro importante obiettivo gramsciano: la conquista del potere culturale. Il neofascismo, per converso, fu punito e relegato nel ghetto o, meglio, nella "fogna".

Fine della seconda puntata.

sabato 10 luglio 2010

Insieme per una nuova etica politica


Ripropongo, qui appresso, un articolo saggio di diverso tempo fa, pubblicato sul sito Carpe diem et rape oscula.

Nuovi Orizzonti (prima parte)

Di fronte alla rinascita di vari gruppi e/o partiti di poca importanza, è d'uopo ampliare gli orizzonti e auspicare unità d'intenti e chiarezza di vedute. Da sempre e, aggiungo, per fortuna, mi sono sempre astenuto dall'appartenere a qualsiasi "partito" e questo non solo per motivi ideologici.
Le altrettante rappresentazioni mentali di partito e di tesseramento sono, per me, concetti mefitici, rimasugli esiziali dell'esperienza liberale e democratica. Queste idee, cui, sovente, fanno riferimento i politici nostrani, sono scaturite dalla Rivoluzione Francese. Gli stessi concetti di destra e di sinistra sono degli ambiti di riferimento troppo angusti e, spesso capziosi, che non danno idea alcuna dell'eterogeneità degli schieramenti. Se, poi, usciamo dai confini nazionali, questi concetti sono addirittura vertibili. Ritengo necessario, perciò, iniziare a trasmettere quelle importanti nozioni di buon discernimento, che fanno riferimento alle idee tradizionali di Stato organico in contrapposizione allo Stato Sistema. Per chi trovasse estranei questi concetti, rimando alla lettura dei testi di R.Guenon e, soprattutto, di Julius Evola. Ritornando al girone degli esclusi, si può affermare, senza tema di smentita, che la destra in Italia è stata solo un utile paravento al servizio del "Sistema".
Mi spiego ulteriormente.
Il neo fascismo è stato usato spesso a mo' di scudo contro il veterocomunismo e, talvolta, come spada al servizio d'interessi del tutto estranei, se non addirittura contrari, agli stessi militanti.
In cinquant'anni d'attività (sarebbe meglio parlare di sopravvivenza!) nulla di veramente esemplare è stato compiuto. Per converso, si è assistito ad un continuo ed inesorabile svilimento degli originari ideali che, invece di essere conservati, sono stati progressivamente traditi e "aggiornati" alle direttive del potere. Molti si meravigliano della svolta di Fini a Fiuggi. Nulla di più chiaro e previsto.
Il movimento senza importanza è, sin dalle sue origini, NATO per contenere, dirigere e condizionare gli stessi militanti. Altro che esuli in patria! Altro che ideali da vivere e memoria da conservare!
Il primo segnale s'è avuto con l'adesione al Patto Atlantico. Adesione, questa, apparentemente tormentata ma, in realtà, preordinata dai vertici al fine d'accordare la più ampia disponibilità ai nuovi padroni; adesione non necessaria, in quanto il suddetto movimento non contava "un fico secco" perché piccolo e al di fuori dell'arco costituzionale. Inoltre, la sua storia è contrassegnata dal trasformismo e dall'utilitarismo più bieco. Qui, di seguito, riporto le principali enormità:

• l’adesione al Patto Atlantico;
• l’inclusione della didascalia D.N. nell’egida fiammeggiante ed il conseguente apparentamento coi monarchici;
• la repressione sistematica degli spiriti ardimentosi e la commistione con logge d'ogni genere e rango;
• la difesa dell'essere Borghese come modello di vita anteponendolo al sano spirito legionario;
• ed infine “last but not least” la connivenza con gli apparati deviati e non deviati dei “servizi”.

Oggi, più che mai, dovrebbe riaffermarsi quell'idea "tradizionale", che riporti in vita l'ordine virile e luminoso dello Stato. Questo "Nuovo Ordine" della reazione dovrebbe rovesciare l'immagine delle ginecocrazie plebee.
Lo Stato non è espressione della "società"(1). La concezione sociale dello stato è indice d'una regressione naturale dello stato, che passa dal maschile al femminile, dal polo positivo al negativo. Il positivismo sociologico che è alla base di predetta concezione, non fa altro che convalidare questa tesi. Il potere Anagogico che caratterizza il suddetto modello di assetto societario, è praticamente nullo.

giovedì 1 luglio 2010

Monsieur Céline, un esasperato anti-borghese

Parlare di scrittori “maledetti” è sempre operazione ardua, a causa delle contrastanti reazioni che le loro opere hanno il potere di suscitare in chi legge. La cosa si complica ancor più se di fronte ci si trova un certo Louis Ferdinand Destouches (l894 – 1961), noto universalmente con il nome d’arte di Céline (preso dalla nonna materna cui era molto legato). In Italia, l’ostracismo di certi critici verso di lui è ben rappresentato da Massimo Onofri, che nel suo Recensioni. Istruzioni per l’uso (Donzelli, 2008) lo ha snobbato, dedicandogli solo un paio di citazioni. Fortunatamente, non tutti sono su questa linea, come ha dimostrato l’anno dopo Marina Alberghini con il suo Gatto randagio, edito da Mursia. Comunque, a darci una mano per tentar l’impresa di raccontare l’impatto delle opere di Cèline in Italia, c’è un apprezzabile libro di un quinquennio fa, intitolato Céline in Italia e pubblicato dalle edizioni Settimo Sigillo di Roma. Maurizio Markovec vi ricostruisce con dovizia di riferimenti bibliografici la vicenda di tutte le traduzioni ed interpretazioni dei lavori di Céline, che si son succedute qui da noi a partire dal 1933, allorché apparve ad opera di Alex Alexis (pseudonimo di Luigi Alessio) un puritana versione italiana di Voyage au bout de la nuit, che all’epoca sfiorò il prestigioso Premio Goncourt. Per quanto depurato da tutte le espressioni che potevano apparire volgari in un clima poco disposto a tollerarle, questo racconto - al pari del successivo Morte a credito - suscitò commenti complessivamente negativi, come quelli della rivista cattolica Il Frontespizio o de Il Saggiatore, per non parlare di una stroncatura di Margherita Sarfatti su La Stampa. In effetti, il primo Céline, anche a motivo del suo antimilitarismo e dei virulenti attacchi alla società borghese, si prestava a piacere maggiormente ad un Trotsky, il quale nell’ottobre del ’35 ebbe per lui parole lusinghiere. Il famoso rivoluzionario russo non s’avvide che nessuno era fuori tiro con quella scheggia impazzita della letteratura che fu Céline, capacissimo di scrivere un Mea culpa contro il regime sovietico e di dissacrare ferocemente anche le tematiche sociali.
I proletari, infatti, secondo Céline avevano quale “unica aspirazione profonda nient’altro che l’accesso alla borghesia”: E pertanto meritavano anch’essi l’appellativo di “avidi budelli… assorbiti dalle funzioni bassamente digestive”, loro affibbiato su L’ècole des cadavres (unico testo ancor oggi non tradotto in Italia). Il severo giudizio, come si vede, non è da meno delle feroci stoccate da lui tirate al “borghese ben pasciuto”, i cui soli ideali – secondo una felice espressione di Maurice Bardèche – sono l’aperitivo, lo stipendio e le vacanze. In realtà, gli strali disgustati e dissacranti di Céline sono diretti contro l’intero genere umano degli ultimi due secoli, “folle di orgoglio, gonfiato dalla meccanica” e “trascinato per la trippa” e del quale “si conserverà solo la parola m…”. Nel calderone delle sue invettive finiscono infatti per cadere tutti, senza distinzioni di razza, sesso, ceto o religione, in un j’accuse delirante che non risparmia proprio nessuno. “Io aderisco a me stesso, finché posso…”, scriverà sulla scia di Nietzsche questo grande anarchico del pensiero. La sua ostilità verso il mondo moderno ci porta all’aspetto più delicato di alcuni suoi scritti, il più famigerato dei quali è Bagattelle per un massacro, recentemente ritirato dal commercio per volere della vedova a causa del fortissimo antisemitismo.
I più entusiasti critici dell’opera céliniana come Ernesto Ferrero e Giovanni Roboni hanno parlato al riguardo di un delirio “tutto metaforico”, invitando a non confondere il suo io reale con il suo io lirico o apparente, costruito apposta per soli fini letterari. La tesi non convince, anche se effettivamente l’oltranza troppo esagitata dei libelli (oggi) meno presentabili di Céline può apparir tale da scongiurarne ogni possibile efficacia propagandistica. Analogo discorso ha da valere in ordine all’accusa di collaborazionismo, definita “pretestuosa” da Elio Naselli, ritenuta invece vera da Stelio Solinas e mitigata da un “a modo suo” da Alberto Rosselli. In realtà, sia il governo di Pètain che i nazisti non mostrarono grande simpatia per un autore ritenuto decadente, ampiamente ricambiati peraltro dal misantropo di Courbeoie. Sta di fatto che l’accusa mossagli da Radio Londra durante la seconda guerra mondiale, equivalendo ad una condanna a morte, lo costrinse a cercare rifugio in Danimarca dove poi finì fortunatamente solo in prigione.
La drammatica fuga attraverso la Germania agonizzante divenne poi oggetto della famosa Trilogia del Nord degli ultimi anni della sua vita. Per certe sue posizioni estreme, Céline fu sicuramente un personaggio capace di suscitare antipatie persino a destra, anche se una parte del nazionalismo più razzista ne farà un’icona. Quanto alla sinistra, é notorio che nel dicembre 1945, mentre impazzava l’epurazione contro i collaborazionisti francesi, Jan-Paul Sartre gli sferrò con il suo Portrait d’un antisémite la pericolosissima accusa d’esser stato addirittura “pagato” dai nazisti.
Céline, il quale durante l’occupazione tedesca si era abbastanza defilato limitandosi a scrivere un articolo e alcune lettere ai giornali, replicò duramente con il pamphlet al vetriolo ‘A l’agité du bocal. Il padre dell’esistenzialismo, che dal canto suo aveva potuto mettere tranquillamente in scena un’allegoria dell’occupazione tedesca dal titolo Les Mouches addirittura nel giugno del ‘43, vi finì triturato sotto una caterva di epiteti irripetibili, il più gentile dei quali suona come tenia des étrons. Al riguardo, ricordiamo a chi vi fosse interessato che questo libello di Céline è stato pubblicato nel 2005 a cura di Andrea Lombardi dall’Effepi di Genova (via Balbi Piovera, 7). A parte l’aspetto ideologico-politico, che ha indotto spesso gli editori che l’hanno pubblicato a prendere prudentemente le distanze da certe sue invettive razziste suscettibili oggi dei rigori della legge, Céline ha rappresentato un vero caso letterario essendo l’inventore, secondo Phlippe Sollers, di una “ritmica sbalorditiva, mai udita” nella lingua francese, capace di attirargli l’elogio di Ezra Pound e di Henry Miller e di farlo porre accanto a Bernanos (Carlo Bo) o a Marcel Proust (Giuseppe Guglielmi). Padroneggiando con maestria l’argot, che è il gergo forte e marcato delle caserme, dei bassifondi, della mala e del pronto soccorso degli ospedali francesi da lui bazzicati come medico, Céline ha innovato profondamente il linguaggio ufficiale mettendo così in seria difficoltà chi si è cimentato nelle traduzioni delle sue opere perché neppure il dialetto riesce a renderne appieno il senso.
L’altro aspetto rivoluzionario di Cèline è stato l’uso di una parlata frenetica, intercalata da un lessico iperbolico, aspro e dirompente, inframmezzato da esclamativi e puntini di sospensione, a sottolineare la concitazione del discorso. Questa tecnica sulfurea, secondo Giovanni Bugliolo, ha operato il miracolo di far riacquistare “una verginità assoluta” anche ai più “logori espedienti narrativi e retorici”. Da questi cenni necessariamente brevi si comprende perché Céline è destinato a far discutere ogni volta che viene ripubblicato. Egli ci pone infatti di fronte ad un dilemma che non ammette vie di mezzo: o lo si ama o lo si odia. E odiarlo risulta decisamente più comodo.

Articolo letto: 617 volte (24 Gennaio 2011)