mercoledì 10 aprile 2013

Il Fascismo tradito


Spesso sentiamo parlare di "Risorgimento tradito" oppure di "Resistenza tradita"... ma, mai e poi mai, sentiremo parlare (almeno nelle alte sfere accademiche) di "Fascismo tradito". Perché? A cosa dobbiamo questa deficienza? Le risposte sono parecchie ma la prima che ci viene in mente è quella legata alla guerra perduta e al lascito che i vincitori affibbiarono alla nostra Italia.
Eppure se dovessimo portare il nostro pensiero scevro da pregiudizi a ciò che il fascismo degli albori aveva nel suo programma si scoprirebbero tensioni ideali,  culturali, sociali e moti di giustizia, legate ad una profonda ansia di trasformazione totale della società e dei rapporti economici civili e politici. E allora ben si può affermare che questi nobili ideali, furono traditi nella prassi conciliatoria di un "fascismo-regime" che poco aveva a che fare con quello che i nostalgici della prima ora avevano in mente e nei cuori. 
Il risultato di questa profonda dicotomia che si venne a creare fra la prassi instaurata dalla diarchia Mussolini-Savoia è stata a lungo evidenziata dal fratello più amato dal Duce: Arnaldo Mussolini. Arnaldo Mussolini scrisse che: "le conseguenze non sono uguali alle premesse". Da questo punto di vista, in vero assai autorevole, la distinzione fra una teoria rivoluzionaria  e una prassi conciliatoria appare in tutta la sua essenza di "rivoluzione tradita". 

Infatti, c'è stata tutta una generazione che - per ovvi motivi anagrafici - non è nata affetta dal "morbo antifascista"... ma lo è diventata col passare del tempo ed in seguito agli effetti nefasti ingenerati dalla guerra perduta.  La perdita della guerra che fu anche e soprattutto una guerra del sangue contro l'oro influenzò notevolmente queste generazioni che non avevano fatto in tempo a combatterla attraverso delle riflessioni  su ciò che il fascismo aveva espresso sul piano pratico, dimenticando quello che invece esso aveva alacremente teorizzato.

Occorre qui fare qualche esempio per rendere più comprensibile quanto vado affermando.
Sarebbe  assai difficile - per uno studioso coi paraocchi - immaginare Elio Vittorini ospite ufficiale a un convegno del Ministero della Propaganda  nazista... più facile è collocare un Evola o un Preziosi al suo posto. E invece,  a Weimar , nel bel mezzo della guerra (1942), c'era proprio lui: Elio Vittorini. Questo è quanto emerge in "Mussolini Censore" - Laterza -  Bari, a firma di Guido Bonsaver, docente di storia della cultura italiana alla prestigiosa università di Oxford. E ancora.
"Gli Indifferenti" di Alberto Moravia fu accolto con favore dai fascisti più convinti proprio per la descrizione negativa che l'autore faceva della borghesia. Infatti il primo a pubblicare il romanzo a pagamento, per i tipi della Alpes, fu il fratello del Duce: Arnaldo Mussolini. Del resto lo scrittore romano oltre ad essere  cugino dei fratelli Rosselli era, altresì, nipote di Augusto De Marsanich, fascista di lunga data e futuro segretario del M.S.I. 
Sul piano teorico il fascismo si fece portatore di una concezione spirituale della vita, di una concezione profondamente anti-borghese. Nel fascismo regime tutto questa concezione si sciolse come neve al sole.  
Tale affermazione viene confermata dall'adesione di ampi strati della cultura dell'epoca. Artisti come Renato Guttuso, scrittori come  Elio VittoriniElsa Morante, e registi come Carlo Lizzani, ed altri furono letteramente calamitati dallo spirito anti-borghese e dalle istanze sociali che il fascismo delle origini affermò con forza. Tuttavia costoro rimasero assai delusi da quello che fu realizzato sul piano pratico. Bisogna anche dire, però, che Mussolini voleva fare le cose in modo graduale e che quindi sarebbe forse arrivato con il tempo dove non gli fu possibile arrivare con la guerra.  Sotto questo punto di vista l'accellerazione impostagli dalla guerra risultò fatale.

Per questo motivo criminalizzare il fascismo di un Eugenio Scalfari, di Guttuso, di Vittorini, Spadolini ecc. fu un errore grossolano. A dimostrazione del pressappochismo culturale di alcuni esegeti poco accorti, di quel fascismo ricco di significati, spesso eterodossi, ma pur sempre presenti nei futuri antifascisti.  Tale cosa venne frettolosamente liquidata come "voltagabbanismo", mentre chi potè lo rimosse in fretta e furia per costruirsi una grottesca patente di verginità antifascista. 

Viceversa se si fosse proceduto con la cautela del ricercatore anzichè con la scure del fanatismo sarebbe stato possibile decodificare, in termini obiettivi, il lungo viaggio dell'Italia durante il fascismo, distinguendo in esso il grano dal loglio. Il tutto senza le lenti colorate delle ideologie dominanti ma seguendo la logica e il buon senso, separando ciò che voleva essere il fascismo da quello che effettivamente fu.  Solo operando questa divisione è possibile rivalutare il fascismo nella sua pura essenza, privandolo di tutto quanto fu accessorio, complementare o dannoso. 
In questa ottica è possibile rivalutare tutte quelle esperienze che volens nolens aderirono al fascismo con assoluta onestà e che, poi a guerra persa, cambiarono schieramento con altrettanta onestà, poichè cercarono sempre di realizzare quegli immortali ideali di giustizia e libertà che li avevano animati prima. Un esempio eclatante è quello dello scrittore siciliano Andrea Camilleri. Costui cambiò casacca allorquando comprese come  "la realtà fosse lontana dagli ideali di trasformazione sociale che l'ideologia fascista asseriva portare con se".  La delusione, accompagnata alla considerazione fatta nella premessa, portò lo scrittore siciliano ad abbracciare il PCI. Del resto il programma fascista del 1919 piacque persino a Nenni. In quel fascismo non vi è alcuna traccia di antisemitismo o di razzismo e nemmeno, di un sincero sentimento antidemocratico. Quel programma infatti mantiene intatta una sua originalità e persino una certa attualità. In estrema sintesi possiamo dire che quel programma rappresento per intero il fascismo tradito dalla prassi. A quel tipo di fascismo si aggrapparono gli antifascisti del dopoguerra.
Ma non fu il solo. Prendiamo il caso di un altro esponente politico italiano del dopoguerra: Giulio Andreotti. 
 Andreotti da giovane fascista scrisse:
"L'ordine nuovo non segnerà una livellazione egualitaristica delle categorie sociali, segno ormai sconfessato dalla stessa esperienza storica... dovrà invece fare leva su una grande coscienza sociale, ridestata in ogni ceto con i potenti elevatori del nazionalismo..."
Costoro videro nel fascismo  un ordine nuovo sociale e nazionale, una rivoluzione insomma. E tale essa fu nella loro mente.  Purtroppo quanto si verificò nella prassi fu assai diverso.  Non vi fu alcun ordine nuovo anti-borghese.
Marcello Capurso in una lettera inviata alla rivista del Partito d'Azione  Realtà politica scrisse;

"Fu la crisi che la società moderna attraversava... l'elemento determinante che certamente ne provocò la mia accettazione come quella di tanti miei coetanei... oggi il fascismo si condanna in blocco e senza esitazioni, ma allora esso si presentò a noi come lo strumento  politico più a portata di mano per risolvre quella crisi... il fascismo portava con sé anche motivi innovatori, che aveva raccolto particolarmente dall'attivismo dei primi anni del novecento, dal socialismo e dal sorellismo, atti perciò a determinare a mantenere per molto tempo in noi quell'illusione".
Il fascismo dunque, ben lungi dal rappresentare il braccio armato del capitale, fu antesignano di speranze rivoluzionarie, che però non si concretizzarono in una rivoluzione vera e propria.  Ciò evidentemente non si traduce in un mero atto di accusa.
All'uopo è emblematico quanto scriveva Eugenio Scalfari  nel 1942, il quale forse più di tutti percepiva la forza della portata rivoluzionaria:
"Rivoluzione sociale ha un significato preciso: è la distruzione di un vecchio ordinamento di rapporti... e la sostituzione con uno nuovo e originale. Tale distruzione non avviene in via "meccanica"... noi crediamo che avvenga a ragione di una "volontà disciplinata" e auto determinatasi... Fino ad oggi è sempre stata una classe ad essere depositaria  di questa volontà... oggi una classe  del genere non esiste più... perché il Fascismo, chiusasi l'era individualistica di cui la classe è stato il prodotto tipico, mira all'instaurazione dell'era associativa il cui prodotto più genuino è il "popolo". Nel popolo i motivi sociali  si confondono e si amalgamano con quelli nazionali... un popolo che sia depositario di un'idea universale  può e deve compiere e concretare in una nuova organizzazione sociale la sua grande rivoluzione".
 Questo scritto offre - più di qualsiasi altro - il motivo verace dell'adesione della migliore gioventù dell'epoca.  Il fascismo - di là da come è stato indebitamente tratteggiato - non era incolto e aveva suscitato nelle giovani generazioni fervide speranze, animato bracci e rinvigorito  petti di quanti vollero abbracciare quella immensa fede.  Forse fu proprio quel fascismo a dissetare le menti degli antifascisti. I vari Scalfari, Pasolini, Nenni, ecc. si sono tenuti dentro il loro "fascismo" senza esplicitarlo, senza mai nominarlo, per non dover  ammettere - prima con loro stessi e poi con gli altri - che il fascismo -movimento aveva ragione, aveva trovato la giusta dimensione all'uomo e al suo essere nella storia. E fu solo la guerra perduta a decretarne l'ingiusta fine.

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