martedì 1 ottobre 2019

L'eroina di Rimini (Sangue italiano)

Il Radio-giornale del Partito ha trasmesso. Ieri sera, la seguente nota su un leggendario episodio della battaglia di Rimini. dal titolo: «L'eroina riminese».




La prima pattuglia nemica entra in Rimini da Porta Romana. Il lungo viale dei platani che immette nel sobborgo XX Settembre con sullo sfondo le macerie della bramantesca chiesa della Colonnella, taglia col suo rettilineo cumuli di rottami: tutto è diroccato, lo stadio civico, la chiesa dei Cappuccini, la chiesa di San Giovanni, le case, i palazzi, il convento dei Cappuccini, la chiesa di Santo Spirito. Sul quadrivio della via Flaminia, di dove si dipartono la via nazionale di San Marino, la via dei Trai e la via XX Settembre, dondola un semaforo sospeso lassù a mezz’aria non si sa come, tra le rovine di ogni cosa all’intorno. La pattuglia canadese esita incerta sulla direzione da prendere. Il cielo è solcato dal rombo dei velivoli e delle cannonate che vengono dal mare, dalle colline e dalla parte opposta della città; crepitano in distanza le mitragliatrici, l’aria acre velata di fumo e di polvere. All’intorno, in qualsiasi parte volgano lo sguardo, i Canadesi non scorgono se non calcinacci, non una casa in piedi; le macerie si stendono per chilometri; tutta la superficie di quella che era la vivace, elegante e ricca città adriatica è una sola, immensa, caotica distesa di pietre: a malapena si distinguono i tracciati di quelle che furono le vie principali. Mentre la pattuglia sta per imboccare a caso la via XX Settembre, un’ombra si muove dietro un cumulo di rovine: i Canadesi spianano le armi, pronti a sparare. Non è un’ombra, è una donna, una giovane donna. Ella alza le mani e i Canadesi la circondano. Una granata cade sui ruderi dello stadio sollevando un nugolo di rottami. Il terriccio e la polvere entrano nella bocca e negli occhi. Alla deflagrazione la ragazza è rimasta immobile a braccia levate. Un Canadese le rivolge la parola in un gergo a base di francese. La ragazza si sforza di comprendere e alla fine riesce a capire la domanda del soldato. Costui chiede da che parte si vada per raggiungere la via Emilia. L’interpellata, dopo un’impercettibile incertezza indica con la mano la via dei Trai. Il Canadese si consulta coi compagni e torna a guardare la ragazza. Costei gli fa cenno col braccio invitandolo a seguirla. Il gruppo allora s’incammina. La ragazza, una popolana sui 18 anni, bruna, dalle membra forti, e slanciate, lacera e sporca, cammina spedita. La lunga e diritta via dei Trai conduce in piazza Tripoli, al mare, non all’arco di Augusto e alla Via Emilia. La pattuglia, composta di una ventina di uomini, più due soldati tedeschi prigionieri, procede nel tragico scenario della città morta; i Canadesi tengono i fucili spianati, pronti a far fuoco; i due Tedeschi, al centro dei gruppo, mostrano i segni della lotta nei volti e sulle uniformi, ma camminano marzialmente. La popolana li sbircia, di sfuggita: pare ai Tedeschi che quello sguardo abbia un significato. Quale significato? La giovane riminese continua a camminare, gli alberi che fiancheggiano la via sono diverti, tronchi e fronde ingombrano il passaggio, giacciono sulle macerie delle case. La popolana si volge a guardare i due Tedeschi, i quali questa volta sono loro a sorridere. Ancora pochi passi, poi una tremenda esplosione lancia in aria macerie e persone, avvolgendole in una nube di terriccio, di calcinacci, di informi rottami. Una pausa tragica. Un attimo di terrificante silenzio. Poi il gemito dei feriti. Un uomo poi si raddrizza sulle natiche, si netta il sangue dal volto, si leva in piedi. E’ ferito ma salvo. I Canadesi morti in gran parte, sfracellati dallo scoppio. I rimanenti agonizzano. Agonizza anche la popolana, che ha avuto le gambe amputate e il volto ferito dalla formidabile esplosione. L’uomo che fra tutti si è salvato, uno dei soldati tedeschi, si accosta alla moribonda: ella gli sorride con una smorfia e riesce a dire penosamente: «Sapevo che qui esisteva un campo di mine… perché vi aveva lavorato mio fratello… vi ho condotto gli Inglesi perché sono stata violentata da due Australiani… in una casa colonica dove ci eravamo rifugiati… ho seguito questa pattuglia… volevo vendicarmi … non sapevo come … la sorte mi ha favorito … ». L’eroina sta dissanguandosi; il suo volto diventa cadaverico. Il soldato tedesco non può far nulla per lei se non raccoglierne l’ultima parola: «Ho vendicato il mio onore». Il soldato tedesco si china sulla morente e la bacia in fronte. Quando risolleva il capo la giovane eroina è spirata. Questo ci ha raccontato il soldato tedesco dopo aver raggiunto i propri camerati all’altra estremità della città morta. Il soldato, che dopo un anno di soggiorno in Italia si esprime abbastanza bene nella nostra lingua, così ha commentato il suo racconto: «La ragazza non aveva indosso alcuna carta o qualsiasi documento di riconoscimento. Non ho potuto quindi sapere il suo nome». E si è rammaricato, il soldato tedesco, di non averglielo chiesto prima che ella spirasse. Il nome dell’eroina rimarrà sconosciuto forse per sempre, e così la storia di questa guerra ricorderà il leggendario episodio come quello della eroina riminese. Dell’anonima ma fulgida eroina riminese.

Articolo apparso su il "Corriere della sera" del 1, Ottobre, 1944

venerdì 5 aprile 2019

IL COMUNISMO D'AMORE DI SANT'AMBROGIO


Nel suo libro sulla vigna di Tabot S. Ambrogio ha scritto:
"Quousque extenditis, divites, insanas cupiditates? Numquid soli inhabitabitis super terram? Cur eiicitis consortem naturae? et vindicatis vobis possessionem naturae? In commune omnibus, divitibus atque pauperibus, terra fundata est, cur vobis ius proprium soli, divites, arrogatis? Nescit natura divites, quae omnes pauperes generat" (cap. I,2).

S.Ambrogio -tempera su tela, cm 109 × 75
Questa pericope inizia con una condanna della plutocrazia. La "cupiditas", la cupidigia o desiderio della ricchezza, viene considerata "insana", cioè una "aegritudo animi", sintagma latino che in italiano significa "malattia dell'animo" e che nel linguaggio patristico indica il peccato. Poco più avanti S. Ambrogio condanna la rivendicazione da parte dei ricchi del diritto alla proprietà privata ("cur...vindicatis vobis possessionem naturae?" e "cur vobis ius proprium soli, divites arrogatis?") e avanza il suo progetto di un comunismo agrario per l'Impero Romano (2) fondato sul comandamento dell'amore ("In commune omnibus [...] terra fundata est").

Questa esortazione patristica ci spinge a progettare spazi sempre maggiori di autogestione sociale nella nostra società.
Sant'Ambrogio continua il suo discorso prefigurando una società di uguali senza differenziazioni in ricchi e poveri, cioè oggi diremmo una società senza classi. Poco più avanti S'Ambrogio conclude dicendo che la natura "omnes similes creat", cioé che LA NATURA CREA TUTTI UGUALI (3). Nelle parole di S. Ambrogio troviamo la fonte del motto "liberté, egalité, fraternité" della Rivoluzione Francese...
Troviamo in questo testo anche la prima formulazione del sintagma "ius soli" come fonte di diritto: "cur vobis IUS proprium SOLI, divites arrogatis?". Il concetto di ius soli sarà applicato ai processi migratori poco tempo dopo da S. Agostino, allievo di S. Ambrogio.
Questo é il grande insegnamento del Santo di fronte a cui si inginocchiò l'imperatore Teodosio e che é alla base del Magistero Sociale di Papa Francesco.

Massimo Cogliandro
Note
(1) Il sintagma "comunismo d'amore" riferito ai Padri è di Troelsche. 
(2) La proprietà dei beni d'uso naturalmente è ammessa dalla Dottrina Sociale della Chiesa. S. Ambrogio fa riferimento ai mezzi di produzione della ricchezza sociale con particolare riferimento alla terra.
Oggi la Chiesa consente in certi casi la proprietà privata dei mezzi di produzione nel caso in cui sia orientata in senso sociale (il cosiddetto "privato sociale), altrimenti resta fermo il principio enunciato da S. Ambrogio.
(3) Ho tradotto "similes" con "uguali" dopo lunga riflessione. Sul piano antropologico siamo simili per gli accidenti legati alla nostra condizione attuale, ma sul piano ontologico la nostra "similitudo" va considerata in rapporto all'Ente Supremo increato, mentre propriamente sul piano antropologico la nostra "substantia" nella gerarchia degli enti è uguale. Certamente il "similes" ambrosiano va inteso in questo senso.