venerdì 3 gennaio 2014

Una vita contro la morte

 
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Quando Socialisme fasciste vide la luce fu subito chiaro che la nuova sortita di Drieu avrebbe irritato tutti - non solo destra e sinistra ma anche buona parte del mondo sedicente fascista e persino non pochi di quei non conformistes con i quali Drieu condivideva l'esperienza dolorosa del suo tempo e l'odio per la democrazia.
Libro che è il discorso di un'anima - scrisse Julien Benda recensendolo per la "Nouvelle Revue Francaise" - e che i suoi contemporanei aggrediscono dal momento che hanno deciso si tratti di un breviario di certezze. Niente che ci causi stupore. Essi non si preoccupano di capire. Vogliono essere salvati
Salvati, presi per mano da un “padre della patria (Doumergue, Pétain, De Gaulle: la Francia ne ha sempre avuto uno sottomano che li liberasse dalla necessità di cercare da soli la strada. Drieu, senza volerlo, li confermava in questa “ scelta ”, in questa rinuncia, mostrando con il suo libro quanto fosse difficile percorrere da Soli il cammino e in quale solitudine precipitasse chi muoveva i primi passi per esso.
Con Socialisme fasciste la grande solitudine di Drìeu divenne piena ed acquistò una dimensione storica, un valore paradigmatico. Non poteva essere diversamente, d'altronde egli era uscito da tutti gli schemi precostituiti, era andato oltre l'immediato, si era spinto “ là dove non c'è nessuno ai confini, ancora una volta avanti a tutti, fedele a quel che considerava il dovere dell'intellettuale, ed in un momento in cui nonostante tutto, nonostante Stawisky e Place de la Concorde, i tempi ancora non erano maturi perché qualcuno potesse pensare di seguirlo dopo aver accenna i primi passi.
Lo scandalo Stawisky ed il bagno di sangue di Place de la Concorde (la “verità” della democrazia francese avevano dato alla Francia una scossa fortissima che avrebbe potuto e dovuto essere determinante. Eppure essa non bastò a smuovere le cristallizzazioni, i pregiudizi, le paure, i pudori, le timidezze e le illimitate speranze del mitico “paese reale ”, dei maurrassiani, della base comunista, del ligues stesse e dei non-coniormistes, compresi quanti di loro avrebbero poi seguito, come Drieu, i “cammini rischiosi” giungendo se non ai confini almeno in vista di essi.
Drieu fu uno dei pochi a trarre immediatamente dai fatti la lezione che contenevano, a capire che per sconfiggere il nemico (il “ vecchio radicalismo corruttore”, l'anima del sistema) bisognava uscire dagli schemi che esso aveva tracciato ed in cui si dibatteva la Francia, bisognava chiudere le valvole di sfogo che gli permettevano di sopravvivere - il “ padre della patria ” di scorta, le inchieste per stabilire “ tutta la verità ”, le riforme costituzionali, l'opposizione che vigila dietro l'angolo. La lezione d'altronde era risultata chiara da1le conclusioni politiche dell'allaire: Gaston Doumergue, il saggio di Tournefeuille, chiamato dal Presidente della Repubblica a salvare la Francia, con i suoi buoni propositi e con le speranze che aveva fatto nascere inchieste sul caso Stawisky e sui fatti del 6 febbraio, riforma della Costituzione con il rafforzamento dei poteri dell'Esecutivo) aveva bloccato la reazione popolare e permesso ai Daladier, agli Chautemps, agli Herriot, ai padroni del vapore complici dell'avventuriero di riprendere fiato.
Il salvatore della Francia senza volerlo aveva salvato i nemici della Francia, l'uomo onesto i ladri, che lo metteranno alla porta - naturalmente con un voto di sfiducia del Paramento - appena non servirà più.
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Drieu, che già da tempo aveva penetrato la verità de sistema politico francese, dopo il caso Stawisky e il governo Doumergue non ebbe più dubbi: le due esperienze rappresentarono per lui il banco di prova di una critica politica e di un'opposizione ideale maturata in lunghi anni alla luce del quotidiano molto più che delle manovre di Palais Boui bon, ed alla quale fornirono una maggiore concretezza precisione di taglio.
Uno dei pilastri su cui si fonda il dominio del radicalismo, notò Drieu, è l'opposizione fra destra e sinistra rispetto a cui, non solo in sede ideale, i radicali si pongono come mediatori. Più precisamente, l'opposizione formale fra destra e sinistra. Il contrasto infatti è sostanzialmente una finzione: in realtà “ droite et gauche se tiennent”, son legate fra loro a doppio filo, sono gli ingranaggi di un stesso meccanismo. Inevitabilmente, d'altronde: l'una ha bisogno dell'altra ed entrambe hanno bisogno delle due entità che rispettivamente combattono - la democrazia e il capitalismo - , come democrazia e capitalismo hanno bisogno della destra e della sinistra.
Con Socialisme fasciste Drieu spezzò l'illusione in cui si era rifugiata la maggioranza dei francesi: che la corruzione e la violenza della gestione radicalsocialista del potere le disfunzioni del sistema democratico-parlamentare potessero essere spazzate via da un “gabinetto nazionale”.
La conclusione di Drieu fu chiarissima: non esiste un'alternativa - di destra o di sinistra - all'interno del “sistema”, esiste solo il “sistema” con i suoi ingranaggi che macinano tutto, ai quali nulla resiste, come dimostra la strumentalizzazione che è stata fatta dell'onestà e delle buone intenzioni di Doumergue (e come dimostreranno le vicende del fascismo italiano). Poteva essere ben accolto un libro del genere?
Drieu, che pure non era un teorico della Politica, aveva centrato il problema andando ben oltre la critica della democrazia sviluppatasi in Francia dopo la guerra. Non era più questione soltanto di “disordine costituito”, di “regime ideale di corruzione”, di sistema incapace di rappresentare qualche interesse reale, dei “seicento parolai” incoscienti, maligni e impotenti, ma della responsabilità di tutto ciò, delle complicità che lo rendevano possibile, del ruolo delle opposizioni, del modo in cui uscirne. Una realtà che non era certo minacciata dalla carica d moralismo e di indignazione dei benpensanti.
Per spezzare la legge ferrea del sistema, per bloccare l'ingranaggio che stritola l'anima e il corpo del popolo, che vuole ben altro che un moralismo sornione, in fondo complice anche quando è in buona fede e riesce ad esprimere un minimo di vigore e di coerenza. E’ necessaria la fusione delle due opposizioni in un ideale unico, in una volontà “sola e in una sola azione” ecco la lezione che Drieu ricavò dall'affaire e dai fatti del 6 febbraio. Una fusione non un compromesso; un superamento dialettico delle due posizioni in una sintesi nuova, e non un accomodamento fra di loro; una fusione che nasca dal basso, che maturi nelle coscienze. Il sogno che accompagnerà tutta la vita di Drieu, sino alla fine, e che egli crederà di vedere realizzato nel fascismo finché gli eventi non lo costringeranno a ricredersi. Ancora negli ultimi giorni di vita, quando farà il bilancio del proprio impegno e giudicherà la parte con cui ha scelto di combattere, ciò che rimprovererà al fascismo sarà di aver incorporato “una parte troppo debole dell’impulso e del metodo marxisti”.
I comunisti accanto agli uomini dell'estrema destra, gli uni e gli altri dietro la stessa barricata. Assisterà a questo miracolo una sola volta, il 6 febbraio 1934, in Place De la Concorde. Sarà questo fatto nuovo ed inaspettato - inaspettato per tutti, compresi i dirigenti del partito comunista - a fargli comprendere da che parte cercare l'uscita dal vicolo cieco.
Il miracolo non si ripeté e non ebbe conseguenze. Gli uomini politici non uscirono dai loro corridoi, i capi si mescolarono fra loro. Nessun uomo ebbe
il coraggio di gettare il proprio destino sulla bilancia”. Nessuno, d’altronde, né a destra né a sinistra, era in grado di farlo. Maurras, al quale erano rivolti gli sguardi di tutta la destra, meno di chiunque altro.
Il 6 febbraio il “maestro trovava nella redazione di “Action Francaise”, e non fece nulla. Il giorno dopo ancora non sapeva se fare qualcosa ed eventualmente che cosa fare. Un giovane, ricorda Lucien Rebatet in Les décombres, entrò nell'ufficio di Maurras e gli gridò: “Maestro, Parigi sta sollevandosi, il governo non esiste, tutti si aspettano qualche cosa. Che dobbiamo fare? Il maestro rispose solo: “Non mi piace la gente che perde l'autocontrollo”.
Se la destra non comprese ciò che era maturato nelle poche ore del mattino del 6 febbraio e non seppe profittare del fatto nuovo, i comunisti lo capirono benissimo e regolarono di conseguenza, in un modo completamente opposto a quello sperato da Drieu e dalla stessa base del partito. Il vertice comunista non volle - non poteva volere - la fine del dominio radicale. Sei giorni dopo Place de la Concorde, il 12, tutto fu chiaro. I comunisti raccolsero il frutto della loro scelta due anni dopo, quando andarono al governo con i socialisti e i radicali grazie alla formula del “fronte popolare” da essi stessi elaborata.
Drieu non tardò a trarre dall'esperienza tutte le conseguenze. Bisogna creare, affermò, una nuova forza, un nuovo partito, che raccolga le forze già esistenti e fonda parecchi dati oggi distinti l'uno dall'altro ”. Questo partito, che dovrà essere concepito “sul modello dei grandi partiti che hanno trionfato”, da vent'anni a questa parte, Mosca, a Roma, a Berlino, ad Ankara, a Varsavia ed Washington” non potrà essere che “nazionale e socialista”.Se vorrà sopravvivere, precisava Drieu in un articolo per “La lutte des jeunes”, esso dovrà lottare contro:
1. I monarchici, le cricche reazionarie stipendiate dal capitale, che applaudono i parlamentarti e i giornalisti della vecchia destra;
2. I radicali e i socialisti che si rifanno alla vecchia routine parlamentare, al vecchio gioco d’intesa segreta tra capitalismo e rappresentanti della democrazia;
3. I comunisti che si isolano in un operaismo sterile e ristretto.
Partito di centro, combattivo, esso eserciterà la sua attrazione sulla brava gente smarrita all’estrema destra e all’estrema sinistra, nonché sulla brava gente non impegnata che morde il fremo agli estremisti.
Questo partito accoglierà i radicali disingannati, i sindacalisti non funzionarizzati, i socialisti francesi, gli ex combattenti ed i nazionalisti che non vogliono essere gli zimbelli delle manovre capitaliste.
Quando, il 28 giugno 1936, nel municipio di Saint-Denis città operaia dei sobborghi parigini e necropoli dei re Francia, il deputato-sindaco Jacques Doriot - un esponente comunista che dopo aver occupato le più alte cariche n partito aveva rotto con esso e con Mosca - fondò il Parti populaire francais, Drieu credette di veder nascere la nuova formazione che aveva auspicata e aderì subito. Il suo “fascismo ” si era coagulato in un organismo politico: rinascevano le speranze del 6 febbraio. “ Io sono un vecchio pellegrino - confesserà in Avec Doriot, il libro in cui raccoglierà buona parte degli articoli scritti per il settimanale del partito, "L'emancipazione nationale "-. Dalla fine della guerra ho continuato a cercare il luogo in cui avrei potuto trovare una persona, la Francia. L'ho cercata senza vergogna in tutti i luoghi possibili, in tutti i partiti politici, in tutti i gruppi, in tutte le sette. Non l'ho trovata da nessuna parte. Riuscivo a malapena a strapparne alcuni brani sparsi qua e la ”.
Nel Parti populaire Drieu scopri uomini come lui, animati dalla stessa passione, tormentati dalla stessa ansia. “Tutte le persone che stavano là avevano cercato la loro strada, avevano sofferto, avevano urtato in se stessi e negli altri contro contraddizioni terribili ed erano riuscite a superarle solo a prezzo di un accanimento continuo, di una ostinazione spesso disperata”.
L'isolamento di Drieu era finito, la sua solitudine testimone e di profeta apparteneva al passato: non era più uno delle migliaia di individui del mondo moderno che tremano di freddo nelle piccole stanze delle grandi città
e sentono il bisogno di raggrupparsi per conservare un po’ di calore. Nella formazione fascista la paralisi dell'individualismo è superata e gli uomini imparano di nuovo la vita di gruppo. “Li non si vive più soli, si vive assieme, li uno muore più' nel suo cantuccio, ma vive”, scriveva in Doriot. Alla diversa condizione umana che si affermava nel gruppo fascista corrispondeva una diversa concezione della libertà, che non era più intesa come autonomia individuale ma come forza personale; e la forza personale più grande, notava Drieu, deriva dal far parte di un gruppo e dal vivere attraverso di esso: la libertà è “il potere che deriva a un uomo dall'essere legato ad altri”.
Drieu non era il solo a vedere nel fascismo l'affermarsi di un “uomo nuovo” e di una nuova condizione umana, anzi, il porre l'accento su questo aspetto non era dei literati ma apparteneva alla sostanza dell'ideale fascista come risposta al male esistenziale e morale della democrazia contro cui la “rivoluzione del XX secolo” si levava. Il fascismo scriveva Paul Marion nel suo Programme du Parti Populaire Francais (1938) si propone di infrangere “il guscio di egoismo” in cui la democrazia chiude l'uomo e di far rivivere “il gusto del rischio, la fiducia in se stessi il senso del gruppo, il gusto per gli slanci collettivi e memoria di quelle fedi unanimi che hanno reso possibili le cattedrali ed i miracoli di Francia”.
Ciò che spingerà Drieu ad impegnarsi con Doriot non sarà quindi tanto il programma del Parti populaire, ancora vago, quanto lo spirito di esso e la logica cui risponde vano la sua nascita e la sua azione.“Il programma verrà domani”, scriverà nella prefazione a Avec Doriot. Per Drieu, d'altronde, non poteva essere diversamente: egli aveva una concezione della politica completamente diversa da quella affermatasi in Europa con la rivoluzione dell'Ottantanove giudicata “un'ignobile prostituzione delle alte discipline” e vedeva nell'azione politica e non altrove la nobiltà della vita. La politica per Drieu non era, in breve, la scienza del relativo, ma un assoluto il cui ruolo era identico a quello della metafisica.
Coerentemente con questi presupposti, Drieu non privilegerà mai nelle sue analisi e nelle sue polemiche l'aspetto tecnico e contingente della politica. Il suo impegno avrà sempre, dall'inizio alla fine, un respiro vasto, una motivazione profonda le cui radici affondavano nella sofferta consapevolezza della condizione umana, fisica e spirituale, del singolo e delle collettività. Indicativa di questo suo modo d’intendere la politica è la definizione che diede del fascismo, in un articolo scritto per il settimanale di Doriot. La definizione più profonda del fascismo - scriveva Drieu - è la seguente: è il movimento politico che promuove più sinceramente, più radicalmente una grande rivoluzione dei costumi, la restaurazione del corpo - che si riesprime nella salute, nella dignità, nel pieno rifiorire della propria personalità, nell'eroismo - la difesa dell'uomo contro la metropoli e la macchina. Il fascismo, che assimila gli aspetti realistici del socialismo senza cadere nell'utopia, supera il socialismo per il senso dell'uomo”.
Con il fascismo era nato e si andava affermando - pensava Drieu condividendo l'opinione dei fascisti – un “uomo nuovo”.
In questi brani del suo saggio più importante c'è tutto Drieu. C'è la tragica consapevolezza della decadenza dell'uomo e delle cose e c'è la certezza della rinascita, c'è la concezione metafisica della politica, c'è la volontà di un nuova disciplina, e c'è il riflesso della sua religiosità, del suo senso del divino. C'è infine, esposta con un linguaggio a scatti, appassionato e nervoso, spesso con frasi violente e concetti paradossali, la sua filosofia monista, la sua teoria dell'uomo come unità inscindibile di anima e corpo – per altro tipicamente fascista. Rimane fuori solo il tema dell'Europa, del destino dell'Europa, che ha nutrito tutta la meditazione politica di Drieu e che in lui è stato sempre intimamente connesso con i temi della nazione e del Socialismo, della decadenza, dell'uomo nuovo e del fascismo.
“Sono diventato fascista perché ho misurato i progressi della decadenza in Europa. Ho visto nel fascismo il solo mezzo per frenare e arrestare questa decadenza”: è questa la più comprensiva spiegazione che abbia mai dato del suo impegno politico.
L'Europa per Drieu era un valore primario, un assoluto. Un valore minacciato da vicino dai due imperialismi russo e americano, dalla decadenza materiale e spirituale dei popoli europei, dalle divisioni nazionalistiche.
“E’ sorta l'America - aveva scritto in Mesure de la France, nel 1931 - quindi bisogna rifare tutta la scala delle grandezze politiche. L'intrusione nella storia occidentale, un tempo legata storicamente all'Europa e alle sue imprese misurate, di un impero così formidabile per estensione ed energia, il cui territorio è al riparo da ogni minaccia ed è quasi posto su un altro pianeta, distrugge il ritmo dei vecchi rapporti.
Avremo bisogno di un po' di tempo per riprenderci. Ma non è tutto: l'America non è un'eccezione. Ecco che dall’altra parte del mondo si muove, in un furore che ricorda nascita d'Ercole, la nuova Russia, l'altra potenza di domani. Popoli d'Europa, divisi ed estenuati, noi siamo stretti fra due masse, l'America e la Russia, queste due immense metà di un orizzonte di bronzo. Non dobbiamo più ragionare secondo i moduli dell'interesse politico nazionale. Sarà la Russia a rispondere al problema che interessa oggi destino dell'uomo? Ma anche i popoli americani, tanto ricchi di mezzi materiali e morali quanto sprovvisti di principi, si pongono questo problema. Forse il dialogo fra queste due persone oscure, fra questi due mezzi cori che cominciano già, senza che orecchio umano se ne accorge un canto interrogatore e impaziente, non potrà risolversi senza l'intervento dell'Europa, eterna protagonista, che ora sta ripiegandosi in una dolorosa e confusa gestazione”.
Esiste una sola possibilità di salvezza, secondo Drieu:
gli Stati Uniti d'Europa, la federazione delle nazioni europee. E’ il solo modo, aveva scritto in Mesure de la Frane di “difendere l'Europa da se stessa e dagli altri gruppi umani ”. Bisognava, infine, costruire un impero europeo, questo solo il fascismo poteva farlo. Un impero, “qualcosa che strappa gli uomini a se stessi”: il tema dell'Europa indissolubilmente legato a quello della decadenza.
In Drieu il sentimento della decadenza è acuto, doloroso, totale. Egli vede la morte del corpo e dello spirito nella dissoluzione delle differenze, nella scomparsa dell'individualità, nell'anonimato soffocante: “V'è un'immensa borghesia che assorbe ogni cosa e inghiotte gli aristocratici, i contadini, gli operai - la borghesia, altrimenti detta democrazia, questo immenso pantano putrido fuori dal quale non c’è più nulla”. La morte è ovunque, cammina con le metropoli le banche, i trusts e i sindacati, i music-halles e i parlamenti, il jazz e il buio delle sale cinematografiche dove l'individuo, “esasperato ed estenuato, muore, e da esso genera un comunismo liquido, inevitabile ”. E’ una decadenza che coinvolge tutti: “Siamo tutti degni l'uno dell'altro, tutti gli stessi azionisti della società industriale moderna del capitale di miliardi di carta e di migliaia d’ore di lavoro fastidioso e vano. Che ciò sia a Karkov o a Patin, a Shanghai o a Filadelfia, non è poi la stessa cosa? (...) Non esistono altro che i moderni, gente piena di affari, gente del plusvalore o del salario, che non pensa che a questo e non discute che di questo”.
Di fronte a questa decadenza avrebbe un sapore di arida Ironia il mito democratico del progresso se e non fosse un altro sintomo della morte, una causa anzi della morte: la folle illusione - o la vile menzogna? che aiuta a sopportare, che ci chiude gli occhi dinanzi alla verità, che ci rende più che mai autori della nostra morte come in democrazia l'illusione della libertà ci rende autori della nostra schiavitù. “E’ il mito del progresso che è messo in forse. Un mito meschino e traballante. Nel corso del vostro progresso l'uomo non ha forse perduto la metà di se stesso? Quel che ha guadagnato non è pari a quel che ha perduto?
La concezione religiosa di Drieu si innesta su questo tronco e riceve dalla meditazione sulla condizione umana sempre nuova linfa. Se Drieu pone l'accento sul corpo – lo abbiamo visto - non è per negare lo spirito ma per affermarlo: “Il corpo è la manifestazione e lo strumento con cui si articola lo spirito”. Duemila anni di dogmatismo e moralismo cristiano, ha scritto Adriano Romualdi nel suo saggio su Drieu, “hanno fatto dimenticare che spiritualità non è amore del prossimo, bacchettoneria, sentimentalismo ma innanzitutto forza interiore che costringe tutto l'essere nell'uomo in una forma fisico-psichica di severità, chiarezza, dura essenzialità. Drieu si incarica di ricordalo. E in questo senso che va intesa la necessità da lui formulata di una religione che equilibri il corpo e l'anima”.
Dietro questa concezione sta una precisa visione metafisica:“al di là delle categorie di anima e corpo noi vediamo l'Essere”. Questo sentimento dell'Essere inteso come energia spirituale che pervade l'intero mondo fisico costituisce il centro della concezione religiosa di Drieu, ciò che gli farà ritenere l'idea di Dio un ostacolo alla percezione del divino. Di Gilles, il protagonista del romanzo omonimo che altri non è se non Drieu stesso, scrive che: I preti erano riusciti ad insegnargli cos'era la virtù, uno sforzo contro tutto, ma non erano riusciti a fargli comprendere Dio”.
Drieu ha sentito l'essenza del divino, ha scritto Adriano Romualdi, “in qualcosa che è lontanissimo dalle concezioni umanitarie, dalle parole d'ordine delle Chiese e degli istituti di carità, ma che sta raccolto e contenuto in se stesso in puro, abbagliante splendore, al di là dell'umano, al di là del bene e del male. Il Dio di cui Drieu parla non è il "Dio psicologo, psicagogo e psicopompo, questo Deus ex machina dei romanzieri" ma è l'unico di Plotino, il Nirvana dei Buddhisti, l'Atman dei grandi mistici ariani dell'India, l’abisso intraveduto da Meister Eckhart, Ruysbroeck l'Ammirabile e dagli altri grandi contemplatori dell'Europa gotica medievale. Anzi, più si inoltra nella sua meditazione e più egli prova fastidio della stessa parola Dio. Scrive in una delle ultime pagine del diario: "Diventare sempre più mistico. La parola Dio inganna e ostacola lo slancio spirituale". E, ancora più audacemente: “Per raggiungere una vera nozione del divino bisogna perdere l'idea di un Dio per sublime che essa sia”.
La forza di Drìeu, il suo pessimismo eroico, la spinta irresistibile che lo portava sempre più avanti impedendogli di arrendersi o di giocare consapevolmente con la propria coscienza, nasceva non solo dal carattere dell'uomo - tutt'altro che decadente - ma anche da queste sue convinzioni, dalla natura della sua religiosità. Non a torto un suo biografo ha avvicinato la personalità di Drieu al Cavaliere della famosa incisione di Dùrer, che procede impassibile fra la Morte e il Diavolo.
Lo spettacolo della decadenza, della morte non costituirà mai per Drieu la tentazione di fuggire ma anzi stimolo - e quasi l'obbligo a costruire “la torre della nostra disperazione e del nostro orgoglio”, che egli vedeva come il pilastro incrollabile della nuova realtà che si andava affermando.
L'impegno politico e letterario prima, e la testimonia estrema poi, costituiranno i due momenti della lotta Drieu contro la morte, alla quale egli non rinuncerà nemmeno quando si troverà di fronte al crollo delle sue speranze.
Il carattere sempre più fosco che assumerà la tragedia dell'Europa non priverà Drieu della sua lucidità. Fra il ’43 e il '45, fra la caduta di Mussolini e il momento del sacrificio estremo, Drieu fece il bilancio del fascismo, un consuntivo che nessuno meglio di lui - raro esempio di “vero fascista”, come lo ha definito Alastair Hamilton - poteva tracciare. Sono pagine impressionanti per la lucidità l'analisi e per le visioni profetiche che le animano.
Il fascismo scriveva in Notes sur des événements, pubblicato su “La révolution nationale” del 14 agosto 1943 non ha mai avuto un atteggiamento chiaro, malgrado le sue affermazioni verbali, nei confronti di tre questioni vitali:
1. Dal punto di vista politico ha soffocato la sorgente popolare dell'autorità. Ha rinunciato molto presto alle consultazioni plebiscitarie da cui aveva ricavato una parte della sua forza.
Ma un governo autoritario, soprattutto quando operi in regime monarchico deve essere plebiscitario e popolare, deve mantenere un rapporto dialettico tra le masse e se stesso. Non deve accontentarsi della acquiescenza del partito unico o almeno deve tentare di rendere questa acquiescenza viva e spontanea; ma per realizzare ciò è necessario rivivificare continuamente il partito con il paese e il paese con il partito. Anche in Russia è avvenuta la stessa cosa; i grandi moti di sabotaggio, che hanno provocato le purghe anteriori al '39 e forse il sorgere del movimento Vlassov, provano che anche Stalin ha perduto in certi periodi il contatto con il popolo. La dittatura del capo e del partito si sterilizza e si trasforma in burocrazia e in folklore da parata dal momento in cui la dialettica tra il popolo e il partito cessa di esistere.
2. Da un punto di vista sociale l'opera del fascismo è sempre stata insufficiente. Il corporativismo non è una soluzione. Come dimostrato la sua impotenza in Francia, così, penso, l'ha dimostra in Italia.
Il corporativismo serve solo come via verso il socialismo quando lo si trasforma in un freno, si suscita solo malcontento lo stesso malcontento che provoca un'ipocrisia meschina. Il corporativismo italiano, proprio per le sue insufficienze e ambiguità, servito di metodo a tutti i regimi temporeggiatori e camuffati ci cercano di vivacchiare fra il periodo capitalista democratico e periodo socialista. Questo sistema ha irrobustito solo i monopoli e i trusts sotto il controllo rispettoso e timido dello Stato. D'altronde siamo giunti oggi a una situazione paradossale: il capitalismo ha cominciato a odiare il corporativismo che aveva accolto nei primi tempi come la sua Salvezza. Quindi il regime fascista doveva cadere o sotto i colpi della reazione capitalista sotto un'altra forza.
3. Dal punto di vista internazionale il fascismo è stato vittima del dramma che si sta sviluppando in tutta l'Europa, dramma che mostra che non ha saputo trovare alcuna soluzione ai gravi problemi dell'equilibrio fra nazionalismo e internazionalismo, fra velleità imperialista e l'esigenza di subordinare la sua politica a quella di un impero più vasto del suo. Il fascismo si è rivolto dapprima contro l'Inghilterra e l'America, ma in seguito non è riuscito nemmeno ad armonizzarsi con la Germania. Era un problema che andava al di là della responsabilità di Mussolini e del sistema italiano e che poteva essere risolto solo con uno spirito europeo estremamente aperto e rivoluzionario, dove sarebbero state finalmente eliminate le vecchie diffidenze dei nazionalismi di un tempo. Ma ormai è troppo tardi per parlare di tutto ciò: è tempo perduto.
La critica di Drieu ed è molto significativa ripeteva inconsapevolmente quella che da molti anni conducevano nei confronti del regime i “veri fascisti”. Una Critica che sfociava nel prospettare l'esigenza di “realizzare la rivoluzione”: la “rivoluzione fascista” era rimasta incompiuta, era stata frenata dalle forze che il regime aveva incorporato.
Ma è interessante esaminare - continuava Drieu - il carattere che sta assumendo la restaurazione liberale nata da poco tempo a Roma.
Lo abbiamo già notato ad Algeri e lo noteremo anche altrove: una restaurazione ha sempre un carattere senile, che si esprime attraverso la minuzia e il formalismo.
La prima reazione è di rimettere le cose al posto in cui erano prima della catastrofe. Si raccolgono i frammenti, si cerca incollarne uno all'altro, si rifanno delle poltrone su cui si pongono gli stessi uomini, se sono ancora vivi; essi infine riprendono i gesti interrotti come macchine automatiche che si rimettono in funzione dopo un lungo disuso. Ma tutto ciò si rivela, al di là delle apparenze superficiali, inutile. Però può durare anche a lungo, finché non passa quel senso di affaticamento che l'ha provocato.
Le restaurazioni, a cui stiamo assistendo e assisteremo, riveleranno molto presto il loro carattere anacronistico, terribilmente anacronistico. Ci sarà una nuova ondata di fronti popolari, più o meno diretti da generali reazionari, i quali dimostreranno con molta fretta che il fascismo è, sull'inevitabile calvario socialista, una stazione molto tranquilla e calma, che si rimpiangerà quando ci troverà sul pendio di un'anarchia neodemocratica al fondo della quale aspettano tranquillamente i comunisti. Insomma, c'è solo una forza in Europa che può trarre vantaggio alla lunga dalla sconfitta dei primi socialismi nazionali, rivelatisi insufficienti: il comunismo.
E’ interessante notare che, con la caduta del fascismo, il rovesciamento rimane un fatto teorico, ridotto solo alla sostituzione di persone, mentre non vengono abrogate e sostituite le riforme necessarie del fascismo perché non esistono altre soluzioni di ricambio eccetto che quelle socialiste, cioè ancora più autoritarie, anzi comuniste; in ogni caso non certo democratiche né parlamentari.
Per esempio come è possibile sostituire il Sistema Corporativo? Come fare a sopprimerlo? Questo sistema è insufficiente, è vero; ma è insufficiente perché non è abbastanza socialista e non, come dicono alcuni perché non è abbastanza liberale. Intanto però non si vuole ammettere la verità e nei giornali si sostiene che il corporativismo può trasformarsi in sindacalismo, che il sindacalismo deve essere democratico, che è possibile essere nello stesso tempo liberali e socialisti; in pratica malgrado tutte queste belle parole, si è obbligati a mantenere quel minimo di dirigismo che è appunto il corporativismo. I gollisti cominciano ad annunciare che saranno obbligati a mantenere “ per i primi tempi ” la struttura economica e sociale abbozzata da Vichy.
Le soluzioni sono due: o il corporativismo è autoritario - e rimane in mano ai capitalisti - oppure è democratico e allora attraverso una serie di manovre cade in mano ai sindacati comunisti che lo trasformano in un Sistema autoritario. Il Corporativismo solo un mezzo, un punto di passaggio.
In D'une dictature à l'autre, pubblicato su “La révolution nationale” del 28 agosto 1943, scriveva:
Dal punto di vista economico il fascismo italiano poteva sembrare una giusta via di mezzo fra il capitalismo e il comunismo. Ciò fu dapprima la sua forza e poi la sua debolezza.
Il sistema mostrò nei primi tempi i vantaggi della moderazione Ma in seguito rivelò solo più gli inconvenienti della timidezza. Man mano che il tempo passava il corporativismo si dimostrava sempre più insufficiente e il socialismo diventava sempre più necessario.
Allora il contrasto fra la prudenza nelle riforme sociali e l'audacia in campo militare si fece sempre più stridente. Gli uomini del nostro tempo accettano il nazionalismo solo se sono sicuri che è nel socialismo. L'etica degli eserciti penetra nelle fabbriche e nelle cascine.
L'Italia era molto povera, tragicamente povera. Non aveva né carbone, né ferro. Solo il socialismo avrebbe permesso di sopportare questa povertà.
In “Bilan fasciste”, un inedito pubblicato la prima volta nel dicembre 1950 dalla rivista “84” con la data del 15 luglio 1944 e ripubblicato da “Défense de l'Occident” nel 1958 con il titolo Notes sur l'Allemagne e con la data del dicembre 1944, scriveva:
Quali sono state le ragioni del fallimento della politica nazista? La causa più immediata è dovuta al carattere immodificabile assunto gli inizi dalla rivoluzione hitleriana. Questa rivoluzione non fu spinta alle ultime conseguenze in nessun campo. In vero, i nazisti i fascisti non volevano fare tabula rasa di tutto come i bolscevichi, volevano evitare le enormi distruzioni di beni e di vite conseguenti un rivolgimento brusco e totale: pensavano anzi di utilizzare molti elementi della società precedente nella nuova. Ma l'inflessione conservatrice ha avuto il sopravvento su quella innovatrice. In primo luogo la rivoluzione nazista ha utilizzato troppi uomini del vecchio regime nelle nuove strutture economiche e militari: ha risparmiato i misura esagerata il personale del regime capitalista e della Reichsrehr. Questo duplice errore è venuto alla luce il 30 giugno 1934. In quel momento Hitler avrebbe potuto colpire una volta per tutte deviazione di destra.
Non avendolo fatto, o meglio avendolo realizzato minimamente, è successo che con lo scoppio della guerra si sono rivelate come correggibili le conseguenze di questa insufficienza politica. La politica tedesca in tutti i paesi europei soggetti ad occupazione è stata rovinata dai pregiudizi, dalle vecchie consuetudini della guerra dalla diplomazia: non è stata capace di trarre qualcosa di nuovo di forte dalla magnifica occasione che le era stata offerta. Si è mostrata incapace di trasformare una guerra di conquista in una guerra rivoluzionaria. Ha ridotto inizialmente la violenza al minimo conquistare l'opinione pubblica europea: ma ha raggiunto un risultato opposto e ha visto la maggior parte degli europei assumere un atteggiamento ostile perché non avevano ricevuto dal vincitore nessuna riforma interessante e positiva.
Una politica tedesca nuova avrebbe dovuto compiere le seguenti riforme:
1. Avrebbe dovuto evitare ogni atteggiamento che potesse anche lontanamente ricordare la vecchia politica di conquiste militari, di vittorie diplomatiche, di accaparramenti economici. Non avrebbe dovuto alzare la bandiera tedesca sui monumenti pubblici né avrebbe dovuto togliere le bandiere nazionali e proibire gli inni nazionali; avrebbe dovuto evitare sfilate e riviste militari. Avrebbe dovuto rispettare dappertutto le autonomie nazionali dal punto di vista amministrativo e politico, non avrebbe dovuto compiere annessioni, secondo un vecchio costume, come quelle della Boemia, dell'Alsazia, della Francia settentrionale e della Polonia. Non avrebbe dovuto sequestrare in fretta e furia le società anonime, i macchinari industriali, i fondi delle banche, le industrie e le ditte private.
2. In compenso avrebbe dovuto liberare i prigionieri utilizzare l’arma dei plebisciti per fare direttamente con i popoli i trattati di pace o gli armistizi; avrebbe dovuto abolire le frontiere doganali e creare un'unione doganale europea.
3. Avrebbe dovuto attuare non più una politica nazionalista, ma internazionale; o meglio avrebbe dovuto integrare la sua politica nazionale in una politica internazionale. Solo così avrebbe potuto battere le nazioni rivali, cioè la Russia, che ha a sua disposizione l’internazionale comunista, l'internazionale ortodossa e forse anche quella musulmana, l'America e l'Inghilterra che hanno alle loro dipendenze le internazionali democratica, massonica, protestante, cattolica ed ebraica.
Il mito dell'Europa unita avrebbe dovuto essere concretizzato in una serie di realizzazioni spettacolari e profonde.
Nello stesso tempo, alle misure politiche europee, di per sé necessarie ma ancora insufficienti, bisognava aggiungere alcune riforme di struttura che creassero una vera e propria internazionale sociale. Bisognava creare in ogni paese un partito nazionalsocialista e confederarli tutti in un'internazionale nazionalsocialista europea sede a Strasburgo o a Bruxelles. I tentativi norvegesi e olandesi dei Quisling sono falliti perché non erano inquadrati in un vasto movimento europeo [...].
Il nazismo ha rispettato superficialmente e stupidamente le autonomie e le sovranità nazionali, pronto pero a scalzarle con i vecchi strumenti diplomatici, militari e finanziari. Avrebbe fatto meglio a sollecitarle e a costringerle apertamente in modo da ottenere certi risultati economici e sociali e da offrire ai vari popoli libertà reale facendoli partecipare alla potenza liberatrice di un organismo europeo posto al servizio di tutti.
L'egemonia tedesca - un'egemonia è sempre necessaria - ebbe assunto un carattere stabile poggiando su una base federativa e dando a questo principio e alla sua applicazione un significato profondo, un orientamento preciso: i tedeschi dovevano insomma creare un socialismo generalizzato secondo i principi del Fronte del Lavoro e della Forza e Gioia, ma ancora più rafforzati! [...].
Nel 1933 egli avrebbe dovuto imitare Stalin e ripulire completamente l'esercito rinnovando gli stati maggiori e il Corpo degli ufficiali. Avrebbe dovuto rinunciare alle antiche virtù dell'esercito prussiano (esercito oggi condannato perché le armate russe stanno per distruggere nella Prussia il nido degli junkers) e costruire un esercito completamente nuovo, meno preparato da una lunga consuetudine, ma rivivificato tecnicamente da uno spirito politico interamente nuovo.
E stata la Wehrmacht a suggerire a Hitler la sua deplorevole politica di occupazione basata sulle conquiste, sulle parate militari le guarnigioni nelle città, sulle scaramucce diplomatiche (si rispettano il presidente Hàcha e il maresciallo Pétain, ma li si tiene prigionieri). La Wehrmacht non voleva la GESTAPO in Francia, ma con il suo atteggiamento ottuso ha favorito il terrorismo che all'ultimo non poteva essere combattuto che dalla GESTAPO.
La Wehrmacht si crede liberale, ma il suo comportamento rivela tutte le ipocrisie reazionarie che allignano nel liberalismo.
Pare che Hitler, dopo alcuni slanci, alcuni sprazzi di genialità, l'hanno momentaneamente e parzialmente opposto alla Wehrmacht fino al 1942, si sia alla fine rassegnato, umiliato e definitivamente sottomesso al cattivo genio di questa Wehrmacht, istituzione vecchia, rinsecchita e che porterà alla distruzione tutti i resti del conservatorismo monarchico e aristocratico europeo.
Così il fallimento di una guerra è nato dal fallimento della rivoluzione economica, sociale e politica. Ogni fallimento è legato agli altri. Hitler, messo in crisi dalla Wehrmacht, ha compiuto un enorme sbaglio riproponendo una guerra sottomarina simile a quella del 1917 e non ha saputo cogliere le nuove condizioni della guerra aerea. A questo proposito è facile cogliere il nodo dove si avviluppano tutti gli altri fallimenti. Solo una rivoluzione socialista europea che avesse superato le autonomie politiche, le frontiere economiche, che avesse raccolto le masse, avrebbe potuto permettere alla Germania un'industria bellica dalle dimensioni pari a quelle americana e russa. La Germania, incapace per un insufficiente spirito rivoluzionario di diventare europea, non ha saputo compiere le necessarie innovazioni in campo economico, industriale e scientifico; (il suo vecchio campo preferito) e non ha saputo fare una guerra di tipo continentale contro due potenze Continentali. Ha costruito tre o quattromila aeroplani contro i dodicimila o quindicimila degli avversari. La Germania, invece di liberare l'Europa dal suo arcaismo piccolo-borghese e nazionalista, è ricaduta di nuovo in esso.
Nel Journal, alla data 18 febbraio 1945 Drieu analizzava di nuovo fascismo e bolscevismo ponendoli uno accanto all’altro:
I marxisti hanno sostenuto che il fascismo era semplicemente strumento di difesa creato dal capitalismo per contrastare l’avanzata del socialcomunismo. Ma l'atteggiamento del capitalismo, appoggiato solo parzialmente e malvolentieri la formazione fascismo e dell'hitlerismo, e poi si è schierato contro ed ha contribuito alla loro caduta, dimostra che il rapporto era più complesso.
I fascismo è nato e si è sviluppato negli ambienti della piccola borghesia che non erano influenzati dal capitalismo, anzi gli erano contrari.
A parer mio, gli elementi fondamentali del fascismo sono i seguenti:
1. Il puro nazionalismo, assunto al di là di ogni contrapposizione di classi, è stato l'espressione di una reazione contro il trattato Versailles, di una reazione contro gli asservimenti provocati da Versailles.
2. Un nuovo slancio della piccola borghesia, diverso dai movimenti e dagli atteggiamenti democratici assunti da essa nei paesi dove la democrazia non aveva tradizioni antiche e si trovava colpita difficoltà economiche che superavano la pura democrazia politica.
3. La crisi del sindacalismo, del socialismo e dell'anarchismo hanno reagito di fronte alla nascita del comunismo orientale ne hanno capita la lezione. Le élites fasciste sono state costituite uomini provenienti dai gruppi sindacali, anarchici, socialisti e giovani senza partito, e solo eccezionalmente da elementi dell'alta borghesia dell’aristocrazia e dei vecchi partiti di destra. Le Chiese sono state estranee o ostili, sia partendo da un vecchio punto di reazionario che da un vecchio punto di vista liberale. Riassumendo, possiamo dire che il fascismo è stato un tentativo compiuto da elementi di ogni categoria sociale per sfuggire al destino marxista incorporando una parte, una parte troppo esigua del suo metodo.
I fascismo è stato un movimento di massa nel suo periodo d’innocenza e di formazione problematica. Ma ha continuato ad esserlo anche a causa della sclerosi del partito all'interno della me e a causa del mancato sviluppo sindacalista e socialista temo del movimento.
In questo momento parlo del fascismo nella sua più targa acce­zione, ma forse vi sono differenze essenziali fra il fascismo italiano ed il nazismo. Il nazismo ha attuato maggiori riforme socialiste e popolari e quindi è rimasto sino alla fine un movimento di masse. Le guerre scatenate dagli stati fascisti sono state loro fatali. io interrotto lo sviluppo sociale dei movimenti, ridato fiato e indipendenza alle strutture capitaliste, mantenute ancora in vita e giudicate indispensabili per l'economia di guerra, e alle strutture militari legate al capitalismo ed espressione di esso.
Durante la guerra il fascismo è stato soffocato da tutti i nemici che aveva risparmiato. Non era stato abbastanza rivoluzionario, abbastanza sanguinoso (perché non era abbastanza socialista). morto a causa della sua timidezza. E la crudeltà dimostrata all'ultimo, ha affrettato la sua caduta poiché ha combattuto i nemici esclusivamente attraverso le guerre nazionaliste, proclamando i vantaggi del nazionalismo.
Anche il bolscevismo è stato attuato da elementi di ogni classe ma è riuscito ad avere uno slancio irresistibile portando a termine, almeno in apparenza, il programma socialista.
La timidezza del fascismo invece è dovuta alla stanchezza storica delle nazioni europee che si sono trovate di fronte alla freschezza della Russia.
Per capire a fondo il dramma dei fascisti europei bisogna scavare sotto il dramma economico e cogliere il dramma nazionalista e razzista. Il marxista di un tempo non considerava questi elementi, ma la Russia sta sottolineandone, meglio di ogni altra nazione, l'importanza.
Sotto il dramma sociale italiano, c'è un dramma razziale; possiamo dire la stessa cosa per la Spagna e il Portogallo. Si trattò di uno sforzo disperato compiuto dai popoli mediterranei cattolici per superare la situazione di inferiorità in cui si trovano per mancanza di materie prime, per la loro posizione geografica su un mare che è diventato secondario e che è stato bloccato da lungo tempo dagli anglosassoni. E’ un tentativo di rivolta contro l'egemonia anglosassone e, quasi profeticamente, contro l'egemonia slava incalzante.
Dopo Stalingrado tutto è chiaro. L'Europa non può più fare niente. La Germania, la sola nazione capace di confederare l'Europa contro gli Slavi, ha dimostrato con la sua incapacità politica, con a sua timidezza in campo sociale, che l'Europa è finita. La Germania ha perduto l'Europa a causa della poca energia impiegata nel tentativo di salvarla. La sterilità definitiva del genio tedesco, dopo quella francese, inglese e italiana dal 1918 al 1939, condanna l'Europa unita intorno al suo occidente o al suo centro. L'Europa diventerà una semplice propaggine dell'impero russo verso l'oceano occidentale.
Il fascismo non era rimasto fedele a se stesso, alla propria origine, al ruolo che era chiamato a svolgere. La poesia del XX secolo” - come lo aveva definito Brasillach - era stata ridotta a comune prosa. Commentando la fondazione della Repubblica Sociale Italiana, amaramente Drieu scriveva:
Ora Mussolini si proclama fascista repubblicano: lo è stato fino al 1921 e avrebbe fatto meglio restarlo anche in seguito, anziché conservare sul trono il suo re e farne un imperatore”.
La delusione - resa più amara dallo spettacolo offerto dal governo di Vichy - per Drieu, come per Brasillach, per Rebatet, per tutti i fascisti, non costituì una spinta alla rinuncia. “Non si tratta, per noi, in questa incertezza da alba, in cui il freddo pungente paralizza le dita, di abbandonare e rinunciare”, aveva scritto Brasillach alla vigilia di Natale del 1942, dopo aver evocato la “vigilia ironica e amara” trascorsa nei dintorni di Parigi in compagnia di giovani camerati. “Si tratta invece, più che mai, di mantenere fede a quella che fu la ragione, e tale resta tuttora. E la ragione non sta dalla parte delle vecchie illusioni della democrazia, di destra o di sinistra, non sta dalla parte della banca inglese o del terrore sovietico: la ragione si trova nel vecchio capo d'Europa donde partì, tremila anni or sono, la civiltà bianca, risiede nella volontà di un mondo nel quale la giustizia e la forza regneranno, l'una accanto all’atra indissolubilmente. Sta nella rivoluzione del XX secolo. Alle soglie del nuovo anno, pur non nutrendo illusioni, non vogliamo perdere la nostra fede nella vita”.
Il presente stesso e il futuro che si annunciava rendevano impossibile la resa per un intellettuale che, come Drieu, sentiva la responsabilità del proprio ruolo. Si avviava la Grande Sera e non si poteva restare a guardare.
Si sono sistematicamente spezzati tutti i legami del contratto sociale, si è fatto in modo che tutte le forze le quali tenevano avvinti i nodi di tale contratto diventassero completamente inutili e inutilizzabili: non c'è più un governo, non c'è più una giustizia, non c'è più un esercito, non c'è più una polizia”, scriveva Drieu su “La révolution nationale”. Di fronte ad una tale realtà, caratterizzata dal traviamento di una gioventù dedita al mercato nero e al delitto si preparava la totale atomizzazione del corpo sociale in: “una Grande Sera che non sarà quella dei comunisti né anarchici, una Grande Sera che sarà il caos perfetto”. Ma alla notte segue, deve seguire il giorno. Al termine dell’articolo, in cui prevedeva con straordinaria lucidità i cruenti disordini della Liberazione, Drieu annunciava l'Alba doveva seguire la Grande Sera: “E noi, che non siamo borghesi, né conservatori, né reazionari, né democratici cristiani, né massoni, e che siamo capaci, anche noi, di maneggiare il mitra e già cominciamo a maneggiarlo, noi ci interessiamo a quest'Alba ”.
La delusione non lo spingerà a mettersi da parte, a lavarsi le mani della collaborazione e del “fascismo immenso e rosso”. Al contrario, lo indurrà ad assumersi tutte responsabilità ed a testimoniare con la morte, poiché il fallimento della Rivoluzione per lui poteva significare una sola cosa: che bisognava ricominciare da capo per dare Europa ciò che essa attendeva. “E’ meglio salvare l'anima della Rivoluzione che il suo corpo - aveva fatto dire a Saint-Just in Charlotte Corday, il dramma in cui evocava santa del fascismo" -. Il suo corpo è i nostri corpi, cose che non contano. A che serve conservare il potere se diventa una semplice caricatura delle nostre idee, un mostro sangue, contratto dalla paura e dalla violenza? Se noi cadiamo al momento giusto, l'idea sarà raccolta da altri uomini e grazie a noi se ne andrà avanti pura. Dare agli uomini un'idea è una bella cosa”.
Drieu cadrà al momento giusto, il 15 marzo 1945, poche dopo che un ordine di cattura è stato spiccato contro di lui, e poco prima che l'odio dei suoi antichi amici - gli Aragon, gli Eluard, tanti dei quali egli aveva salvato dal carcere - venga soddisfatto. Lo vogliono morto, ed egli stesso vuole morire - “Abbiamo giocato ed io ho perduto. Esigo la morte” - ma lui solo ha il diritto di scegliere il modo e il momento. E’ l'ultimo esempio. Un esempio fecondo, come quello di tutta la sua vita di intellettuale che ha compiuto fino in fondo il dovere che è suo: “andare al di là dell’avvenimento contingente, tentare cammini rischiosi, percorrere tutte le strade possibili della storia” - andare “dove non c'è nessuno”.

CARLO CERBONE

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