lunedì 24 aprile 2023

Sapore di Fiele

 

Di tutta la storia d'Italia che ho cercato di ricostruire nei quindici precedenti volumi, questo che mi accingo a scrivere insieme a Cervi è di gran lunga il più amaro. Non per la disfatta. Ma per il modo in cui vi si giunse e per quello che produsse nella coscienza - o nell'incoscienza degl'italiani. Vorremmo raccontarlo senza pagar pedaggio a nessuna retorica.
Non c'è dubbio che la guerra portò a galla ed esaltò non le qualità, ma i difetti della nostra gente, primo fra tutti la totale mancanza di virtù militari. Non è questa la sede per ricercarne, nella Storia, le cause. Dovremmo risalire all'editto di Caracalla che esentava gl'italiani dalle armi affidandone la difesa ai « barbari », eppoi alla vittoria del Comune sul Castello e del Papato sull'Impero, che procurò l'aborto del feudalesimo, e con esso quello di una civiltà cavalleresca e militare.
Avevano ragione Machiavelli e Foscolo quando chiamavano gl'italiani alle armi dicendo che senza virtù militari non esistono nemmeno virtù civili. Ma il loro grido giungeva troppo tardi. Naturalmente anche fra gl'italiani ci sono ottimi soldati. Ma la massa è imbelle. E non per mancanza di coraggio, ma per mancanza di un'etica che gli faccia da supporto. Ho conosciuto dei disertori che, arruolatisi nella malavita, vi hanno fatto splendide carriere con la loro audacia e risolutezza.
Sarà sempre un mistero se Mussolini ne fosse conscio. Forse sì. Forse l'insistenza con cui esaltava «le virtù guerriere della stirpe» gli era suggerita dalla speranza che l'esaltazione bastasse a crearle. Qualcuno dice che l'impresa di Etiopia lo illuse di esserci riuscito. Ma è un fatto che in guerra si decise ad entrare solo quando credette che fosse già vinta. Anche se circondato da cortigiani, non poteva ignorare le pessime condizioni in cui versavano, come mezzi, le nostre Forze Armate, eccettuata la Marina, le cui lacune, peraltro gravi, erano le portaerei e il radar. Ma il nostro punto debole non era l'armamento, che i tedeschi potevano fornirci e in parte infatti ci fornirono. Il punto debole era la svogliatezza di un materiale umano che solo nell'entusiasmo - quando c'è e finché dura - trova un compenso alle proprie deficienze militari.
Ci furono, come al solito, bellissimi episodi isolati. Prima in Albania, poi in Russia, gli Alpini della Julia diedero prova di resistenza fisica, abnegazione, stoicismo. Ci furono anche episodi romantici come la carica della cavalleria di Betton a Isbušenskij, e quella dei dubat di Guillet a Cheren. Ci furono episodi veramente eroici come quello di de La Penne ad Alessandria. Ma la condotta di guerra fu nel suo insieme deplorevole: un cumulo di errori dovuti a inefficienza, faciloneria, meschinità e codardia.
E' giusto attribuirne la colpa agli Alti comandi. Ma è comodo attribuirla soltanto a loro. Gli Alti comandi della seconda guerra mondiale furono senza dubbio peggiori di quelli della prima, che
già erano stati meno che mediocri. La « carriera » non ha mai selezionato capacità. Si fondava caso mai sui « meriti », documentati in decorazioni, e soprattutto sull'anzianità. Lo « spirito d'iniziativa » - cioè la prontezza dei riflessi, l'inventiva, la fantasia - veniva esaltato solo nel « Regolamento » e nei pedestri e antiquati manuali di tattica. In realtà quella militare era una burocrazia resa ancora più rigida dall'uniforme, per la quale lo spirito d'iniziativa era sinonimo d'insubordinazione.
Ho conosciuto dei generali che avevano più paura delle responsabilità che del nemico. E Rommel, nei suoi ricordi di Caporetto, racconta di essere rimasto sbalordito dalla incapacità dei comandanti italiani, quando si videro presi da tergo, di adeguarsi alla nuova situazione. È noto che seicento cannoni rimasero puntati verso le alture, anche quando fu chiaro che gli austro-tedeschi attaccavano lungo i fondivalle, perché il comandante non voleva assumersi la responsabilità di cambiarne la postazione. Di questi episodi, nella seconda guerra mondiale, ce ne furono a centinaia.
Tuttavia i generali italiani della prima guerra mondiale, anche se poveri di strategia, di mente ottusa e d'idee antiquate, erano stati almeno selezionati in base al carattere. Cadorna non era di certo un fulmine di guerra; ma un uomo serio, duro e votato al « servizio » con zelo sacerdotale, sì. E altri come lui, nell'esercito del Piave e di Vittorio Veneto, ce ne furono. Nei loro successori del ventennio fascista anche le doti morali scaddero, il carrierismo non ebbe più freno e si giovò anche del clientelismo politico. Sia in Libia che in Albania e in Russia vidi generali impegnati più a difendere il « posto » che le posizioni. Qualcuno di essi seppe anche morir bene. Ma nell'insieme la dirigenza militare fu tale che non fu possibile trovare un sostituto del vecchio Badoglio che, come funzionario di caserma e artigiano di battaglie all'antica, era almeno il più serio ed esperto.
Sarebbe però ingeneroso e deviante far ricadere tutta la responsabilità della disfatta sugli Alti comandi. Essi non furono di certo all'altezza della situazione, ma furono a misura di una truppa, di una cittadinanza, insomma di un Paese che non offriva, né poteva fornire, niente di meglio. La tesi di certi storici di parte secondo i quali l'Italia perse la guerra per il tradimento dei suoi capi
militari, o almeno di alcuni di essi, non è degna nemmeno di essere confutata. Quelli che furono citati come casi di sabotaggio e boicottaggio erano in realtà casi di inefficienza, incompetenza e confusione, come l'invio in Albania di una grossa partita di scarpe tutte per il piede sinistro. La verità è che lo slancio patriottico che nella prima guerra mondiale aveva surrogato le deficienti qualità militari del soldato italiano, nella seconda non ei fu. Questo capitale morale Mussolini se lo era mangiato nella campagna di Abissinia, dove esso aveva toccato la sua acme contagiando tutto il
Paese. Poi l'inflazione ch'egli aveva fatto dei valori e degl'ideali a cui s'ispirava se li era mangiati e corrosi. L'Italia che il 10 Giugno del '40 scese in campo, convinta di restarci solo pochi giorni o poche settimane, era un'Italia non solo materialmente impreparata, ma anche psicologicamente « scaricata », stanca di retorica guerriera, e intimamente convinta che la vittoria sarebbe stata la vittoria dei tedeschi, più pericolosa di una sconfitta.
Fu in questo stato d'animo che le reclute partirono per il fronte, sorrette solo dalla speranza - che dapprincipio era quasi certezza - di starci poco. L'amara constatazione che il conflitto si allungava nel tempo e nello spazio abbatté completamente il loro già vacillante morale. Nelle varie zone di operazione in cui mi trovai a lavorare vidi arrivare soldati che, prima di schierarsi nei loro reparti, avevano già l'aria di prigionieri. Li vidi battersi, alcuni anche bene, ma solo per istinto di conservazione. Più spesso però li vidi sbandare e arrendersi e fuggire. Quasi mai mi capitò di vedere reparti bene impiegati, operanti disciplinatamente secondo piani ragionevoli. Quasi sempre tutto era affidato all'improvvisazione - nella quale ciascuno per conto suo si mostrava come al solito maestro -, al caso, a S. Gennaro, allo stellone. La cosa più grave era che nessuno sembrava sentirsi coinvolto nell'umiliazione delle disfatte che subivamo, anzi tutti o quasi tutti avevano l'aria di compiacersene, come contagiati da un'epidemia di masochismo, da cui nemmeno chi scrive rimase immune.
Ma il peggio del peggio venne al momento della capitolazione, festosamente accolta come una liberazione. Anzi, questa parola liberazione venne assunta come alibi della resa. Gli anglo-americani
che nel luglio del '43 sbarcarono in Sicilia non vi trovarono nessuno a difendere quello che il Duce si ostinava a chiamare « il sacro suolo della Patria » perché non erano già più il nemico, ma i liberatori. A Pantelleria l'unico morto italiano fu un soldato che si prese un calcio da un mulo. Non era nemmeno uno sbandamento. Fu uno sciopero militare. E da quel momento uno strano delirio di
autolesionismo sembrò impossessarsi di tutti, a cominciare dalla Monarchia.
Vittorio Emanuele non era più il Re di Peschiera, che nell'emergenza di Caporetto, quando tutto sembrava crollargli intorno, aveva incusso rispetto anche agli alleati anglo-francesi con la sua calma e risolutezza. Era stato lui, allora, ad assumersi la responsabilità delle più gravi decisioni, come il sacrificio di Cadorna, e il suo esempio era valso molto a rianimare la volontà di resistenza e di rivincita. Alla guerra del fascismo, ch'egli non aveva fatto nulla per evitare, aveva invece assistito come un estraneo. Anche dopo essersi lasciato strappare dal Duce la delega del Comando supremo, avrebbe avuto molti modi e pretesti per far sentire la sua presenza alle truppe combattenti. Alle notizie delle continue sconfitte che subivamo su tutti i fronti, non reagì mai con parole di dolore, o di speranza, o d'incoraggiamento. Fino alla vigilia del 25 Luglio la sua condotta fu guardinga e ambigua. Più sollecito del suo trono che dell'Italia, credette di salvarlo accollando ad altri la responsabilità di seppellire il Regime e di abbandonare l'alleato. Ma l'unica iniziativa che prese facendo arrestare il Duce all'uscita dell'ultima udienza e sulla soglia stessa della villa reale non fu un gesto da Re, come gli rinfacciò sua moglie che, per quanto figlia di un pastore montenegrino, si dimostrò più regina di lui.
Fu l'inizio di una serqua di errori che ci discreditarono agli occhi del mondo intero più di quanto ci discreditasse la disfatta. La scelta di Badoglio fu infelice. Gli approcci con gli alleati, malaccorti al punto da renderci sospetti di doppio giuoco. La fuga di Pescara, ignominiosa. E non è vero che il Re vi fu costretto dal dovere di assicurare la continuità dello Stato e la responsabilità del comando. Stato e comando non esistevano più, e comunque potevano essere affidati al Principe Umberto. Se il Re, proclamato l'armistizio, fosse rimasto al suo posto offrendosi ai tedeschi come capro espiatorio del « tradimento », quasi certamente avrebbe perso la vita, ma quasi certamente salvato la Monarchia e in un certo senso l'immagine dell'Italia.
Ma questa immagine contribuimmo tutti ad offuscarla. Se l'esempio del « Si salvi chi può » venne dall'alto, bisogna dire che tutto il Paese dimostrò la più favorevole disposizione a seguirlo. La segreta speranza di tutti gl'italiani, civili e militari, era di cavarsi fuori da quella tragedia senza pagare dazio né ai tedeschi né agli alleati. Il 25 Luglio un fascista, uno solo ci fu, che scelse, suicidandosi, di morire col Regime: Manlio Morgagni, presidente dell'agenzia di stampa « Stefani »: una carica che, dopo la Liberazione, non gli sarebbe forse costata nemmeno un mese di carcere.
L'8 Settembre non ci fu un solo colonnello che, per non consegnare la caserma ai tedeschi, si sparasse un colpo di rivoltella. Lo sfacelo fu totale.
Altrettanto la mancanza, in noi italiani, di ogni senso di tragedia per questo sfacelo.
L'Italia non aveva mai dato di sé uno spettacolo tanto miserando. Nessun capitolo della sua Storia è più umiliante, vergognoso e, specie per chi ne fu partecipe, più doloroso da rievocare.
Indro Montanelli
L'Italia della Disfatta, pagg. 5-12