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sabato 23 marzo 2024

Il vile attentato del 23 marzo 1944 in Via Rasella, ove le vittime furono solo cittadini italiani, anche secondo "dettagli" confortati di recente dal giornalista Luigi Sardi

A ottanta anni dal vile attentato di VIA RASELLA, propongo la interessante lettura di questo testo redatto dal Prof. Antonio Pantano.

Desumo dal citato lavoro del giornalista Luigi Sardi per specificare che il vile attentato dinamitardo, a scopo di massacro di inermi, organizzato ed imposto - per mia convinzione basata su dati storici razionali, vertenti sul totale dominio degli Alleati su ogni attività "clandestina partigiana proditoria" - dai servizi segreti Alleati a Roma, il 23 1944, nella centralissima via Rasella, si prefisse di provocare, e provocò, numerose vittime. Solo cittadini italiani. Tra questi, 33 morti indossando la divisa militare della gendarmeria germanica di riserva, erano italiani anagraficamente.

Luigi Sardi, con correttezza rara nel giornalismo italiano, fotograficamente riproduce nello intero secondo capitolo la pubblicazione, èdita da "Alto Adige - Corriere delle Alpi" nel 1979, redatta da Umberto Gandini, col titolo "Quelli di via Rasella - La storia di sudtirolesi che subirono l'attentato del 23 matzo 1944 a Roma"

Gandini, 35 anni dopo i fatti, riuscì ad intervistare alcuni superstiti dell'attentato, tutti residenti in Italia. E non solo sei di essi (Franz Bertagnoli di Caldaro, Konrad Sigmund di Luson, Franz Cassar di Termeno, Joseph Praxmarer di San Giacomo, Peter Putzer di Varna, Sylvester Putzer di Varna), ma i documenti riguardanti i 33 assassinati proditoriamente - i nomi dei quali sono oggi esposti solo in elenco affisso nel santuario cattolico alpino di Pietralba, nel comune di Nova Levante, in provincia di Bolzano - confermano che tutti furono cittadini italiani praticanti fluenti parlate italiana e tedesca, tanto che, da giovani, adempirono la leva militare nello esercito italiano in Italia e nelle colonie italiane d'oltre mare, e sempre ebbero nostro passaporto. 

La ferocia falsificatrice degli stolti antifascisti servili verso i nemici Alleati, ignorò le vittime civili italiane, pur ammettendo che tutte le vittime militari, inserite nella 10.a ed 11.a compagnia del battaglione Bozen proprio perché nati e residenti nella provincia italiana di Bolzano, erano di età matura ed avanzata (quasi tutti quarantenni) e marciavano senza armi addosso, perché riservisti con compiti ausiliari burocratici di polizia, dopo esercitazione mattutina, verso gli alloggi siti all'ultimo piano del palazzo del Viminale. Con lo stesso cinico criterio di falsità si tentò di far apparire sia i feriti (oltre ottanta, tea i quali molti mutilati irreparabilmente) che i morti come "poliziotti delle feroci SS", mentendo senza pudore per tentare di giustificare la destinazione "logica e antifascista" dello attentato, che fu attuato intenzionalmente per provocare la reazione (auspicata dagli attentatori e dagli organizzatori nella inevitabile grande quantità ed effetto) dei comandi militari germanici, secondo le leggi marziali vigenti in ogni Stato e Paese in guerra. 

Criterio che gli Alleati adottarono sistematicamente in maniera maggiore sulla base di 100 ostaggi contro ogni loro militare ucciso. Ma l'identica ferocia faziosa ha inventato, per fola retorica, la figura del maggiore Herbert Kappler [ Stoccarda, 23 settembre 1907 - Soltau, 9 febbraio 1978 ] come quella di un sadico aguzzino, indicato regista e partecipe di episodi degli accadimenti romani di guerra dopo 1'8 settembre 1943, sempre e solo indicato col suggestivo epiteto di "boia", certamente per sviare dalla realtà dei fatti responsabilità non consone ad un ufficiale germanico, che aveva modesto ruolo esecutivo nei servizi di polizia. Figura falsificata ribaltata dalle testimonianze non solo dei citati sei sopravvissuti, ma, per l'intero capitolo quinto che il prevenuto ed antifascista Luigi Sardi ha pubblicato, emerge come di indole contraria alla consolidata fama imbastitagli addosso, in spregio ad ogni verità. 

La figura di Herbert Kappler è stata creata artificiosamente dopo il 1945 da falsari della storia prezzolati (identici a coloro che vilmente fomentarono l'assassinio bestiale del dottore Donato Carretta, direttore delle carceri romane di Regina Coeli, eseguito il 14 settembre 1944 a furor di popolo aizzato da mestatori provocatori comunisti sotto gli occhi compiaciuti delle autorità militari Alleate, e della loro gendarmeria, che su Roma imperavano in regime di occupazione).  

Ancor oggi qualche mentecatto addebita a Kappler ruoli, iniziative e potere che mai ebbe e mai possibili per il suo grado militare di maggiore, a lungo portato, ed infine di tenente colonnello della polizia delle SS.

Per sminuire la portata vile dello eccidio criminale compiuto a Roma in via Rasella (ideato  e voluto dagli Alleati, mentre le loro numerose e ben munite truppe ristagnavano incapaci, bloccate. Battute e decimate sul fronte di Cassino e su quello tra Nettunia, Ardea e l'E42 alla periferia della Capitale, arginate da impari - assai minori nel numero e nella potenza degli armamenti - militari italiani e germanici) i gazzettieri e gli imbonitori di aneddoti successivi millantarono la storia in pedissequa linea con le disposizioni imposte dai loro soprastanti anglo-americani. 

Così si esaltò con enfasi solo la sofferenza ed il patimento delle 335 vittime (falsando e  prescindendo dalle ragioni giuridiche per le quali furono imprigionate, ad esse va rivolto ogni umano rispetto) sacrificate per rappresaglia legittima nelle cave di pozzolano  di Tor Marancia presso la via Ardeatina, negando e continuando a tacere ancor oggi persino i nomi di tutti coloro che, altrettanto incolpevoli ed ignari, militari comunque disarmati e civili, 24 ore prima perdettero la vita per azione vigliacca. A costoro mai alcuno della "ufficialità" civile e religiosa destinò un cenno di umana considerazione, giustificando con falsità il casuale ruolo di vittime nello assassinio in via Rasella.

Kappler trascinò l'intera esistenza fino al 15 agosto 1977, con trentennale detenzione in ergastolo isolato, nella ipocrita dannazione totale impostagli da faziosi bugiardi, inetti ad approfondire le verità storiche. Fu creato artificiosamente sul caso Kappler un "capro espiatorio" utile e necessario per tacere molte altre implicazioni di personaggi di basso cabotaggio che sui drammatici accadimenti di quei tempi hanno tratto lustro e vantaggi di carriera successiva. Ciò non solo nel campo italiano, ma anche in quello vaticano.

E la stessa dannazione perdurò ancor più dopo, oltre la morte avvenuta per cancro devastante il 9 febbraio 1978, finalmente libero, in Germania. 

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35 giorni dopo il noto politico Aldo Moro fu "sequestrato" in un feroce, cinico "gioco" dialettico partitico tra fazioni italiane, e tre esatti mesi dopo fu assassinato. O, come usano scrivere impropriamente i giornalisti italiani, "giustiziato".  

Ma dell'altro che Luigi Sardi ha trattato nel libro taccio per ora, specie in relazione a ciò che riguarda la vicenda della riserva aurea "italiana", essendomi ripromesso di trattare altrove, come ho fatto, sulla base di fondamenti inoppugnabili, a proposito dell'opera del ministro delle finanze della Repubblica Sociale Italiana prof. Domenico Pellegrini Giampietro, e circa la quale anche da Sardi vengono sostenute imprecise orecchiate e rimbalzate non verità. 


paragrafo liberamente estrapolato dal poderoso volume di "Antonio Pantano, EZRA POUND & Pellegrini, Ed. Vita NOVA, pagg.593-594-595."

lunedì 24 aprile 2023

Sapore di Fiele

 

Di tutta la storia d'Italia che ho cercato di ricostruire nei quindici precedenti volumi, questo che mi accingo a scrivere insieme a Cervi è di gran lunga il più amaro. Non per la disfatta. Ma per il modo in cui vi si giunse e per quello che produsse nella coscienza - o nell'incoscienza degl'italiani. Vorremmo raccontarlo senza pagar pedaggio a nessuna retorica.
Non c'è dubbio che la guerra portò a galla ed esaltò non le qualità, ma i difetti della nostra gente, primo fra tutti la totale mancanza di virtù militari. Non è questa la sede per ricercarne, nella Storia, le cause. Dovremmo risalire all'editto di Caracalla che esentava gl'italiani dalle armi affidandone la difesa ai « barbari », eppoi alla vittoria del Comune sul Castello e del Papato sull'Impero, che procurò l'aborto del feudalesimo, e con esso quello di una civiltà cavalleresca e militare.
Avevano ragione Machiavelli e Foscolo quando chiamavano gl'italiani alle armi dicendo che senza virtù militari non esistono nemmeno virtù civili. Ma il loro grido giungeva troppo tardi. Naturalmente anche fra gl'italiani ci sono ottimi soldati. Ma la massa è imbelle. E non per mancanza di coraggio, ma per mancanza di un'etica che gli faccia da supporto. Ho conosciuto dei disertori che, arruolatisi nella malavita, vi hanno fatto splendide carriere con la loro audacia e risolutezza.
Sarà sempre un mistero se Mussolini ne fosse conscio. Forse sì. Forse l'insistenza con cui esaltava «le virtù guerriere della stirpe» gli era suggerita dalla speranza che l'esaltazione bastasse a crearle. Qualcuno dice che l'impresa di Etiopia lo illuse di esserci riuscito. Ma è un fatto che in guerra si decise ad entrare solo quando credette che fosse già vinta. Anche se circondato da cortigiani, non poteva ignorare le pessime condizioni in cui versavano, come mezzi, le nostre Forze Armate, eccettuata la Marina, le cui lacune, peraltro gravi, erano le portaerei e il radar. Ma il nostro punto debole non era l'armamento, che i tedeschi potevano fornirci e in parte infatti ci fornirono. Il punto debole era la svogliatezza di un materiale umano che solo nell'entusiasmo - quando c'è e finché dura - trova un compenso alle proprie deficienze militari.
Ci furono, come al solito, bellissimi episodi isolati. Prima in Albania, poi in Russia, gli Alpini della Julia diedero prova di resistenza fisica, abnegazione, stoicismo. Ci furono anche episodi romantici come la carica della cavalleria di Betton a Isbušenskij, e quella dei dubat di Guillet a Cheren. Ci furono episodi veramente eroici come quello di de La Penne ad Alessandria. Ma la condotta di guerra fu nel suo insieme deplorevole: un cumulo di errori dovuti a inefficienza, faciloneria, meschinità e codardia.
E' giusto attribuirne la colpa agli Alti comandi. Ma è comodo attribuirla soltanto a loro. Gli Alti comandi della seconda guerra mondiale furono senza dubbio peggiori di quelli della prima, che
già erano stati meno che mediocri. La « carriera » non ha mai selezionato capacità. Si fondava caso mai sui « meriti », documentati in decorazioni, e soprattutto sull'anzianità. Lo « spirito d'iniziativa » - cioè la prontezza dei riflessi, l'inventiva, la fantasia - veniva esaltato solo nel « Regolamento » e nei pedestri e antiquati manuali di tattica. In realtà quella militare era una burocrazia resa ancora più rigida dall'uniforme, per la quale lo spirito d'iniziativa era sinonimo d'insubordinazione.
Ho conosciuto dei generali che avevano più paura delle responsabilità che del nemico. E Rommel, nei suoi ricordi di Caporetto, racconta di essere rimasto sbalordito dalla incapacità dei comandanti italiani, quando si videro presi da tergo, di adeguarsi alla nuova situazione. È noto che seicento cannoni rimasero puntati verso le alture, anche quando fu chiaro che gli austro-tedeschi attaccavano lungo i fondivalle, perché il comandante non voleva assumersi la responsabilità di cambiarne la postazione. Di questi episodi, nella seconda guerra mondiale, ce ne furono a centinaia.
Tuttavia i generali italiani della prima guerra mondiale, anche se poveri di strategia, di mente ottusa e d'idee antiquate, erano stati almeno selezionati in base al carattere. Cadorna non era di certo un fulmine di guerra; ma un uomo serio, duro e votato al « servizio » con zelo sacerdotale, sì. E altri come lui, nell'esercito del Piave e di Vittorio Veneto, ce ne furono. Nei loro successori del ventennio fascista anche le doti morali scaddero, il carrierismo non ebbe più freno e si giovò anche del clientelismo politico. Sia in Libia che in Albania e in Russia vidi generali impegnati più a difendere il « posto » che le posizioni. Qualcuno di essi seppe anche morir bene. Ma nell'insieme la dirigenza militare fu tale che non fu possibile trovare un sostituto del vecchio Badoglio che, come funzionario di caserma e artigiano di battaglie all'antica, era almeno il più serio ed esperto.
Sarebbe però ingeneroso e deviante far ricadere tutta la responsabilità della disfatta sugli Alti comandi. Essi non furono di certo all'altezza della situazione, ma furono a misura di una truppa, di una cittadinanza, insomma di un Paese che non offriva, né poteva fornire, niente di meglio. La tesi di certi storici di parte secondo i quali l'Italia perse la guerra per il tradimento dei suoi capi
militari, o almeno di alcuni di essi, non è degna nemmeno di essere confutata. Quelli che furono citati come casi di sabotaggio e boicottaggio erano in realtà casi di inefficienza, incompetenza e confusione, come l'invio in Albania di una grossa partita di scarpe tutte per il piede sinistro. La verità è che lo slancio patriottico che nella prima guerra mondiale aveva surrogato le deficienti qualità militari del soldato italiano, nella seconda non ei fu. Questo capitale morale Mussolini se lo era mangiato nella campagna di Abissinia, dove esso aveva toccato la sua acme contagiando tutto il
Paese. Poi l'inflazione ch'egli aveva fatto dei valori e degl'ideali a cui s'ispirava se li era mangiati e corrosi. L'Italia che il 10 Giugno del '40 scese in campo, convinta di restarci solo pochi giorni o poche settimane, era un'Italia non solo materialmente impreparata, ma anche psicologicamente « scaricata », stanca di retorica guerriera, e intimamente convinta che la vittoria sarebbe stata la vittoria dei tedeschi, più pericolosa di una sconfitta.
Fu in questo stato d'animo che le reclute partirono per il fronte, sorrette solo dalla speranza - che dapprincipio era quasi certezza - di starci poco. L'amara constatazione che il conflitto si allungava nel tempo e nello spazio abbatté completamente il loro già vacillante morale. Nelle varie zone di operazione in cui mi trovai a lavorare vidi arrivare soldati che, prima di schierarsi nei loro reparti, avevano già l'aria di prigionieri. Li vidi battersi, alcuni anche bene, ma solo per istinto di conservazione. Più spesso però li vidi sbandare e arrendersi e fuggire. Quasi mai mi capitò di vedere reparti bene impiegati, operanti disciplinatamente secondo piani ragionevoli. Quasi sempre tutto era affidato all'improvvisazione - nella quale ciascuno per conto suo si mostrava come al solito maestro -, al caso, a S. Gennaro, allo stellone. La cosa più grave era che nessuno sembrava sentirsi coinvolto nell'umiliazione delle disfatte che subivamo, anzi tutti o quasi tutti avevano l'aria di compiacersene, come contagiati da un'epidemia di masochismo, da cui nemmeno chi scrive rimase immune.
Ma il peggio del peggio venne al momento della capitolazione, festosamente accolta come una liberazione. Anzi, questa parola liberazione venne assunta come alibi della resa. Gli anglo-americani
che nel luglio del '43 sbarcarono in Sicilia non vi trovarono nessuno a difendere quello che il Duce si ostinava a chiamare « il sacro suolo della Patria » perché non erano già più il nemico, ma i liberatori. A Pantelleria l'unico morto italiano fu un soldato che si prese un calcio da un mulo. Non era nemmeno uno sbandamento. Fu uno sciopero militare. E da quel momento uno strano delirio di
autolesionismo sembrò impossessarsi di tutti, a cominciare dalla Monarchia.
Vittorio Emanuele non era più il Re di Peschiera, che nell'emergenza di Caporetto, quando tutto sembrava crollargli intorno, aveva incusso rispetto anche agli alleati anglo-francesi con la sua calma e risolutezza. Era stato lui, allora, ad assumersi la responsabilità delle più gravi decisioni, come il sacrificio di Cadorna, e il suo esempio era valso molto a rianimare la volontà di resistenza e di rivincita. Alla guerra del fascismo, ch'egli non aveva fatto nulla per evitare, aveva invece assistito come un estraneo. Anche dopo essersi lasciato strappare dal Duce la delega del Comando supremo, avrebbe avuto molti modi e pretesti per far sentire la sua presenza alle truppe combattenti. Alle notizie delle continue sconfitte che subivamo su tutti i fronti, non reagì mai con parole di dolore, o di speranza, o d'incoraggiamento. Fino alla vigilia del 25 Luglio la sua condotta fu guardinga e ambigua. Più sollecito del suo trono che dell'Italia, credette di salvarlo accollando ad altri la responsabilità di seppellire il Regime e di abbandonare l'alleato. Ma l'unica iniziativa che prese facendo arrestare il Duce all'uscita dell'ultima udienza e sulla soglia stessa della villa reale non fu un gesto da Re, come gli rinfacciò sua moglie che, per quanto figlia di un pastore montenegrino, si dimostrò più regina di lui.
Fu l'inizio di una serqua di errori che ci discreditarono agli occhi del mondo intero più di quanto ci discreditasse la disfatta. La scelta di Badoglio fu infelice. Gli approcci con gli alleati, malaccorti al punto da renderci sospetti di doppio giuoco. La fuga di Pescara, ignominiosa. E non è vero che il Re vi fu costretto dal dovere di assicurare la continuità dello Stato e la responsabilità del comando. Stato e comando non esistevano più, e comunque potevano essere affidati al Principe Umberto. Se il Re, proclamato l'armistizio, fosse rimasto al suo posto offrendosi ai tedeschi come capro espiatorio del « tradimento », quasi certamente avrebbe perso la vita, ma quasi certamente salvato la Monarchia e in un certo senso l'immagine dell'Italia.
Ma questa immagine contribuimmo tutti ad offuscarla. Se l'esempio del « Si salvi chi può » venne dall'alto, bisogna dire che tutto il Paese dimostrò la più favorevole disposizione a seguirlo. La segreta speranza di tutti gl'italiani, civili e militari, era di cavarsi fuori da quella tragedia senza pagare dazio né ai tedeschi né agli alleati. Il 25 Luglio un fascista, uno solo ci fu, che scelse, suicidandosi, di morire col Regime: Manlio Morgagni, presidente dell'agenzia di stampa « Stefani »: una carica che, dopo la Liberazione, non gli sarebbe forse costata nemmeno un mese di carcere.
L'8 Settembre non ci fu un solo colonnello che, per non consegnare la caserma ai tedeschi, si sparasse un colpo di rivoltella. Lo sfacelo fu totale.
Altrettanto la mancanza, in noi italiani, di ogni senso di tragedia per questo sfacelo.
L'Italia non aveva mai dato di sé uno spettacolo tanto miserando. Nessun capitolo della sua Storia è più umiliante, vergognoso e, specie per chi ne fu partecipe, più doloroso da rievocare.
Indro Montanelli
L'Italia della Disfatta, pagg. 5-12

martedì 1 ottobre 2019

L'eroina di Rimini (Sangue italiano)

Il Radio-giornale del Partito ha trasmesso. Ieri sera, la seguente nota su un leggendario episodio della battaglia di Rimini. dal titolo: «L'eroina riminese».




La prima pattuglia nemica entra in Rimini da Porta Romana. Il lungo viale dei platani che immette nel sobborgo XX Settembre con sullo sfondo le macerie della bramantesca chiesa della Colonnella, taglia col suo rettilineo cumuli di rottami: tutto è diroccato, lo stadio civico, la chiesa dei Cappuccini, la chiesa di San Giovanni, le case, i palazzi, il convento dei Cappuccini, la chiesa di Santo Spirito. Sul quadrivio della via Flaminia, di dove si dipartono la via nazionale di San Marino, la via dei Trai e la via XX Settembre, dondola un semaforo sospeso lassù a mezz’aria non si sa come, tra le rovine di ogni cosa all’intorno. La pattuglia canadese esita incerta sulla direzione da prendere. Il cielo è solcato dal rombo dei velivoli e delle cannonate che vengono dal mare, dalle colline e dalla parte opposta della città; crepitano in distanza le mitragliatrici, l’aria acre velata di fumo e di polvere. All’intorno, in qualsiasi parte volgano lo sguardo, i Canadesi non scorgono se non calcinacci, non una casa in piedi; le macerie si stendono per chilometri; tutta la superficie di quella che era la vivace, elegante e ricca città adriatica è una sola, immensa, caotica distesa di pietre: a malapena si distinguono i tracciati di quelle che furono le vie principali. Mentre la pattuglia sta per imboccare a caso la via XX Settembre, un’ombra si muove dietro un cumulo di rovine: i Canadesi spianano le armi, pronti a sparare. Non è un’ombra, è una donna, una giovane donna. Ella alza le mani e i Canadesi la circondano. Una granata cade sui ruderi dello stadio sollevando un nugolo di rottami. Il terriccio e la polvere entrano nella bocca e negli occhi. Alla deflagrazione la ragazza è rimasta immobile a braccia levate. Un Canadese le rivolge la parola in un gergo a base di francese. La ragazza si sforza di comprendere e alla fine riesce a capire la domanda del soldato. Costui chiede da che parte si vada per raggiungere la via Emilia. L’interpellata, dopo un’impercettibile incertezza indica con la mano la via dei Trai. Il Canadese si consulta coi compagni e torna a guardare la ragazza. Costei gli fa cenno col braccio invitandolo a seguirla. Il gruppo allora s’incammina. La ragazza, una popolana sui 18 anni, bruna, dalle membra forti, e slanciate, lacera e sporca, cammina spedita. La lunga e diritta via dei Trai conduce in piazza Tripoli, al mare, non all’arco di Augusto e alla Via Emilia. La pattuglia, composta di una ventina di uomini, più due soldati tedeschi prigionieri, procede nel tragico scenario della città morta; i Canadesi tengono i fucili spianati, pronti a far fuoco; i due Tedeschi, al centro dei gruppo, mostrano i segni della lotta nei volti e sulle uniformi, ma camminano marzialmente. La popolana li sbircia, di sfuggita: pare ai Tedeschi che quello sguardo abbia un significato. Quale significato? La giovane riminese continua a camminare, gli alberi che fiancheggiano la via sono diverti, tronchi e fronde ingombrano il passaggio, giacciono sulle macerie delle case. La popolana si volge a guardare i due Tedeschi, i quali questa volta sono loro a sorridere. Ancora pochi passi, poi una tremenda esplosione lancia in aria macerie e persone, avvolgendole in una nube di terriccio, di calcinacci, di informi rottami. Una pausa tragica. Un attimo di terrificante silenzio. Poi il gemito dei feriti. Un uomo poi si raddrizza sulle natiche, si netta il sangue dal volto, si leva in piedi. E’ ferito ma salvo. I Canadesi morti in gran parte, sfracellati dallo scoppio. I rimanenti agonizzano. Agonizza anche la popolana, che ha avuto le gambe amputate e il volto ferito dalla formidabile esplosione. L’uomo che fra tutti si è salvato, uno dei soldati tedeschi, si accosta alla moribonda: ella gli sorride con una smorfia e riesce a dire penosamente: «Sapevo che qui esisteva un campo di mine… perché vi aveva lavorato mio fratello… vi ho condotto gli Inglesi perché sono stata violentata da due Australiani… in una casa colonica dove ci eravamo rifugiati… ho seguito questa pattuglia… volevo vendicarmi … non sapevo come … la sorte mi ha favorito … ». L’eroina sta dissanguandosi; il suo volto diventa cadaverico. Il soldato tedesco non può far nulla per lei se non raccoglierne l’ultima parola: «Ho vendicato il mio onore». Il soldato tedesco si china sulla morente e la bacia in fronte. Quando risolleva il capo la giovane eroina è spirata. Questo ci ha raccontato il soldato tedesco dopo aver raggiunto i propri camerati all’altra estremità della città morta. Il soldato, che dopo un anno di soggiorno in Italia si esprime abbastanza bene nella nostra lingua, così ha commentato il suo racconto: «La ragazza non aveva indosso alcuna carta o qualsiasi documento di riconoscimento. Non ho potuto quindi sapere il suo nome». E si è rammaricato, il soldato tedesco, di non averglielo chiesto prima che ella spirasse. Il nome dell’eroina rimarrà sconosciuto forse per sempre, e così la storia di questa guerra ricorderà il leggendario episodio come quello della eroina riminese. Dell’anonima ma fulgida eroina riminese.

Articolo apparso su il "Corriere della sera" del 1, Ottobre, 1944

giovedì 19 aprile 2001

Berlino 1945: nel nome della razza

Dal n° 183 - Aprile 2001 della rivista “Avanguardia”
«Sparagli Piero / sparagli ora / e dopo un colpo / sparagli ancora / fino a che tu non lo vedrai esangue / cadere in terra / coprire il suo sangue» Fabrizio De Andrè
Maurizio Lattanzio aveva coscientemente eluso l'evocazione razziale e la rappresentazione politico-scrittoria della battaglia di Berlino (“Per chi?" è una gradevole canzone dei Gens...), poiché ciò avrebbe configurato, nello sgangherato ambiente antropologico del neofascismo di servizio, il velleitario tentativo di allenare per il gran premio di galoppo «j'asene de Bazzoffie, che teneve novantanove piaghe i' la coda fraciche» (l'asino di Bazzoffie personaggio vissuto in quel di Popoli, provincia di Pescara-, il quale aveva novantanove piaghe e la coda fradicia). Oggi lo abbiamo fatto perché siamo certi dell’inesistenza di plausibili destinatari... dunque, non si verificheranno incomprensioni... perché, con i contemporanei, non ci intenderemmo nemmeno se esprimessimo giudizi estetici riferiti alla signora Alba Parietti... infatti, essi noterebbero sicuramente soltanto i qualitativi difetti (mah!) della medesima... mentre noi a contrariis, affermiamo che, in una femmina o, nel caso di specie, in un’immagine femminile, ognuno vede ciò che ha dentro, in quanto la femmina è l'informe bestialità ricettiva che assume la forma del mondo interiore promanante dallo sguardo dell'uomo che sa imprigionarne la demoniaca animalità... se è un uomo e se ha voglia di ammirarla... saremmo d'accordo, invece, circa la spiccata conformità della dr.ssa Maria Latella nei confronti dell'archetipo femminile, soprattutto con riferimento alla marmorea sensualità irradiata dalla tondeggiante levigatezza carnale che accarezza la tornita perfezione volumetrica del suo collo...
Maurizio Lattanzio ha esploso un colpo di pistola contro la nuca pelata e lardosa del neofascismo atlantico di servizio, determinando la fine di una parodia politica funzionalmente complementare al Sistema giudaico-mondialista. Ciò è avvenuto allo scopo di propiziare le condizioni necessarie, anche se non sufficienti, per l'affermazione dell'essenza rivoluzionaria del nazionalsocialismo tedesco, la quale, nel terzo millennio, si incarnerà nella forma razziale del soldato politico nichilista (ci vengono in mente i khmer rossi di Pol Pot... per intenderci...), conforme e coerente precipitato antropologico della verticale manifestazione guerriera che culminerà vittoriosamente nella leggendaria apoteosi combattente della battaglia di Berlino. In questo secondo dopoguerra, il neofascismo di servizio ha costantemente sottolineato la valenza ultimativa della più gran battaglia totale della storia, erigendola ad alibistica nobilitazione di un habitat antropologico malsanamente predisposto alla masochistica coltivazione e al patologico compiacimento della sconfitta, intesa quale premessa di deresponsabilizzazione politica e quale evento preclusivo per l’elaborazione di ogni successiva prassi politico-progettuale anti sistemica.
Per la malafede di costoro, avendo la battaglia di Berlino sancito la fine definitiva del Nazionalsocialismo e, più ampiamente, del Fascismo europeo -ogni realistica prospettazione di una dinamica politico-rivoluzionaria di lotta al Sistema per l'annientamento del Sistema, sarebbe caratterizzata da velleitarismo, perché, tanto, la partita decisiva era stata giocata nel 1945. Essi, tutt'al più, hanno intravisto l'effetto militare di quella battaglia e di quel conflitto, mentre, evidentemente, è sfuggito alla loro asfittica capacità di comprensione e alla loro complessiva sub-dotazione razziale, manovrata dagli apparati di servizio statunitensi, il valore simbolico, spirituale e politico-razziale del totalkampf di Berlino, oggi trasposto nella battaglia politica condotta dalla Comunità Politica di Avanguardia, consapevolmente schierata al fianco dell'Islam tradizionale e rivoluzionario esemplarmente incarnato dalla Repubblica Islamica dell'Iran.
3La battaglia di Berlino costituisce l'epifania storica di un significato metastorico, ovvero della lotta cosmica -il Kòsmos, inteso quale ordine divino che si imprime sul disordine demoniaco assimilabile alla nozione di Kaos- fra il principio olimpico-solare della Tradizione; incarnato dal Terzo Reich nazionalsocialista, e le forze tellurico-lunari della Sovversione, incarnate dalle bande mercenarie sioniste asservite al bolscevismo ebraico e alle giudeo-democrazie occidentali: «Da una parte -scrive Julius Evola- stava il principio olimpico della luce, la realtà uranica e solare; dall'altra, la violenza bruta, l'elemento titanico-tellurico, barbarico in senso classico, femminile-demonico. II tema di questa lotta metafisica ritorna in mille modi di apparizione in tutte le tradizioni di origine aria. Ogni lotta in senso materiale veniva sempre vissuta con la maggiore o minore consapevolezza che essa altro non era che un episodio di quell’antitesi...»; infatti «... l'arianità considerava se stessa quale milizia del principio olimpico (...). Nell'immagine del mondo tradizionale ogni realtà diveniva simbolo. Ciò vale per la guerra anche dal punto di vista soggettivo e interiore. Così potevano essere fuse in una sola e medesima entità guerra e via del divino. (...) il Walhalla è la sede dell'immortalità celeste, riservata principalmente agli eroi caduti sul campo di battaglia. II signore di questi luoghi, Odhino-Wothan, viene presentato nella Ynghingasaga come colui che con il suo simbolico sacrificio all'Albero cosmico Ygdrasil ha indicato la via ai guerrieri, via che conduce alla sede divina, ove fiorisce la vita immortale. (...) nessun sacrificio o culto è gradito al dio supremo, nessuno ottiene più ricchi frutti ultraterreni di quel sacrificio che si offre mentre si muore combattendo sul campo di battaglia. (...) attraverso i guerrieri che, cadendo, offrono un sacrificio a Odhino, si ingrossa la schiera di coloro di cui questo dio ha bisogno per l'ultima battaglia contro il ragna-rókkr, cioè contro il fatale “oscuramento del divino”, che, da tempi lontani, incombe minaccioso sul mondo». (1)
La battaglia di Berlino, dunque, anche sul piano simbolico-tradizionale, lungi dal configurarsi quale ultima battaglia, è la prefigurazione storico-simbolica della battaglia decisiva che, nel corso del terzo millennio (entro il primo quinquennio? O anche più tardi, considerando che l'ebreo Edward Luttwak, autorevole portavoce mondialista, in un'intervista rilasciata a "II Messaggero" del 25 marzo 1997, al giornalista Luigi Vaccari che gli chiedeva: «Che parte assegna, in questo scenario, al fondamentalismo islamico?», così rispondeva: «Comparato a questi grandi cambiamenti, è un problema da quattro soldi: veramente insignificante. La maggior parte dei Paesi mussulmani lo sta combattendo vigorosamente. Gli stessi fondamentalisti sono così deboli che neanche in Israele, dove vivono accanto al nemico, riescono a fare niente: uccidono tre persone lì, quattro persone là. Sono una banda di incapaci. La crisi di fine Secolo è il ritorno della povertà che si esprime con i bassi salari e con la disoccupazione non più temporanea ma cronica». Insomma, come dire: «non è cosa ...», ovvero, la volpe che parla dell'uva... lasciamo perdere l'Islam tradizionale e rivoluzionario sia perché le sanzioni economiche, decretate unilateralmente dagli USA contro la Repubblica Islamica dell'Iran, sono ricadute (nel 1996) fragorosamente sulla testa vuota di Clinton, sia perché c'è il rischio di farsi male ... sia perché la strategia e la prassi mondialiste suscitano squilibri socio-economici che, per gli oligarchi ebrei, risultano assai più pericolosi che non le avanguardie combattenti mussulmane... a tale proposito leggete il libro di Lester C. Thurow, "II futuro del capitalismo", Mondadori, ‘97... e anche perché, una squadra dedita alle autoreti, così procedendo, trasmette una grande fiducia nella compagine avversaria... quindi, caro Luttwak, gli incapaci siete voi. Del resto, per voi, l'onda di riflusso iniziata nel gennaio 1991, continua... avreste dovuto giocare allora, e quando cazzo la chiudete più? Più incapaci di così... perché il mondo si divide in due categorie: quelli che non chiudono le partite e quelli che rimontano: voi non sapete chiudere le partite ...), sarà combattuta, con esito vittorioso, dai militanti totali dell'Ordine della Tradizione contro il disordine sovversivo rappresentato dal Sistema giudaico-mondialista, riflettendo, sul piano delle forme storiche, il simbolo metastorico della lotta spirituale fra la Tradizione e la Sovversione.
Sul piano spirituale, l'etica guerriera che alimenterà la superiore capacità di combattimento dei soldati politici SS, nonché dei soldati della Wermacht, costituisce la manifestazione storica dei valori interni ad ogni forma tradizionale, la quale abbia conosciuto esperienze spirituali di iniziazione guerriera: «... tale azione spirituale -scrive Julius Evola- consisteva nel trasformare l'io individuale dalla normale coscienza umana, che è circoscritta e individuata, in una forza profonda, superindividuale (...) che è al di là di nascita e morte.» Ciò determina «... una crisi distruttiva; così come un fulmine, in séguito a una tensione troppo alta di potenziale nel circuito umano. (...) in tal caso, si produrrebbe una specie di esperienza attiva della morte (...). Nella tradizione nordica, il guerriero vede la propria walkiria per l'appunto nell'istante della morte o del pericolo mortale. (...) All'apice del pericolo del combattimento eroico si riconobbe la possibilità di tale esperienza supernormale. (...) Le Furie e la Morte, che il guerriero ha materialmente affrontate sul campo di battaglia, lo contrastano anche interiormente sul piano spirituale, sotto forma di un minaccioso erompere delle forze primordiali del suo essere. Nella misura in cui egli trionfi su di esse, la vittoria è sua». (2)
Queste valenze formatrici simbolico-guerriere hanno sicuramente plasmato la forma antropologica e ispirato le condotte esemplari di coloro che, consapevolmente, hanno vissuto la battaglia di Berlino quale atto assoluto che, irrompendo sul piano della contingenza storica, invera, al di là di ogni utilitaristica quantificazione delle occasioni, la dimensione divina del valore archetipico-guerriero. Esso devasterà l'orizzonte storico della vacillante umanità adusa a misurare la convenienza politica correlata con l'esito militare di una vicenda bellica ormai estranea a qualsivoglia valutazione di opportunità, sia pure meramente tattica. Nel 1945, a Berlino, non si pensa più in termini umani: l'aristocrazia politica nazionalsocialista sarà l'esemplificazione razziale di uno stile comportamentale sottratto al dominio contingente delle esagitazioni attivistiche in cui gli umani (?) consumano le loro insignificanti esistenze. II Führer, infatti, conosce lo spessore cosmico sotteso allo scontro militare che lo oppone alle forze alleate, braccio armato del capitalismo ebraico internazionale. La guerra, dunque, si sarebbe sicuramente conclusa con la vittoria totale o con l'annientamento totale: «Già nel 1923 -scrive Serge Hutin-, dieci anni prima della sua ascesa al potere, Hitler diceva, nel suo caratteristico stile profetico: "Ciò che oggi si prepara sarà molto più grande della Grande Guerra. Lo scontro avverrà sul suolo tedesco in nome del mondo intero! Non vi sono che due possibilità: o noi saremo gli agnelli sacrificali o noi saremo i vincitori"». (1) Parimenti, Berger e Pauwels scrivono: «(...) Fu una guerra manichea o, come dice la Scrittura, "una lotta di dei". Non si tratta, beninteso, di una lotta tra Fascismo e democrazia (...). Questo è l'aspetto esteriore della lotta. C'è un esoterismo. Questa lotta di dei che si è svolta dietro gli avvenimenti appariscenti non è terminata sul pianeta ...». (4) È il 6 febbraio 1945, quando il Führer, nel suo Quartier Generale, pronuncia le seguenti parole: «Da una lotta disperata si irradia sempre un eterno valore esemplare». (5)
Sul piano politico-razziale, noi affermiamo che, nell'apocalisse di Berlino, la forma politica nazionalsocialista scolpirà la connotazione razziale di una figura nuova, il soldato politico nichilista, il quale proietterà la sua disincarnata immagine oltre l'epilogo del secondo millennio. I soldati politici SS non combatteranno per una ratio strategico-militare ormai inesistente; non combatteranno per Dio, latitante tra le macerie di Berlino; non combatteranno per la Patria (con la «P» maiuscola...), ormai integralmente occupata dalle bande mercenarie sioniste sovietico-statunitensi; non combatteranno per le femmine e per i bambini, ormai preda di guerra per i calmucchi ubriachi; non combatteranno per sopravvivere: altrimenti si sarebbero arresi ... i soldati politici SS combatteranno nel nome della razza, ovvero nel nome della fedeltà alla propria razza, nella quale vive la superiore essenza del sangue arioeuropeo, fatalmente abbacinato da un destino di morte. Sono le visionarie prefigurazioni nichilistiche del superuomo di Friedrich Nietzsche e, successivamente, dell'autarca delineato da Julius Evola nella glaciale scultura scrittoria di "Cavalcare la tigre". Tra le rovine di Berlino, sorge l’uomo nuovo che affermerà i valori spirituali, aristocratici, gerarchici e guerrieri del Terzo Reich nazionalsocialista nell'epoca della contemporaneità nichilistica. È l'«atto del transito», che, muovendo dalla figura del soldato politico SS, approderà alla Iniziazione del Nulla, stabilendo un continuum antropologico con la futura forma razziale dell'aristocrazia politica composta dai soldati politici nichilisti del terzo millennio. Essi saranno gli iniziati del Nulla, ai quali, interiormente, non appartiene nessuna delle «buone e venerate cose» che corredano la porcilaia borghese, anche perché, simmetricamente, a nulla essi appartengono. Il rogo di Berlino è la metafora storica del nichilistico rogo esistenziale della propria vita, condotta gradualmente a combustione dentro se stessi, mediante la gelida recisione delle aderenze naturalistiche che subordinano i comportamenti del singolo alla sfera vegetativa individuale, condizionata dalla bestiale dittatura della pulsione sentimentale e dell'istinto di conservazione. Per i combattenti di Berlino non esiste la paura, poiché chi non è schiavo della paura ha superato la vita; dunque, egli è il dominatore della morte. Chi non appartiene a nulla è capace di tutto (anche di venire a prelevarvi in braccio alle troie delle vostre mogli, a casa vostra...). Egli, dunque, risulta razzialmente idoneo a fini di arruolamento nell'aristocrazia politica rivoluzionaria che guiderà la guerra totale di annientamento contro il Sistema giudaico-mondialista. Solo allora il teschio argenteo impresso sulle mostrine dell'uniforme indossata dai soldati politici SS non sarà impotente vagheggiamento nostalgico né inerte compiacimento letterario. Questo sigillo simbolico identificherà dunque l'aristocrazia rivoluzionaria dei soldati politici nichilisti trasmutati dalla Iniziazione del Nulla, ovvero dalla «prova del Fuoco», così dis-velata da Julius Evola: «Saper gittare via tutto (...) - questa (...) è la prima condizione per una tale via. È l'esperienza precedente la Grande Solitudine, il deserto senza luce in mezzo a cui l'io deve consistere, mediante una forza che egli deve 'assolutamente creare dal nulla. Di là da ciò la prova del Fuoco. (...) ... generare in sé la potenza di darsi una vita superiore mediante l'incendio e la catastrofe di tutta la propria stessa vita; confermare la propria autonomia consistendo quando ogni terreno sfugge da sotto i piedi, quando non si tocca più il fondo e tutto ciò su cui prima riposava la persuasione perde ogni fermezza e si dissolve in un caos incoercibile questo è il nuovo compito. Esso investirà (...) ogni categoria della persona; può trasmutare dunque dall'ironia per ogni espressione estetica e dalla dissoluzione di ogni religiosità, sino ad una pazzia cosciente e ragionata; da un'implacabile e onnipervadente scetticismo corrodente ogni certezza filosofica e scientifica, sino alla violazione deliberata di ogni legge morale e sociale; dalla riaffermazione di là da ogni valore riconosciuto e da ogni autorità, fino alla negazione di ogni fede, ideale o entusiasmo e al disprezzo di ogni sentimento di umanità, di amore o rispetto. Infine, dalla severità di una disciplina di ascesi e di mortificazione avente in se stessa, nel suo momento semplicemente negativo, il proprio fine e la propria gioia, sino a uno scatenato orgiasmo che, nello spingerle all'estrema intensità, arda in se stessa ogni passione. Di là da tutto: saper portare all'apice tutto ciò da cui il terrore originario è esasperato, tutto ciò che il nostro essere naturale e istintivo disperatamente non vuole, saper rompere il limite e scavare sempre più profondamente, dovunque, il senso dell'abisso vertiginoso, e consistere nel trapasso, sussistere là dove gli altri sarebbero travolti. Nulla deve più esistere, a questo punto, che possa venire rispettato, nulla che si senta di non essere capaci di fare. (...) una dipendenza non è migliore di un'altra e lo scopo non è di cambiare padroni (legge del bene, dello spirito, della libertà, ecc.), sibbene di riaffermare l'io sopra ad ogni correlazione, qualunque essa sia - di farne qualcosa di agile, di duro, di freddo, di inafferrabile, di pronto, qualcosa che è libero in questo suo vivere pericolosamente come potenza negatrice di ogni determinazione e di ogni appoggio». (6)
Per gli uomini di questa razza, il termine «resa» sarà un incomprensibile suono composto da quattro fonemi... per costoro, nell'ambito di uno specifico quadro di riferimento militare, il combattimento sarà concepito esclusivamente quale prassi tattico-strategica offensiva, sempre e comunque diretta all'annientamento del nemico, pronta a fare peggio contro chiunque voglia farti male... essi saranno sempre decisi ad elevare il coefficiente di intensità del conflitto contro chi, in una notte -per altro, afosa... - di mezza estate, ha sognato di fare loro paura... buh! ... sempre consapevoli del fatto che si risponde con moltiplicata efficacia di contrasto ad ogni attacco nemico... sempre capaci di lasciare segni indelebili sul viso e sulla vita di coloro che, non importa se con esito vincente o perdente, li hanno aggrediti... sempre determinati all'offensiva, anche sulle strade di Berlino, anche a poche centinaia di metri dal Führer bunker... Noi abbiamo così evocato, dalle scaturigini del Nulla, la razza dei combattenti capace di rendere probabile l'impossibile...
La battaglia del saliente di Kursk e la controffensiva delle Ardenne, preceduta dall'invasione alleata della Normandia, costituiscono gli eventi bellici che consentiranno alle bande mercenarie dell'ebraismo internazionale plutocratico-bolscevico di inquadrare strategicamente l'obiettivo militare rappresentato dalla capitale del Terzo Reich.
Nell'estate del 1943, il Führer decide la ripresa dell'iniziativa strategica sul fronte orientale, avviando una terza offensiva. Ciò anche in relazione al fatto che l'industria bellica nazionalsocialista si appresta a conseguire i massimi livelli produttivi. È l'operazione "Cittadella". Si tratta di accerchiare e di annientare un milione di soldati sovietici, il 40% delle forze di cui dispone l'Armata Rossa, serrandoli con una manovra a tenaglia nel saliente di Kursk. Le divisioni corazzate della Wermacht si aprirebbero così di nuovo la strada verso Mosca, capitale del bolscevismo ebraico: «La vittoria di Kursk -il Führer ne è sicuro- sarà un faro che illuminerà il mondo». Ma l'azione spionistica della "Orchestra Rossa" consentirà ai sovietici di conoscere in anticipo i piani. nazionalsocialisti e di apprestare un solido sbarramento difensivo, grazie anche e soprattutto agli aiuti militari giudaico-statunitensi. Basti solo pensare, ad esempio, ai
500.000 autocarri veloci che permetteranno ai sovietici di spostare, rapidamente e tempestivamente, soldati e mezzi lungo tutto l'arco del vastissimo fronte.
Alla fine della più grande battaglia di carri della storia, i combattenti nazionalsocialisti avranno perso mezzo milione di uomini, le migliori forze corazzate, nonché, per sempre, l'iniziativa strategica sul fronte orientale.
«Quando sbarcheranno -sono parole di Erwin Rommel- li dobbiamo ributtare in mare il giorno stesso. Quello, per la Germania, sarà il giorno più lungo». E il giorno più lungo, sul fronte occidentale, verrà il 6 giugno 1944, quando i mercenari anglo statunitensi, braccio armato del capitalismo ebraico internazionale, inizieranno il processo imperialistico di occupazione dell'Eurasia, sbarcando in Normandia: «... 6480 navi da trasporto, con circa 4000 mezzi da sbarco, scortate da 6 navi da battaglia, 23 incrociatori, 122 cacciatorpediniere, 360 torpediniere e alcune centinaia di navi attrezzi» (7), vomiteranno contro le difese del Vallo Atlantico una marea di soldati e di armi. Nel cielo, 13.000 aerei, ai quale la Luftwaffe potrà opporne solo 319, sganceranno sugli eroici soldati del Terzo Reich 12.000 tonnellate di bombe. Da questo momento, grazie a un’immane supremazia materiale, le bande sioniste avranno aperto una ferita mortale nel fianco occidentale dell'Eurasia. Esse punteranno verso Berlino, fronteggiate, per altro, dal supremo orgoglio, dalla superiore volontà e dalla incomparabile capaci di combattimento dei soldati del Terzo Reich, simboleggiata dalla leggendaria controffensiva delle Ardenne del dicembre 1944: la "battaglia dei giganti", come sarà definita dagli stessi statunitensi: «Obiettivo Anversa, il grande porto belga -scrive Romualdi- senza il quale gli americani non potrebbero alimentare l'offensiva contro la Germania. È la estrema, geniale mossa di Hitler, che tenta di ripetere la manovra del 1940, la frattura del fronte nemico e l'insaccamento di una parte di esso». (8)
Tra i boschi delle Ardenne, i generali delle Waffen-SS Sepp Dietrich e Jochen Peiper, i generali della Wermacht Hasso Von Manteuffel e Walter Model, saranno i protagonisti della magistrale controffensiva delle armate nazionalsocialiste. II 6° Panzerkorps di Dietrich sfonderà a Malmedy per puntare su Anversa; Von Manteuffel e Model punteranno su Bruxelles attraverso Bastogne e la Mosa; a sud, Peiper, al comando di un'altra leggenda (una delle tante...), ovvero la 1ª divisione corazzata "Leibstandarte SS Adolf Hitler", proteggerà il fianco meridionale: 28 divisioni, 200.000 uomini e 1000 carri si avventano contro le difese alleate. Gli anglo-statunitensi, inizialmente travolti, vacillano. Sembra l'ennesimo miracolo bellico propiziato dall’insuperata genialità strategica del Führer. Ma, alla distanza, la mancanza di carburante, l'impossibilità di disporre dell'ausilio della Luftwaffe, favoriranno le armate asservite all'ebraismo internazionale.
Anche sul fronte occidentale, l'iniziativa strategica si è definitivamente esaurita.
Nel gennaio 1945, già prima della caduta di Budapest e di Varsavia, i rapporti di forza sono irreversibilmente saltati: lungo la linea compresa tra la Prussia orientale e i Carpazi, l'Armata Rossa schiera complessivamente 3.900.000 soldati contro 1.000.000; 50.000 cannoni contro 12.000; 9.800 carri contro 1836; 14.800 aerei contro 1570. II 12 gennaio 1945, guidata dal maresciallo Koniev, inizia l'offensiva sovietica in direzione di Berlino: «In tal modo -scrive Joachim C. Fest-, l'intero schieramento tra il Mar Baltico e i Carpazi si mise in movimento, e si trattava, da parte sovietica, di una enorme macchina bellica, la cui superiorità era di undici a uno rispetto ai tedeschi per quanto riguardava la fanteria, di sette a uno per quanto atteneva alle forze corazzate, e di ben venti a uno quanto ad artiglieria». (9)
II 16 gennaio 1945, il Führer, lasciata la Wolfschanze di Rastenburg, nella Prussia orientale, rientrerà a Berlino per aspettare il nemico di razza e per fare della battaglia di Berlino la sua battaglia, ovvero l'apocalittica arsione della Civiltà arioeuropea: «Hitler aveva deciso di rimanere a Berlino per ua'ino la `rerà a Berlino per `assumere personalmente la difesa della città (...). I presenti cercarono di persuaderlo a lasciare la capitale perché era ormai impossibile controllarne la situazione; ma Hitler rispose (...) che sarebbe rimasto e per sottolineare là sua decisione annunciò che avrebbe comunicato la sua presenza nella capitale». (10) Sono parole del Führer: «Se giunge la fine, allora voglio che mi trovi qui, nella Cancelleria del Reich. Per me non esistono compromessi. Né tanto meno cadrò nelle mani del nemico. lo rimango a Berlino». (11) Le macerie della capitale del Reich saranno tappezzate -accanto alle preesistenti scritte: «WIR KAPITULIEREN NIE» (Noi non capitoleremo mai)- da manifesti recanti il seguente proclama: «II Führer è a Berlino. II Führer resterà a Berlino. II Führer difenderà Berlino fino all'ultimo respiro». A tale volontà porgerà eco il dr. Goebbels: «Parlando di questi giorni, la storia non potrà mai dire che il popolo abbia abbandonato il suo capo o il capo abbia abbandonato il suo popolo. E questa è la vittoria!» (12)
Intanto, 6200 carri sovietici T 34, sostenuti da migliaia di aerei, dilagano nelle pianure polacche. II ReichsFührer SS Heinrich Himmler, nominato comandante del Gruppo Armate Vistola, tenta l'impossibile sul fronte di Pomerania. Soldati politici SS e militi della Wermacht, volontari europei inquadrati nelle Waffen-SS, si dissanguano per arginare le orde slavo-mongole del bolscevismo ebraico. A marzo, però, l'impossibile diventa probabile: il fronte sarà fissato sull'Oder: Berlino è ormai città di prima linea e Joseph Goebbels, Gauleiter della capitale e Reichskommissar per la guerra totale, ne organizza la difesa. Proclamata la mobilitazione totale, tutti gli uomini validi dai 15 ai 60 anni, armati di Panzerfaust, vengono inquadrati nel Volksturm e nella Hitlerjugend; essi saranno l'esercito de popolo che contribuirà all'estrema difesa della capitale del Terzo Reich e dell'Eurasia.
II 16 aprile 1945, alle ore 4 del mattino, 22.000 cannoni, 13 armate, alla quale si oppone l'unica armata del Generale Heinrici, scatenano l'attacco finale a Berlino. Si combatterà casa per casa, nelle strade, nelle piazze, guidati dall'indomabile volontà del Führer, primo soldato politico dell'Ordine Nuovo, il quale sarà presente al suo posto di comando nel "Führerbunker" della Cancelleria del Reich, per combattere, fino al tragico esito finale, la sua battaglia, la battaglia .di Berlino. Quindi, si dissolverà nel sudario di sangue e di fuoco nel quale saranno composte le spoglie mortali della capitale del Terzo Reich.
Mentre sulla Alexanderplatz il Kampfkommandant Barefànqer risponde a chi gli obietta la scarsità di munizioni: «Allora combatteremo all'arma bianca. Noi difendiamo un'idea»; mentre sulla Friedrichstrasse, sulla Potsdamerplatz e sulla Wilhelmstrasse, le Waffen-SS e la Hitlerjugend di Axmann, attingendo a vertici di sovrumano eroismo, riescono ancora a contenere l'assalto finale del branco slavo-mongolo; mentre il 29 aprile 1945, i soldati politici della "SS Charlemagne" e della "SS Nordland" sferreranno una leggendaria controffensiva sulla Belle Alliance Platz, distruggendo sette carri sovietici; e, ancora, mentre il 30 aprile 1945, i difensori della Cancelleria del Terzo Reich -superstiti della "SS Charlemagne" e della "SS Nordland", del "15° Fucilieri SS Lettoni", e soldati della Wermacht- saranno annientati affrontando i sovietici all'arma bianca sulle scalinate e fin dentro i sotterranei del Reichstag, un annuncio radiofonico essenziale, scarno, spartano nella sua maestosa laconicità, testimonierà l'esemplare epilogo di una vita virilmente composta nella forma eroica della milizia totale: «II Quartier Generale comunica che, oggi pomeriggio, il nostro FüHrer Adolf Hitler è caduto per la Germania, al suo posto di comando nella Cancelleria del Reich, combattendo il bolscevismo fino all'ultimo respiro. II 30 aprile il Führer ha nominato suo successore il Grande Ammiraglio Doenitz».
«Altissime, poi vibranti e spezzate, poi ancora alte, cupe e solennemente funebri, erano risuonate le note della marcia funebre di Sigfrido dal "Crepuscolo degli Dèi"». (13)
Nel nome della razza.
Maurizio Lattanzio
NOTE:
1) Julius Evola, "La dottrina aria di lotta e vittoria", Ed. di Ar, s.d.;
2) Julius Evola, op. cit.;
3) Serge Hutin, "Governi occulti e società segrete", Ed. Mediterranee, Roma ‘73;
4) Berger e Pauwels, "II mattino dei maghi", Mondadori, Milano ‘63;
5) Adolf Hitler, "Ultimi discorsi", Edizioni di Ar, Padova ‘88;
6) Julius Evola, "Fenomenologia dell'Individuo Assoluto", Ed. Mediterranee, Roma ‘76;
7) A. Romualdi, "Le ultime ore dell'Europa", Ciarrapico Editore, Roma ‘76;
8) A. Romualdi, op. cit.;
9) Joachim C. Fest, "Hitler", Rizzoli Editore, Milano ‘74;
10) M. L. Gennaro, "La battaglia di Berlino", De Vecchi Editore, Milano ‘74;
11) R. D. Múller - G. R. Ueberschar, "La fine del Terzo Reich", Il Mulino, Bologna ‘95;
12) P. J. Goebbels, discorso del 20 aprile ‘45;
13) A. Romualdi, (pref. a) Adolf Hitler, "La battaglia di Berlino", Ed. di Ar, Padova ‘77

mercoledì 4 aprile 2001

Berlino 1945: nel nome della razza

«Sparagli Piero / sparagli ora / e dopo un colpo / sparagli ancora / fino a che tu non lo vedrai esangue / cadere in terra / coprire il suo sangue» Fabrizio De André

Maurizio Lattanzio aveva coscientemente eluso l'evocazione razziale e la rappresentazione politico-scrittoria della battaglia di Berlino (“Per chi?" è una gradevole canzone dei Gens...), poiché ciò avrebbe configurato, nello sgangherato ambiente antropologico del neofascismo di servizio, il velleitario tentativo di allenare per il gran premio di galoppo «j'asene de Bazzoffie, che teneve novantanove piaghe i' la coda fraciche» (l'asino di Bazzoffie -personaggio vissuto in quel di Popoli, provincia di Pescara-, il quale aveva novantanove piaghe e la coda fradicia). Oggi lo abbiamo fatto perché siamo certi dell’inesistenza di plausibili destinatari... dunque, non si verificheranno incomprensioni... perché, con i contemporanei, non ci intenderemmo nemmeno se esprimessimo giudizi estetici riferiti alla signora Alba Parietti... infatti, essi noterebbero sicuramente soltanto i qualitativi difetti (mah!) della medesima... mentre noi a contrariis, affermiamo che, in una femmina o, nel caso di specie, in un’immagine femminile, ognuno vede ciò che ha dentro, in quanto la femmina è l'informe bestialità ricettiva che assume la forma del mondo interiore promanante dallo sguardo dell'uomo che sa imprigionarne la demoniaca animalità... se è un uomo e se ha voglia di ammirarla... saremmo d'accordo, invece, circa la spiccata conformità della dr.ssa Maria Latella nei confronti dell'archetipo femminile, soprattutto con riferimento alla marmorea sensualità irradiata dalla tondeggiante levigatezza carnale che accarezza la tornita perfezione volumetrica del suo collo...
Maurizio Lattanzio ha esploso un colpo di pistola contro la nuca pelata e lardosa del neofascismo atlantico di servizio, determinando la fine di una parodia politica funzionalmente complementare al Sistema giudaico-mondialista. Ciò è avvenuto allo scopo di propiziare le condizioni necessarie, anche se non sufficienti, per l'affermazione dell'essenza rivoluzionaria del nazionalsocialismo tedesco, la quale, nel terzo millennio, si incarnerà nella forma razziale del soldato politico nichilista (ci vengono in mente i khmer rossi di Pol Pot... per intenderci...), conforme e coerente precipitato antropologico della verticale manifestazione guerriera che culminerà vittoriosamente nella leggendaria apoteosi combattente della battaglia di Berlino. In questo secondo dopoguerra, il neofascismo di servizio ha costantemente sottolineato la valenza ultimativa della più gran battaglia totale della storia, erigendola ad alibistica nobilitazione di un habitat antropologico malsanamente predisposto alla masochistica coltivazione e al patologico compiacimento della sconfitta, intesa quale premessa di deresponsabilizzazione politica e quale evento preclusivo per l’elaborazione di ogni successiva prassi politico-progettuale anti sistemica.
Per la malafede di costoro, avendo la battaglia di Berlino sancito la fine definitiva del Nazionalsocialismo e, più ampiamente, del Fascismo europeo -ogni realistica prospettazione di una dinamica politico-rivoluzionaria di lotta al Sistema per l'annientamento del Sistema, sarebbe caratterizzata da velleitarismo, perché, tanto, la partita decisiva era stata giocata nel 1945. Essi, tutt'al più, hanno intravisto l'effetto militare di quella battaglia e di quel conflitto, mentre, evidentemente, è sfuggito alla loro asfittica capacità di comprensione e alla loro complessiva sub-dotazione razziale, manovrata dagli apparati di servizio statunitensi, il valore simbolico, spirituale e politico-razziale del totalkampf di Berlino, oggi trasposto nella battaglia politica condotta dalla Comunità Politica di Avanguardia, consapevolmente schierata al fianco dell'Islam tradizionale e rivoluzionario esemplarmente incarnato dalla Repubblica Islamica dell'Iran.
La battaglia di Berlino costituisce l'epifania storica di un significato metastorico, ovvero della lotta cosmica -il Kòsmos, inteso quale ordine divino che si imprime sul disordine demoniaco assimilabile alla nozione di Kàos- fra il principio olimpico-solare della Tradizione; incarnato dal Terzo Reich nazionalsocialista, e le forze tellurico-lunari della Sovversione, incarnate dalle bande mercenarie sioniste asservite al bolscevismo ebraico e alle giudeo-democrazie occidentali: «Da una parte -scrive Julius Evola- stava il principio olimpico della luce, la realtà uranica e solare; dall'altra, la violenza bruta, l'elemento titanico-tellurico, barbarico in senso classico, femminile-demonico. II tema di questa lotta metafisica ritorna in mille modi di apparizione in tutte le tradizioni di origine aria. Ogni lotta in senso materiale veniva sempre vissuta con la maggiore o minore consapevolezza che essa altro non era che un episodio di quell’antitesi...»; infatti «... l'arianità considerava se stessa quale milizia del principio olimpico (...). Nell'immagine del mondo tradizionale ogni realtà diveniva simbolo. Ciò vale per la guerra anche dal punto di vista soggettivo e interiore. Così potevano essere fuse in una sola e medesima entità guerra e via del divino. (...) il Walhalla è la sede dell'immortalità celeste, riservata principalmente agli eroi caduti sul campo di battaglia. II signore di questi luoghi, Odhino-Wothan, viene presentato nella Ynghingasaga come colui che con il suo simbolico sacrificio all'Albero cosmico Ygdrasil ha indicato la via ai guerrieri, via che conduce alla sede divina, ove fiorisce la vita immortale. (...) nessun sacrificio o culto è gradito al dio supremo, nessuno ottiene più ricchi frutti ultraterreni di quel sacrificio che si offre mentre si muore combattendo sul campo di battaglia. (...) attraverso i guerrieri che, cadendo, offrono un sacrificio a Odhino, si ingrossa la schiera di coloro di cui questo dio ha bisogno per l'ultima battaglia contro il ragna-rókkr, cioè contro il fatale “oscuramento del divino”, che, da tempi lontani, incombe minaccioso sul mondo». (1)
La battaglia di Berlino, dunque, anche sul piano simbolico-tradizionale, lungi dal configurarsi quale ultima battaglia, è la prefigurazione storico-simbolica della battaglia decisiva che, nel corso del terzo millennio (entro il primo quinquennio? O anche più tardi, considerando che l'ebreo Edward Luttwak, autorevole portavoce mondialista, in un'intervista rilasciata a "II Messaggero" del 25 marzo 1997, al giornalista Luigi Vaccari che gli chiedeva: «Che parte assegna, in questo scenario, al fondamentalismo islamico?», così rispondeva: «Comparato a questi grandi cambiamenti, è un problema da quattro soldi: veramente insignificante. La maggior parte dei Paesi mussulmani lo sta combattendo vigorosamente. Gli stessi fondamentalisti sono così deboli che neanche in Israele, dove vivono accanto al nemico, riescono a fare niente: uccidono tre persone lì, quattro persone là. Sono una banda di incapaci. La crisi di fine Secolo è il ritorno della povertà che si esprime con i bassi salari e con la disoccupazione non più temporanea ma cronica». Insomma, come dire: «non è cosa ...», ovvero, la volpe che parla dell'uva... lasciamo perdere l'Islam tradizionale e rivoluzionario sia perché le sanzioni economiche, decretate unilateralmente dagli USA contro la Repubblica Islamica dell'Iran, sono ricadute (nel 1996) fragorosamente sulla testa vuota di Clinton, sia perché c'è il rischio di farsi male ... sia perché la strategia e la prassi mondialiste suscitano squilibri socio-economici che, per gli oligarchi ebrei, risultano assai più pericolosi che non le avanguardie combattenti mussulmane... a tale proposito leggete il libro di Lester C. Thurow, "II futuro del capitalismo", Mondadori, ‘97... e anche perché, una squadra dedita alle autoreti, così procedendo, trasmette una grande fiducia nella compagine avversaria... quindi, caro Luttwak, gli incapaci siete voi. Del resto, per voi, l'onda di riflusso iniziata nel gennaio 1991, continua... avreste dovuto giocare allora, e quando cazzo la chiudete più? Più incapaci di così... perché il mondo si divide in due categorie: quelli che non chiudono le partite e quelli che rimontano: voi non sapete chiudere le partite ...), sarà combattuta, con esito vittorioso, dai militanti totali dell'Ordine della Tradizione contro il disordine sovversivo rappresentato dal Sistema giudaico-mondialista, riflettendo, sul piano delle forme storiche, il simbolo metastorico della lotta spirituale fra la Tradizione e la Sovversione.
Sul piano spirituale, l'etica guerriera che alimenterà la superiore capacità di combattimento dei soldati politici SS, nonché dei soldati della Wermacht, costituisce la manifestazione storica dei valori interni ad ogni forma tradizionale, la quale abbia conosciuto esperienze spirituali di iniziazione guerriera: «... tale azione spirituale -scrive Julius Evola- consisteva nel trasformare l'io individuale dalla normale coscienza umana, che è circoscritta e individuata, in una forza profonda, superindividuale (...) che è al di là di nascita e morte.» Ciò determina «... una crisi distruttiva; così come un fulmine, in séguito a una tensione troppo alta di potenziale nel circuito umano. (...) in tal caso, si produrrebbe una specie di esperienza attiva della morte (...). Nella tradizione nordica, il guerriero vede la propria walkiria per l'appunto nell'istante della morte o del pericolo mortale. (...) All'apice del pericolo del combattimento eroico si riconobbe la possibilità di tale esperienza supernormale. (...) Le Furie e la Morte, che il guerriero ha materialmente affrontate sul campo di battaglia, lo contrastano anche interiormente sul piano spirituale, sotto forma di un minaccioso erompere delle forze primordiali del suo essere. Nella misura in cui egli trionfi su di esse, la vittoria è sua». (2)
Queste valenze formatrici simbolico-guerriere hanno sicuramente plasmato la forma antropologica e ispirato le condotte esemplari di coloro che, consapevolmente, hanno vissuto la battaglia di Berlino quale atto assoluto che, irrompendo sul piano della contingenza storica, invera, al di là di ogni utilitaristica quantificazione delle occasioni, la dimensione divina del valore archetipico-guerriero. Esso devasterà l'orizzonte storico della vacillante umanità adusa a misurare la convenienza politica correlata con l'esito militare di una vicenda bellica ormai estranea a qualsivoglia valutazione di opportunità, sia pure meramente tattica. Nel 1945, a Berlino, non si pensa più in termini umani: l'aristocrazia politica nazionalsocialista sarà l'esemplificazione razziale di uno stile comportamentale sottratto al dominio contingente delle esagitazioni attivistiche in cui gli umani (?) consumano le loro insignificanti esistenze. II Führer, infatti, conosce lo spessore cosmico sotteso allo scontro militare che lo oppone alle forze alleate, braccio armato del capitalismo ebraico internazionale. La guerra, dunque, si sarebbe sicuramente conclusa con la vittoria totale o con l'annientamento totale: «Già nel 1923 -scrive Serge Hutin-, dieci anni prima della sua ascesa al potere, Hitler diceva, nel suo caratteristico stile profetico: "Ciò che oggi si prepara sarà molto più grande della Grande Guerra. Lo scontro avverrà sul suolo tedesco in nome del mondo intero! Non vi sono che due possibilità: o noi saremo gli agnelli sacrificali o noi saremo i vincitori"». (1) Parimenti, Berger e Pauwels scrivono: «(...) Fu una guerra manichea o, come dice la Scrittura, "una lotta di dei". Non si tratta, beninteso, di una lotta tra Fascismo e democrazia (...). Questo è l'aspetto esteriore della lotta. C'è un esoterismo. Questa lotta di dei che si è svolta dietro gli avvenimenti appariscenti non è terminata sul pianeta ...». (4) È il 6 febbraio 1945, quando il Führer, nel suo Quartier Generale, pronuncia le seguenti parole: «Da una lotta disperata si irradia sempre un eterno valore esemplare». (5)

Sul piano politico-razziale, noi affermiamo che, nell'apocalisse di Berlino, la forma politica nazionalsocialista scolpirà la connotazione razziale di una figura nuova, il soldato politico nichilista, il quale proietterà la sua disincarnata immagine oltre l'epilogo del secondo millennio. I soldati politici SS non combatteranno per una ratio strategico-militare ormai inesistente; non combatteranno per Dio, latitante tra le macerie di Berlino; non combatteranno per la Patria (con la «P» maiuscola...), ormai integralmente occupata dalle bande mercenarie sioniste sovietico-statunitensi; non combatteranno per le femmine e per i bambini, ormai preda di guerra per i calmucchi ubriachi; non combatteranno per sopravvivere: altrimenti si sarebbero arresi ... i soldati politici SS combatteranno nel nome della razza, ovvero nel nome della fedeltà alla propria razza, nella quale vive la superiore essenza del sangue arioeuropeo, fatalmente abbacinato da un destino di morte. Sono le visionarie prefigurazioni nichilistiche del superuomo di Friedrich Nietzsche e, successivamente, dell'autarca delineato da Julius Evola nella glaciale scultura scrittoria di "Cavalcare la tigre". Tra le rovine di Berlino, sorge l’uomo nuovo che affermerà i valori spirituali, aristocratici, gerarchici e guerrieri del Terzo Reich nazionalsocialista nell'epoca della contemporaneità nichilistica. È l'«atto del transito», che, muovendo dalla figura del soldato politico SS, approderà alla Iniziazione del Nulla, stabilendo un continuum antropologico con la futura forma razziale dell'aristocrazia politica composta dai soldati politici nichilisti del terzo millennio. Essi saranno gli iniziati del Nulla, ai quali, interiormente, non appartiene nessuna delle «buone e venerate cose» che corredano la porcilaia borghese, anche perché, simmetricamente, a nulla essi appartengono. Il rogo di Berlino è la metafora storica del nichilistico rogo esistenziale della propria vita, condotta gradualmente a combustione dentro se stessi, mediante la gelida recisione delle aderenze naturalistiche che subordinano i comportamenti del singolo alla sfera vegetativa individuale, condizionata dalla bestiale dittatura della pulsione sentimentale e dell'istinto di conservazione. Per i combattenti di Berlino non esiste la paura, poiché chi non è schiavo della paura ha superato la vita; dunque, egli è il dominatore della morte. Chi non appartiene a nulla è capace di tutto (anche di venire a prelevarvi in braccio alle troie delle vostre mogli, a casa vostra...). Egli, dunque, risulta razzialmente idoneo a fini di arruolamento nell'aristocrazia politica rivoluzionaria che guiderà la guerra totale di annientamento contro il Sistema giudaico-mondialista. Solo allora il teschio argenteo impresso sulle mostrine dell'uniforme indossata dai soldati politici SS non sarà impotente vagheggiamento nostalgico né inerte compiacimento letterario. Questo sigillo simbolico identificherà dunque l'aristocrazia rivoluzionaria dei soldati politici nichilisti trasmutati dalla Iniziazione del Nulla, ovvero dalla «prova del Fuoco», così dis-velata da Julius Evola: «Saper gittare via tutto (...) - questa (...) è la prima condizione per una tale via. È l'esperienza precedente la Grande Solitudine, il deserto senza luce in mezzo a cui l'io deve consistere, mediante una forza che egli deve 'assolutamente creare dal nulla. Di là da ciò la prova del Fuoco. (...) ... generare in sè la potenza di darsi una vita superiore mediante l'incendio e la catastrofe di tutta la propria stessa vita; confermare la propria autonomia consistendoquando ogni terreno sfugge da sotto i piedi, quando non si tocca più il fondo e tutto ciò su cui prima riposava la persuasione perde ogni fermezza e si dissolve in un caos incoercibile questo è il nuovo compito. Esso investirà (...) ogni categoria della persona; può trasmutare dunque dall'ironia per ogni espressione estetica e dalla dissoluzione di ogni religiosità, sino ad una pazzia cosciente e ragionata; da un'implacabile e onnipervadente scetticismo corrodente ogni certezza filosofica e scientifica, sino alla violazione deliberata di ogni legge morale e sociale; dalla riaffermazione di là da ogni valore riconosciuto e da ogni autorità, fino alla negazione di ogni fede, ideale o entusiasmo e al disprezzo di ogni sentimento di umanità, di amore o rispetto. Infine, dalla severità di una disciplina di ascesi e di mortificazione avente in se stessa, nel suo momento semplicemente negativo, il proprio fine e la propria gioia, sino a uno scatenato orgiasmo che, nello spingerle all'estrema intensità, arda in se stessa ogni passione. Di là da tutto: saper portare all'apice tutto ciò da cui il terrore originario è esasperato, tutto ciò che il nostro essere naturale e istintivo disperatamente non vuole, saper rompere il limite e scavare sempre più profondamente, dovunque, il senso dell'abisso vertiginoso, e consistere nel trapasso, sussistere là dove gli altri sarebbero travolti. Nulla deve più esistere, a questo punto, che possa venire rispettato, nulla che si senta di non essere capaci di fare. (...) una dipendenza non è migliore di un'altra e lo scopo non è di cambiare padroni (legge del bene, dello spirito, della libertà, ecc.), sibbene di riaffermare l'io sopra ad ogni correlazione, qualunque essa sia - di farne qualcosa di agile, di duro, di freddo, di inafferrabile, di pronto, qualcosa che è libero in questo suo vivere pericolosamente come potenza negatrice di ogni determinazione e di ogni appoggio». (6)

Per gli uomini di questa razza, il termine «resa» sarà un incomprensibile suono composto da quattro fonemi... per costoro, nell'ambito di uno specifico quadro di riferimento militare, il combattimento sarà concepito esclusivamente quale prassi tattico-strategica offensiva, sempre e comunque diretta all'annientamento del nemico, pronta a fare peggio contro chiunque voglia farti male... essi saranno sempre decisi ad elevare il coefficiente di intensità del conflitto contro chi, in una notte -per altro, afosa... - di mezza estate, ha sognato di fare loro paura... buh! ... sempre consapevoli del fatto che si risponde con moltiplicata efficacia di contrasto ad ogni attacco nemico... sempre capaci di lasciare segni indelebili sul viso e sulla vita di coloro che, non importa se con esito vincente o perdente, li hanno aggrediti... sempre determinati all'offensiva, anche sulle strade di Berlino, anche a poche centinaia di metri dal Führerbunker... Noi abbiamo così evocato, dalle scaturigini del Nulla, la razza dei combattenti capace di rendere probabile l'impossibile...
La battaglia del saliente di Kursk e la controffensiva delle Ardenne, preceduta dall'invasione alleata della Normandia, costituiscono gli eventi bellici che consentiranno alle bande mercenarie dell'ebraismo internazionale plutocratico-bolscevico di inquadrare strategicamente l'obiettivo militare rappresentato dalla capitale del Terzo Reich.

Nell'estate del 1943, il Führer decide la ripresa dell'iniziativa strategica sul fronte orientale, avviando una terza offensiva. Ciò anche in relazione al fatto che l'industria bellica nazionalsocialista si appresta a conseguire i massimi livelli produttivi. È l'operazione "Cittadella". Si tratta di accerchiare e di annientare un milione di soldati sovietici, il 40% delle forze di cui dispone l'Armata Rossa, serrandoli con una manovra a tenaglia nel saliente di Kursk. Le divisioni corazzate della Wermacht si aprirebbero così di nuovo la strada verso Mosca, capitale del bolscevismo ebraico: «La vittoria di Kursk -il Führer ne è sicuro- sarà un faro che illuminerà il mondo». Ma l'azione spionistica della "Orchestra Rossa" consentirà ai sovietici di conoscere in anticipo i piani. nazionalsocialisti e di apprestare un solido sbarramento difensivo, grazie anche e soprattutto agli aiuti militari giudaico-statunitensi. Basti solo pensare, ad esempio, ai 500.000 autocarri veloci che permetteranno ai sovietici di spostare, rapidamente e tempestivamente, soldati e mezzi lungo tutto l'arco del vastissimo fronte.
Alla fine della più grande battaglia di carri della storia, i combattenti nazionalsocialisti avranno perso mezzo milione di uomini, le migliori forze corazzate, nonché, per sempre, l'iniziativa strategica sul fronte orientale.

«Quando sbarcheranno - sono parole di Erwin Rommel- li dobbiamo ributtare in mare il giorno stesso. Quello, per la Germania, sarà il giorno più lungo». E il giorno più lungo, sul fronte occidentale, verrà il 6 giugno 1944, quando i mercenari anglo statunitensi, braccio armato del capitalismo ebraico internazionale, inizieranno il processo imperialistico di occupazione dell'Eurasia, sbarcando in Normandia: «... 6480 navi da trasporto, con circa 4000 mezzi da sbarco, scortate da 6 navi da battaglia, 23 incrociatori, 122 cacciatorpediniere, 360 torpediniere e alcune centinaia di navi attrezzi» (7), vomiteranno contro le difese del Vallo Atlantico una marea di soldati e di armi. Nel cielo, 13.000 aerei, ai quale la Luftwaffe potrà opporne solo 319, sganceranno sugli eroici soldati del Terzo Reich 12.000 tonnellate di bombe. Da questo momento, grazie a un’immane supremazia materiale, le bande sioniste avranno aperto una ferita mortale nel fianco occidentale dell'Eurasia. Esse punteranno verso Berlino, fronteggiate, per altro, dal supremo orgoglio, dalla superiore volontà e dalla incomparabile capaci di combattimento dei soldati del Terzo Reich, simboleggiata dalla leggendaria controffensiva delle Ardenne del dicembre 1944: la "battaglia dei giganti", come sarà definita dagli stessi statunitensi: «Obiettivo Anversa, il grande porto belga -scrive Romualdi- senza il quale gli americani non potrebbero alimentare l'offensiva contro la Germania. È la estrema, geniale mossa di Hitler, che tenta di ripetere la manovra del 1940, la frattura del fronte nemico e l'insaccamento di una parte di esso». (8)

Tra i boschi delle Ardenne, i generali delle Waffen-SS Sepp Dietrich e Jochen Peiper, i generali della Wermacht Hasso Von Manteuffel e Walter Model, saranno i protagonisti della magistrale controffensiva delle armate nazionalsocialiste. II 6° Panzerkorps di Dietrich sfonderà a Malmedy per puntare su Anversa; Von Manteuffel e Model punteranno su Bruxelles attraverso Bastogne e la Mosa; a sud, Peiper, al comando di un'altra leggenda (una delle tante...), ovvero la 1ª divisione corazzata "Leibstandarte SS Adolf Hitler", proteggerà il fianco meridionale: 28 divisioni, 200.000 uomini e 1000 carri si avventano contro le difese alleate. Gli anglo-statunitensi, inizialmente travolti, vacillano. Sembra l'ennesimo miracolo bellico propiziato dall’insuperata genialità strategica del Führer. Ma, alla distanza, la mancanza di carburante, l'impossibilità di disporre dell'ausilio della Luftwaffe, favoriranno le armate asservite all'ebraismo internazionale.
Anche sul fronte occidentale, l'iniziativa strategica si è definitivamente esaurita.
Nel gennaio 1945, già prima della caduta di Budapest e di Varsavia, i rapporti di forza sono irreversibilmente saltati: lungo la linea compresa tra la Prussia orientale e i Carpazi, l'Armata Rossa schiera complessivamente 3.900.000 soldati contro 1.000.000; 50.000 cannoni contro 12.000; 9.800 carri contro 1836; 14.800 aerei contro 1570. II 12 gennaio 1945, guidata dal maresciallo Koniev, inizia l'offensiva sovietica in direzione di Berlino: «In tal modo -scrive Joachim C. Fest-, l'intero schieramento tra il Mar Baltico e i Carpazi si mise in movimento, e si trattava, da parte sovietica, di una enorme macchina bellica, la cui superiorità era di undici a uno rispetto ai tedeschi per quanto riguardava la fanteria, di sette a uno per quanto atteneva alle forze corazzate, e di ben venti a uno quanto ad artiglieria». (9)

II 16 gennaio 1945, il Führer, lasciata la Wolfschanze di Rastenburg, nella Prussia orientale, rientrerà a Berlino per aspettare il nemico di razza e per fare della battaglia di Berlino la sua battaglia, ovvero l'apocalittica arsione della Civiltà arioeuropea: «Hitler aveva deciso di rimanere a Berlino per ua'ino la `rerà a Berlino per `assumere personalmente la difesa della città (...). I presenti cercarono di persuaderlo a lasciare la capitale perchè era ormai impossibile controllarne la situazione; ma Hitler rispose (...) che sarebbe rimasto e per sottolineare là sua decisione annunciò che avrebbe comunicato la sua presenza nella capitale». (10) Sono parole del Führer: «Se giunge la fine, allora voglio che mi trovi qui, nella Cancelleria del Reich. Per me non esistono compromessi. Nè tanto meno cadrò nelle mani del nemico. lo rimango a Berlino». (11) Le macerie della capitale del Reich saranno tappezzate -accanto alle preesistenti scritte: «WIR KAPITULIEREN NIE» (Noi non capitoleremo mai)- da manifesti recanti il seguente proclama: «II Führer è a Berlino. II Führer resterà a Berlino. II Führer difenderà Berlino fino all'ultimo respiro». A tale volontà porgerà eco il dr. Goebbels: «Parlando di questi giorni, la storia non potrà mai dire che il popolo abbia abbandonato il suo capo o il capo abbia abbandonato il suo popolo. E questa è la vittoria!» (12)

Intanto, 6200 carri sovietici T 34, sostenuti da migliaia di aerei, dilagano nelle pianure polacche. II ReichsFührer SS Heinrich Himmler, nominato comandante del Gruppo Armate Vistola, tenta l'impossibile sul fronte di Pomerania. Soldati politici SS e militi della Wermacht, volontari europei inquadrati nelle Waffen-SS, si dissanguano per arginare le orde slavo-mongole del bolscevismo ebraico. A marzo, però, l'impossibile diventa probabile: il fronte sarà fissato sull'Oder: Berlino è ormai città di prima linea e Joseph Goebbels, Gauleiter della capitale e Reichskommissar per la guerra totale, ne organizza la difesa. Proclamata la mobilitazione totale, tutti gli uomini validi dai 15 ai 60 anni, armati di Panzerfaust, vengono inquadrati nel Volksturm e nella Hitlerjugend; essi saranno l'esercito de popolo che contribuirà all'estrema difesa della capitale del Terzo Reich e dell'Eurasia.

II 16 aprile 1945, alle ore 4 del mattino, 22.000 cannoni, 13 armate, alla quale si oppone l'unica armata del Generale Heinrici, scatenano l'attacco finale a Berlino. Si combatterà casa per casa, nelle strade, nelle piazze, guidati dall'indomabile volontà del Führer, primo soldato politico dell'Ordine Nuovo, il quale sarà presente al suo posto di comando nel "Führerbunker" della Cancelleria del Reich, per combattere, fino al tragico esito finale, la sua battaglia, la battaglia .di Berlino. Quindi, si dissolverà nel sudario di sangue e di fuoco nel quale saranno composte le spoglie mortali della capitale del Terzo Reich.

Mentre sulla Alexanderplatz il Kampfkommandant Barefànqer risponde a chi gli obietta la scarsità di munizioni: «Allora combatteremo all'arma bianca. Noi difendiamo un'idea»; mentre sulla Friedrichstrasse, sulla Potsdamerplatz e sulla Wilhelmstrasse, le Waffen-SS e la Hitlerjugend di Axmann, attingendo a vertici di sovrumano eroismo, riescono ancora a contenere l'assalto finale del branco slavo-mongolo; mentre il 29 aprile 1945, i soldati politici della "SS Charlemagne" e della "SS Nordland" sferreranno una leggendaria controffensiva sulla Belle Alliance Platz, distruggendo sette carri sovietici; e, ancora, mentre il 30 aprile 1945, i difensori della Cancelleria del Terzo Reich -superstiti della "SS Charlemagne" e della "SS Nordland", del "15° Fucilieri SS Lettoni", e soldati della Wermacht- saranno annientati affrontando i sovietici all'arma bianca sulle scalinate e fin dentro i sotterranei del Reichstag, un annuncio radiofonico essenziale, scarno, spartano nella sua maestosa laconicità, testimonierà l'esemplare epilogo di una vita virilmente composta nella forma eroica della milizia totale: «II Quartier Generale comunica che, oggi pomeriggio, il nostro FüHrer Adolf Hitler è caduto per la Germania, al suo posto di comando nella Can­celleria del Reich, combattendo il bolscevismo fino all'ultimo respiro. II 30 aprile il Führer ha nominato suo successore il Grande Ammiraglio Doenitz».

«Altissime, poi vibranti e spezzate, poi ancora alte, cupe e solennemente funebri, erano risuonate le note della marcia funebre di Sigfrido dal "Crepuscolo degli Dèi"». (13)
Nel nome della razza.

Maurizio Lattanzio


NOTE:
1) Julius Evola, "La dottrina aria di lotta e vittoria", Ed. di Ar, s.d.;
2) Julius Evola, op. cit.;
3) Serge Hutin, "Governi occulti e società segrete", Ed. Mediterranee, Roma ‘73;
4) Berger e Pauwels, "II mattino dei maghi", Mondadori, Milano ‘63;
5) Adolf Hitler, "Ultimi discorsi", Edizioni di Ar, Padova ‘88;
6) Julius Evola, "Fenomenologia dell'Individuo Assoluto", Ed. Mediterranee, Roma ‘76;
7) A. Romualdi, "Le ultime ore dell'Europa", Ciarrapico Editore, Roma ‘76;
8) A. Romualdi, op. cit.;
9) Joachim C. Fest, "Hitler", Rizzoli Editore, Milano ‘74;
10) M. L. Gennaro, "La battaglia di Berlino", De Vecchi Editore, Milano ‘74;
11) R. D. Múller - G. R. Ueberschar, "La fine del Terzo Reich", Il Mulino, Bologna ‘95;
12) P. J. Goebbels, discorso del 20 aprile ‘45;
13) A. Romualdi, (pref. a) Adolf Hitler, "La battaglia di Berlino", Ed. di Ar, Padova ‘77