venerdì 22 gennaio 2010

Cattolicesimo Tradizionale e Giudaismo


Molti sedicenti fasciti, autoproclamatisi "testimoni della RSI", dimenticano vergognosamente qualche punto fondamentale della Costituzione... All'uopo alleghiamo questo interessante scritto di Manuel NEGRI, pubblicato sulla rivista "Avanguardia".

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L’approfondimento dell’antigiudaismo cattolico costituisce un necessario e non eludibile elemento d’analisi della questione ebraica e "Avanguardia" intende proporre qualsiasi filone culturale o forma religiosa, nel rispetto delle reciproche identità, vettorialmente convergenti nel Fronte politico antimondialista.

La Chiesa cattolica apostolica e romana rappresenta quanto di più vicino possa esservi al mondo della Tradizione, incarnando una comunità proiettata verso l’alto e guidata dal Pontifex, retta gerarchicamente ed antitetica ai melliflui principí egualitari e democratici caratterizzanti la società moderna.

Fin dagli albori, il cattolicesimo individua nel giudaismo un pericolo nocivo per la propria esistenza e per la comunità cristiana; ravvedendo nell’ebreo l’incarnazione del male, così come si evince dalla Prima Omelia di uno dei capisaldi della patristica, San Giovanni Crisostomo, il quale sostiene che "la sinagoga non è soltanto un teatro e un luogo di prostituzione, ma anche una caverna di briganti e un rifugio di belve". E, continua, riferendosi sempre ai giudei: "Se non riconobbero il Padre, se crocifissero il Figlio, se respinsero l’assistenza dello Spirito, chi oserà sostenere che la loro sinagoga non è l’asilo dei demoni? [...] i demoni abitano qui, non soltanto nella Sinagoga, ma negli animi stessi dei giudei" (1).

Tertulliano ci indica perfino che le prime persecuzioni contro gli Apostoli ed i primi cristiani originarono dalle Sinagoghe colme di odio e di spirito di vendetta contro la Chiesa.

Le radici della reazione antigiudaica "...vanno ricercate innanzi tutto nella natura stessa dell’ebreo, plasmato dalla Torâh scritta e orale, nel suo orgoglio smisurato di ‘eletto’ di Jahveh, nel suo spirito esclusivistico, nella sua misantropia, nel suo odio viscerale contro tutti i popoli non ebrei, considerati idolatri e impuri" (2).

Da una analisi storica delle vicissitudini della comunità ebraica internazionale, possiamo riscontare che in ogni luogo, pur a contatto con popoli diversi, con differenti culture e tradizioni, la reazione nei confronti dell’ebreo è stata spesso e volentieri la medesima; ovvero di odio e repulsione. Quindi, non possiamo far altro che concludere che le cause generali dell’antigiudaismo devono necessariamente risiedere nell’ebreo stesso, da sempre ostile ai gojm, ai non ebrei.

San Girolamo ci ricorda che è "loro consuetudine maledire per tre volte al giorno i cristiani lanciando contro di essi delle imprecazioni nelle sinagoghe", così come riportato in "La Chiesa e gli ebrei" di Roberto Farinacci, Ed.Sentinella d’Italia, Monfalcone (Go) 1987, p.18.

Potremo addirittura riprendere alcuni periodi del Talmûd, testo sacro della codificazione rabbinica, ove viene persino scritto: "Voi Israeliti siete chiamati uomini, mentre le nazioni del mondo non sono da chiamarsi uomini, ma bestiame" (Baba mezia Fol.114, col.2); "Tutti i non ebrei sono figli di donne impure e dovrebbero perciò essere sterminati" (Sepher Mizboth, p. 196); "Tutte le non ebree sono prostitute" (Eben haeazal 6, 8); "Che il terrore e l’angoscia colpiscano i non ebrei!" (Berakhot, p. 420).E terminiamo qui, ma potremmo riempire centinaia di pagine!

Un esponente di primo piano dell’ebraismo, Isacco Crémieux, coglie fedelmente i dettami del Talmûd affermando che "in nessuna circostanza un ebreo potrà diventare amico di un cristiano o di un mussulmano, fino a quando la luce della fede ebraica, la sola religione della ragione, non brillerà sul mondo intero" [cfr. C.Cecchelli, "La questione ebraica e il Sionismo", Quaderni dell’Istituto nazionale di cultura fascista, Roma 1939, p.11].

In ragione di quanto abbiamo sopra scritto, risulta, quindi, naturale che la Chiesa e la Comunità cattolica reagiscano, assumendo rigidi provvedimenti nei confronti di questi individui boriosi e perversi che hanno tradito e snaturato l’identità autentica dell’ebraismo; perchè dobbiamo riconoscere la legittima dignità spirituale dell’originaria Tradizione ebraica singola e specifica espressione, insieme ad altre forme religiose e spirituali, della Tradizione Unica.

Così come riportammo in "Avanguardia" [numero 124, dell’aprile 1996], ove Maurizio Lattanzio scrisse: "Se di perversione dobbiamo parlare, allora bisogna riferirsi al processo involutivo di cui sarà oggetto tutta la tradizione ebraica, caratterizzata dalle assunzione laica e materialista, immanentista ed esclusivista delle sue originarie valenze spirituali tradizionali, le quali saranno, da un certo momento (volendo storicizzare: tra l’VIIIe il VI secolo a.C.) incorporate nel popolo ebraico, inteso quale messia di se stesso, in quanto ‘eletto’ da Dio al dominio del mondo.A questo punto, si realizza la ‘frattura’ insanabile fra i valori spirituali della Tradizione ebraica e i suoi ‘destinatari’ antropologici ...".

In risposta all’assalto giudaico, la Chiesa ha, in ogni tempo, dovuto reagire in maniera ferma e determinata; è così che ritroviamo nella letteratura cristiana vari scritti contro i giudei, a cominciare da quelli di San Giustino, di Aristide e di Aristone, di Apollinare di Gerapoli, di Milziade e di Tertulliano, di San Giovanni Crisostomo, per giungere a Sant’Agostino e a quasi tutti i Pontefici. Ufficialmente la Chiesa cattolica adotta provvedimenti restrittivi nei confronti dei giudei così come possiamo evincere dai Concilî di Nicea, Elvize, Laodicea (347 d.C.), Vannes (465), d’Agde (506), di Mâcon (581), Toledo, Parigi, Reims, ecc.; ove vennero sancitî i divieti per gli ebrei di intraprendere incarichi pubblici, di espletare il servizio militare, di contrarre matrimoni con i cristiani e molte altre proibizioni.

"Restano memorabili le invettive di Innocenzo III (1199) contro i principî secolari che favorivano gli ebrei e tolleravano la loro ‘insolenza’.Fu questo Pontefice che fece emanare dal Concilio Lateranense (1215) le disposizioni che dovevano mettere in uno stato di inferiorità e di soggezione l’ebreo di fronte al cristiano, e fece degli ebrei anche esteriormente una società distinta e separata; e dopo avere ripetute tutte le proibizioni e le limitazioni precedenti, il Concilio Lateranense ordinò che gli ebrei di ambo i sessi in ogni provincia ed in ogni tempo dovevano distinguersi dal resto del popolo per la qualità dell’abito" (3). La legislazione antigiudaica culmina con Paolo IV nel 1555 che regolamenta la posizione degli ebrei negli Stati Pontifici ove " ...nelle città, gli ebrei devono abitare esclusivamente in una o due strade (ghetto), le quali disporranno di una sola entrata.Essi avranno una sola sinagoga; se ce ne sono di più, le altre saranno demolite.Non possono possedere immobili; se ne hanno, devono venderli.Devono portare un berretto giallo, senza che nessuno possa esentarli, neppure i Legati apostolici" (4).

Più tardi, Clemente VIII (nel 1593) ordina di distruggere il Talmûd e i libri della Kabbala, denunciando " ...la cieca e inveterata perfidia degli ebrei (che) ... restituendo ingiuria in cambio di gratitudine alla cristiana pietà, non cessa ogni giorno di commettere tanti enormi eccessi, di perpetrare tante infamie detestabili a nocumento dei fedeli stessi del Cristo, che noi, spinti dalle gravi lamentele pervenuteci a questo riguardo, siamo costretti a prendere qualche rimedio opportuno per questo male" (5).

É solamente con la rivoluzione francese, azione ad opera sovvertitrice dell’ebraismo internazionale, che gli ebrei riacquistano i diritti civili ed assumono vertiginosamente un’influenza nefasta sui popoli europei, trascinandoli in conflitti sanguinosi e fratricidi.Da questo momento, concretizzano l’attacco terminale contro la Tradizione impersonificata dalle Monarchie assolutistiche degli Imperi Centrali ed in particolar modo contro la Chiesa cattolica, così come preconizzato nei Protocolli dei Savi Anziani di Sion e più precisamente nel Protocollo XVII, ove leggiamo: "abbiamo messo molto impegno nello screditare il clero dei Gentili agli occhi del popolo, e siamo così riusciti a nuocere alla sua missione che avrebbe potuto ostacolare il nostro cammino. L’influenza del clero sul popolo diminuisce di giorno in giorno. [...] Noi ridurremo il clero e le sue dottrine a tener così poco posto nella vita, e renderemo la loro influenza così antipatica alla popolazione, che i loro insegnamenti avranno risultati opposti a qualli che avevano una volta.Quando sarà arrivata l’ora di annientare la Corte papale, una mano ignota, additando il Vaticano, darà il segnale all’assalto".

Ela mano ignota giunse tra il 1962 ed il 1965 con il Concilio Vaticano II che demolirà progressivamente - con specifico riferimento all’accusa di Deicidio - i fondamenti teologici dell’identità antiebraica radicata nella bimillenaria storia della Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana.Una azione distruttrice e sovversiva scaturita nella dichiarazione "Nostra Aetate" votata il 28 ottobre 1965 e preparata antecedentemente dalle gerarchie vaticane (come il cardinale Bea e lo stesso Roncalli) servili agli ordini dell’ebreo Jules Jsaac, del presidente della potente massoneria ebraica B’nâi B’rîth, Label Katz e di Nathum Goldman, presidente del Congresso mondiale ebraico.

Da questo momento la Chiesa cattolica ha intrapreso un processo irreversibile e "...quando si vedono i cattolici di oggi respingere i ‘residui medievalistici’ della loro tradizione, quando col Concilio Vaticano II e nei prolungamenti di esso sono state apportate forme distruttive di ‘aggiornamento’, quando si vedono Papi indicare nell’ONU - in questa ridicola associazione ibrida e bastarda - quasi la prefigurazione di un futuro ecumene cristiano, circa la direzione nella quale la Chiesa oggi appare trascinata non possono esservi dubbi, e la sua capacità di fornire un qualsiasi sostegno ad un movimento rivoluzionario - conservatore e tradizionalista va recisamente negata". (6)


Note:

1) San Giovanni Crisostomo, "Omelie contro gli ebrei", Centro Librario Sodalitium, Verrua Savoia (To) 1997, pp. 22-23-31;

2) Bernard Lazare (ebreo), "L’Antisemitismo", citato in AA.VV., "La questione ebraica", Edizioni di Ar, Padova 1998, p.106;

3) "La Chiesa e gli ebrei", cit. p. 21;

4) "La questione ebraica", cit. p. 94;

5) ibidem, p.96;

6) Julius Evola, "Gli uomini e le rovine", Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1990, p.151.

venerdì 15 gennaio 2010

La sinistra fascista e il “nuovo fascismo”

Tra le varie “anime” del movimento fascista, la corrente “sinistra” fu certamente la più rivoluzionaria e la più interessante, che non nacque col Fascismo e con questo perì, ma che comunque vi confluì con entusiasmo, contraddizioni e originalità, apportandovi contributi di grande valore.
Essa ha risvegliato ultimamente notevole interesse nella storiografia moderna, fruttando studi di estremo rilievo come Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al Congresso di Verona di Luca Leonello Rimbotti (Settimo Sigillo, Roma 1989), Fratelli in camicia nera. Comunisti e fascisti dal corporativismo alla Cgil (1928-1948) di Pietro Neglie (Il Mulino, Bologna 1996) e Fascisti rossi. Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica di Paolo Buchignani (Mondadori, Milano 1998).
Ma un contributo davvero imprescindibile rimane comunque La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato di Giuseppe Parlato (Il Mulino, Bologna 2000), sia per il suo ampio respiro e l’efficace sintesi che per l’analisi circostanziata dei miti, delle proposte originali e dell’afflato rivoluzionario che animò gli esponenti della sinistra fascista.
Il prof. Parlato, esponente di punta della scuola defeliciana, traccia nella sua opera, con altissimo spessore scientifico, la storia di questo movimento sui generis: dalle origini prefasciste e gli sviluppi protofascisti al movimentismo ante-Marcia su Roma, dalla “grande crisi” a seguito della svolta autoritaria del Regime nel 1925 alla renaissance del periodo imperiale e poi bellico, dall’esperienza della Repubblica Sociale sino ai differenti esiti nel dopoguerra.
Veniamo così a contatto con personalità quali Edmondo Rossoni, Curzio Malaparte, Sergio e Vito Panunzio, Ugo Spirito, Angelo Oliviero Olivetti, Bruno Spampanato, Tullio Cianetti, Giuseppe Landi, Giuseppe Bottai, Berto Ricci, Edoardo Malusardi, Riccardo Del Giudice, Felice Chilanti, Luigi Fontanelli, Paolo Orano, Amilcare De Ambris (fratello di Alceste), Eno Mecheri, Ugo Manunta, per non dire di tanti altri.
È doveroso tuttavia premettere che la sinistra fascista non fu mai un blocco unitario, con un’ideologia e un progetto organici, bensì vi si colgono sfumature, differenze, talvolta scontri, non sempre pacifici. Eppure questa corrente è riconoscibile grazie a caratteristiche inconfondibili quali “un forte e consapevole spirito antiborghese”, “una polemica contro il modello capitalistico di produzione”, “un radicato senso della socialità, che si espresse nel culto della comunità tipico del periodo squadrista ovvero nell’attenzione nei confronti delle classi meno abbienti e delle problematiche sociali”, “una interpretazione della politica come rivoluzione” e il “rifiuto della democrazia liberale e la contemporanea rivendicazione, in prospettiva, di una democrazia popolare totalitaria di matrice roussoviana”.
La nascita di questo movimento politico-ideale va ricercata, innanzitutto, nel Risorgimento progressivo e popolare di Mazzini, Garibaldi, Ferrari e Pisacane – esponenti di un socialismo non marxista e nazionale –, contrapposto al Risorgimento liberale e compromissorio di un Cavour il cui esito era stato il giolittismo, che il Fascismo avrebbe dovuto demolire. Il risorgimento mazziniano e garibaldino è stato, infatti, un riferimento fondamentale per la sinistra fascista, e il suo richiamo ebbe un risveglio dirompente in Rsi all’approssimarsi della fine.
Altro precedente e mito costante dei “fascisti rossi” fu quel sindacalismo rivoluzionario di cui Filippo Corridoni era il massimo rappresentante, e che non mancò di essere la stella polare del sindacalismo fascista. Il Fiumanesimo, inoltre, con la sua carica rivoluzionaria, sia a livello estetico ed esistenziale che politico, fu oggetto di studio e riferimento culturale della sinistra fascista, in particolare relativamente alla Carta del Carnaro di Alceste De Ambris.
Dunque, “nel periodo che va da San Sepolcro al 1925, essa [la sinistra fascista] si manifestò nel sindacalismo rossoniano, nello squadrismo, nell’avanguardismo giovanile e nel ruolo di alcuni intellettuali atipici dei quali il più significativo rappresentante fu Malaparte”. E infatti Rossoni fu il punto di riferimento della sinistra fascista in questo primo momento – con la sua attività sindacale e la rivista “La Stirpe” –, fautore e alfiere di quel “sindacalismo integrale” che alla fine fu bocciato. Ed è proprio alla fine degli anni Venti con il cosiddetto “sbloccamento” (ossia la frantumazione delle organizzazioni sindacali fasciste) e con la svolta del ‘25 che la sinistra fascista entrò in un periodo di crisi, non mancando tuttavia dibattiti e vivacità intellettuale.
Con la Guerra d’Etiopia, invece, le tematiche “di sinistra” tornarono d’attualità, anche grazie alla “presenza di un agguerrito mondo universitario”, alla “progressiva acquisizione di un ruolo politico del sindacato” e al “concomitante affermarsi dello Stato sociale”. Aggiungendo, ovviamente, la polemica antiborghese suscitata da Mussolini che, se nel Duce era essenzialmente critica di costume, dagli ambienti della sinistra fascista fu combattuta con un più concreto approccio socio-economico, come si può evincere dal “bestseller” Processo alla borghesia (1939), raccolta di saggi curata da Edgardo Sulis e a cui partecipò anche Berto Ricci. Questa rinascenza fu definita dal De Felice il “nuovo fascismo” – in opposizione a quello che lo stesso Mussolini chiamò il “Fascismo che invecchia” –, ossia un periodo di grande rinnovamento culturale, in cui i “fascisti rossi” erano decisi a portare il Fascismo alle sue estreme conseguenze, rianimando quella Rivoluzione che aveva rallentato a causa delle resistenze dell’ala moderata della classe dirigente fascista.
Il sindacato e i Guf si fecero interpreti di questa nuova stagione con contributi culturali di altissimo livello, attraverso riviste come “Il Lavoro Fascista” di Luigi Fontanelli, “L’Ordine corporativo”, “Il Maglio”, “Cantiere”, “L’Universale” di Berto Ricci, “Primato” di Giuseppe Bottai, “La Verità” di Nicola Bombacci, senza contare i numerosissimi fogli universitari.
La polemica antiborghese, in particolare, generò acute riflessioni sui meccanismi di produzione vigenti in Italia, constatando che si dovevano fare i conti con i residui del capitalismo liberale, realizzando finalmente lo Stato corporativo che – fino ad allora – aveva sì frenato l’ingordigia del «padronato» e migliorato vistosamente le condizioni dei lavoratori, ma non era ancora riuscito a trasformare strutturalmente il sistema economico italiano, condicio sine qua non per fare veramente la Rivoluzione: “Superamento del salario, programmazione economica e nuova concezione della proprietà privata rappresentarono pertanto i tre momenti attraverso i quali si tentò di trasformare il fascismo in una forza sociale e rivoluzionaria, in grado di incidere profondamente nella situazione sociale, economica e produttiva del Paese”.
In questo senso vi furono dibattiti e proposte per l’elaborazione di un originale concetto di proprietà privata in grado di superare sia la tirannia di quello liberale che quello collettivista di stampo sovietico, i cui esiti furono raccolti nella ponderosa opera La concezione fascista della proprietà privata (1939), “summa del pensiero fascista sulla questione sociale”. Fu altresì sostenuta la necessità del superamento del salario, inquadrata nell’ottica dello Stato corporativo – problema ben delineato nel volume di Felice Chilanti ed Ettore Soave Dominare i prezzi e superare il salario (1938).
Il progetto della sinistra fascista fu, dunque, quello di rendere il lavoro non più oggetto, bensì soggetto dell’economia, attraverso l’autonomia delle masse lavoratrici, l’autogoverno delle categorie e l’autodisciplina nell’educazione alla responsabilità e alla coscienza politica, ossia i cavalli di battaglia del sindacato.
E fu proprio il lavoro il nuovo mito dei «fascisti rossi», inteso come mistica e come pedagogia rivoluzionaria.
Già Luigi Volpicelli, che aveva collaborato con Bottai alla Carta della Scuola, aveva denunciato e contestato la scissione avvenuta tra lavoro e cultura. Un vecchio preconcetto, infatti, proprio della società borghese, voleva che la vera cultura fosse essenzialmente umanistica, escludendo così il sapere tecnico dalle categorie di scienza e cultura; lo stesso Gentile, nella celebre Riforma della Scuola (1923), non si era totalmente discostato da questo fallace pregiudizio, sicché Bottai dovette rivedere questa impostazione con la già citata Carta.
Le polemiche furono roventi, e la sinistra fascista non mancò di armare le proprie bocche da fuoco, capitalizzando numerosi successi e propagandando quello che doveva essere il vero spirito rivoluzionario del Fascismo; ad esempio sempre Edgardo Sulis scrisse, nella sua Rivoluzione ideale (1939), che “la misura della civiltà è il lavoro umano”. Se nel soldato, quindi, il Fascismo aveva visto il proprio mito negli anni Venti, negli anni Trenta dovevano essere i lavoratori la nuova aristocrazia italiana, senza distinzione alcuna tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, il nerbo rivoluzionario dello “Stato Nuovo”, in cui “il lavoro cessa di essere una merce per assumere il ruolo di soggetto dell’economia, uno Stato collettivo e totalitario mirante a portare (non solo giuridicamente ma concretamente, cioè nella cultura, nella morale, nel costume, ecc.) le classi e categorie proletarie sullo stesso piano delle classi e categorie intellettuali o detentrici degli strumenti della produzione”.
Lo stesso Gentile rivide le proprie posizioni, formulando il concetto di umanesimo del lavoro in Genesi e struttura della società (pubblicato postumo nel 1946), “forse il suo libro più bello, comunque, il libro suo più innovatore e rivoluzionario” secondo il giudizio dell’allievo Ugo Spirito.
La mistica del lavoro doveva pertanto essere il mezzo attraverso il quale creare una nuova socialità, base dello Stato Nuovo, “socialità – come scrisse Mariano Pintus – che è senso di responsabilità, dominio della competenza, primato dello spirito ed esaltazione non retorica dell’onestà”, giacché “la Rivoluzione fascista è anzitutto una rivoluzione sociale che dalla forza viva e sana del popolo esprime nuovi valori, forma nuove gerarchie”. La nuova civiltà fascista è pertanto la “civiltà del lavoro”, a cui fu dedicato non a caso il noto e omonimo Palazzo all’Eur in occasione del Ventennale.
Sia la tematica del lavoro che la polemica antiborghese, quasi fondendosi, animarono gli intrepidi spiriti dei giovani dei Guf, e proprio dall’università giunsero le più interessanti manifestazioni della nuova cultura fascista, prima teorizzata, poi applicata, con conseguenze rilevanti per lo stesso periodo postbellico: “Alla cultura classica si stava sostituendo la formazione tecnica e scientifica, all’otium borghese un sapere ‘attivo’ sempre più finalizzato alle trasformazioni sociali, alla contemplazione estetica un’arte etica e pedagogica. Di qui la indispensabilità di una cultura e di un intellettuale militanti, nuovo modello di impegno destinato a superare il concetto di cultura tipico dell’epoca liberale, lontano dalla politica, neutrale, privo di passione civile”.
A questa poderosa rivoluzione culturale diede man forte una rivista come “Il Bargello”, organo ufficiale del fascio fiorentino, in cui personaggi come i giovani Elio Vittorini, Vasco Pratolini e Romano Bilenchi proponevano tematiche letterarie d’avanguardia, con l’intento di “creare una letteratura per il popolo, che evidenziasse le tendenze della società moderna; stabilire un rapporto tra cultura e mondo del lavoro, con particolare attenzione a temi quali la lotta all’analfabetismo, l’urbanesimo, le condizioni di vita delle masse operaie e contadine; elaborare una cultura che suscitasse la creazione di una coscienza sociale e rivoluzionaria; condurre una critica serrata della letteratura d’evasione e decadente, in nome di un verismo e di un realismo da applicarsi nei diversi rami della cultura”.
Il verismo e l’impegno nel sociale, che privilegiavano la quotidianità e la sua autenticità, generarono conseguentemente un rifiuto e una critica severa al “decadentismo e all’intimismo, al lirismo nostalgico, alla letteratura dei sentimenti, bollati unanimemente dai giovani universitari come borghesi”, tanto che la rivista “Libro e Moschetto” lanciò alla fine del 1939 una significativa Inchiesta sul romanzo, cui partecipò anche Ezra Pound. Da qui le fiere rivendicazioni di Sergio Lepri: “La nostra attuale narrativa (…) è quasi sempre un racconto non di vita aderente a una realtà attuale, ma di una vita mediata dalla memoria, dove il centro lirico è posto in una ricerca di smarrite stagioni (…). Vorremmo, ma questo forse lo permetterà unicamente una mutata realtà sociale e la conclusione di quel rinnovamento della società che è oggi in atto, che il racconto non fosse solo confessione e memoria (…) ma presenza attiva dell’uomo, centrato nel suo destino e nella sua volontà”.
Se quindi in ambito letterario gli alfieri della nuova poetica sociale furono Elio Vittorini, Vasco Pratolini, Luigi Bartolini e Cesare Pavese, per quanto riguarda le arti figurative i giovani fascisti si ispirarono a Manzù, Guttuso, De Chirico e, soprattutto, a quel Sironi stile anni Trenta che celebrava con le sue opere la nascente “civiltà del lavoro”.
I Guf iniziarono inoltre una polemica verso il razionalismo piacentiniano, teorizzando una nuova architettura che si occupasse prevalentemente dell’edificazione di case popolari, per la quale si cercava di elaborare un’estetica in grado di esaltare la figura del lavoratore in cui il lavoratore stesso – benché incolto – si riconoscesse.
Ma è soprattutto all’arte cinematografica che gli universitari fascisti dedicarono la loro attenzione, rivestendo un ruolo indiscusso d’avanguardia, attraverso la funzione fondamentale del documentario dei CineGuf. Come si può osservare – e come è abbastanza noto, eccetto ritardi oramai ingiustificabili – il neorealismo nasce ben prima del dopoguerra, e specificamente con il Fascismo grazie alle proprie avanguardie giovanili.
Immediata conseguenza di questa nuova stagione culturale fu la rivalutazione del lavoro manuale e del sapere tecnico-scientifico, come ben sintetizzò Angelo Da Prato: “Noi vogliamo fare discendere (…) la scuola dalla cattedra, fuori spesso dal mondo e assorta in vuoti razionalismi celebrali, verso la vita (…). Questa nuova affermazione del concetto di lavoro (…) parte cioè dalla ribellione contro il concetto liberale-borghese del lavoro e dei suoi valori, secondo cui il lavoro era ancora il triste fardello cui l’uomo era costretto ad essere legato”.
Fu con la guerra civile spagnola, e il relativo impegno bellico italiano, che i “fascisti rossi” si distinsero con posizioni fuori dal coro, dietro un mal dissimulato unanimismo, tanto che il sindacato e intellettuali anticonformisti del calibro di Berto Ricci si profusero nella difesa de “Il Lavoro”, rivista dei portuali genovesi, e “I problemi del lavoro” di Rinaldo Rigola, apertamente schierati al fianco dei repubblicani iberici e pertanto contro il conservatorismo e le forze cattoliche reazionarie di Franco.
Al contrario il conflitto mondiale fu sostenuto dalla sinistra fascista in quanto guerra “rivoluzionaria”, “di indipendenza” o addirittura “di liberazione” combattuta dai “popoli giovani e proletari” contro le “demoplutocrazie” occidentali: “Questa è una guerra che deriva necessariamente da tutta la politica sociale svolta da anni dal Regime (…): è l’ultimo colpo di spalla, quello decisivo, contro un sistema plutocratico che si opponeva dall’esterno a che il popolo italiano avesse il giusto profitto del suo lavoro nel mondo”.
Si rianimò quindi la polemica antiborghese, che vide tra i protagonisti Camillo Pellizzi, presidente dell’Istituto Nazionale Fascista di Cultura oltre che direttore di “Civiltà Fascista”, il quale scrisse violentemente che «il nostro “ordine” non può essere, evidentemente, l’ordine dei borghesi», rincarando poi la dose in merito alla guerra contro le demoplutocrazie e l’Unione Sovietica, affermando: “Si parli pure di difesa della civiltà, ma è indispensabile non gravare tale concetto di un senso statico e conservatore: poiché civiltà è sempre sistema ed equilibrio di forze spirituali, liberamente creatrici. Una civiltà conservatrice è, idealmente, un non senso. Una civiltà che può essere solo difesa, è come morta. La civiltà si difende sviluppandola, trasformandola”.
Prima del 25 luglio è poi da segnalare l’interessantissimo progetto di Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni dal febbraio del ‘43, “senza dubbio il più intelligente e più famoso interprete di quella linea populista che del fascismo cercava di cogliere l’aspetto sociale”.
Ebbene, Cianetti intendeva perseguire i presupposti del disegno economico fascista, potenziando e realizzando finalmente lo Stato corporativo. Assumendo l’eredità di Rossoni e Luigi Razza, il neoministro preparò le varie riforme atte allo scopo: effettiva funzione legislativa delle Corporazioni (che la Camera dei Fasci e delle Corporazioni possedeva solo parzialmente), l’agognato autogoverno delle categorie (antico mito del sindacalismo), pianificazione dell’economia (non più delegata allo Stato ma alle Corporazioni, che finalmente si dovevano costituire Stato esse stesse). Il tutto inserito in quel progetto di “democrazia totalitaria” che era la meta dichiarata della sinistra fascista, una volta esauritasi la dittatura.
Il piano elaborato da Cianetti, avallato da Mussolini, non fu di possibile attuazione, a causa della caduta del Regime. Ma le intenzioni erano state espresse, la strada da percorrere indicata e delineata, come dimostra la scelta del Duce di aver affidato il ministero a Cianetti.
E così, con la fine del Fascismo e la sconfitta bellica, i sogni e gli ideali dei tanti giovani che avevano creduto nella Rivoluzione fascista, portatrice di una nuova civiltà, si spensero nel sangue, proprio mentre la Repubblica Sociale lasciava il proprio testamento alle generazioni future con la Socializzazione delle imprese.
È così inaccettabile la tesi secondo cui il Regime, reazionario e liberticida, avrebbe soffocato l’anelito rivoluzionario e ingenuo delle giovani leve, destinate all’insuccesso e alla frustrazione. Il gradualismo pragmatico e politicamente intelligente di Mussolini, infatti, non escludeva affatto l’effettiva realizzazione della Rivoluzione fascista (i cui presupposti e traguardi erano stati esplicitamente delineati), anzi le ultime scelte del Duce confermano irrefutabilmente che il “nuovo fascismo” lo avrebbe costruito in buona parte quella “giovane sinistra” che – come mette ben in rilievo il prof. Parlato – “sarebbe stata la classe dirigente del fascismo se esso fosse durato oltre il dramma del conflitto”.
Ed è proprio da questo appuntamento perso con la storia, la quale con quella generazione d’Italia fu particolarmente severa e ingenerosa, che nacque questo “progetto mancato”, che è stato senza dubbio il più affascinante e più rivoluzionario che l’Italia postunitaria abbia mai conosciuto.
di Augusto Trifulmine articolo apparso su "Rinascita"

domenica 10 gennaio 2010

È una sensazione stranissima, andare a trovare Céline. Céline il terribile! Céline l’oltraggiato! Céline il capro espiatorio! Céline il Fou!
Céline vive a Meudon, ai margini di Parigi. Vive in una casa del diciannovesimo secolo in legno e malta di tre piani con sua moglie Lucette Almanzor e circa una mezza dozzina di cani, ad occhio e croce. Sua moglie, dice, è la proprietaria della casa.
“Pensavo venisse domani… non l’aspettavo… non ho preparato... pensavo domani… venga, venga”. Queste furono le sue prime parole.
Si rivolse a sua moglie dicendole di prendere il mio cappotto, e di darmi una sedia. È un uomo massiccio – ma è piegato. Si mosse lentamente, strisciando i piedi – come se fosse troppo debole per fare altrimenti ? verso il lato opposto di una grande stanza, che sembrava combinare cucina, sala da pranzo e studio. Si sedette ad un gran tavolo tondo, spingendo di lato, e a terra, pile di libri, fogli e riviste, e facendo spazio per noi.
“Che volete? A che vi serve? Non voglio scandalo!... Ne ho avuto abbastanza.”
Quando riuscii finalmente a soddisfarlo, si mise a suo agio sulla sua sedia.
C’è molto interesse su di lei in America, iniziai.
Scartò la mia affermazione con uno sbuffo e un gesto della mano. “Quale interesse? Chi è interessato? Alla gente interessa Marlene Dietrich e l’assicurazione – e questo è tutto!”
Come vi sentite, praticate ancora la medicina?”
“No, non più, ho lasciato sei mesi fa, non sto abbastanza bene”
I vicini qui vi conoscono come Céline?
“Mi conoscono quel che basta per non esserne contenti”
E non diede altre spiegazioni.
Cosa fa per la maggior parte del tempo?
“Son sempre a casa… i cani… ho cose da fare… mi tengo occupato… non vedo nessuno… non esco… sono occupato”
Sta scrivendo?
Sì, sì, sto scrivendo… Devo vivere, così scrivo… No! Lo Odio! L’ho sempre odiato… è la cosa più terribile da fare, per me… non mi è mai piaciuto, ma sono bravo a farlo… non m’interessa per nulla, quello che scrivo – ma devo farlo. È tortura, è il lavoro più duro al mondo”.
La sua faccia è ossuta, scavata, ed è grigia; e i suoi occhi cose terribili da guardarvi dentro; era rabbioso all’idea di dover ancora lavorare.
“Ho quasi 67… in maggio avrò 67… e questa tortura, il lavoro più duro al mondo…”
Gallimard, il suo editore, ha recentemente pubblicato il suo ultimo libro, Nord.
“È su quanto i tedeschi hanno sofferto durante la guerra”, disse Céline. “Nessuno ha scritto su questo… No! No! non dovresti dirlo, questo, quanto soffrirono… sta buonino… shhh!” Fece il gesto di mettersi il dito sulle labbra. “Non è bello parlare di questo… sta calmo… NO! solo l’altra parte ha sofferto… shhh!”
Tra i libri di Céline tradotti in inglese vi sono Morte a credito, Viaggio al termine della notte e Guignol’s band. Céline è stato accusato da molte persone rispettabili di aver scritto degli articoli e pamphlet incendiari e antisemiti durante l’occupazione tedesca della Francia. Questi apparvero in numerosi giornali francesi e fu riferito che furono ristampati dai tedeschi per il pubblico in Germania. I suoi libri, comunque, furono banditi nella Germania nazista. Come risultato di queste accuse, fu costretto a lasciare il paese. Andò in Danimarca, dove visse per sei anni, ma passò due di questi anni in una prigione danese.
Perché è andato in Danimarca?
“Là avevo dei soldi. Qua non avevo nulla.”
È stato costretto a lasciare la Francia… è stato il governo a dirvi di andarvene… o è stata una vostra decisione?
“Avevano saccheggiato il mio appartamento a Montparnasse…”
Chi?
“Dei pazzi, ecco chi… portarono via tutto quello che possedevo, tutto quello che avevo… ero fuori in quel momento, con mia moglie, quando tornammo tutto era distrutto… rovinato… tutto ucciso… andai in Danimarca”
Qualche giorno dopo la mia conversazione con Céline incontrai un ex membro della Resistenza francese, che aveva fatto parte del gruppo di saccheggiatori dei quali aveva parlato Céline. Quest’uomo mi assicurò che se Céline fosse stato in casa quando i razziatori colpirono, quasi certamente sarebbe stato assassinato.
Perché fu imprigionato in Danimarca?
“Ero un criminale di guerra”
“Era stato accusato di collaborazionismo?”
“Ho detto criminale di guerra! Non capisce! Criminale di guerra! Non mi si accusava di collaborazionismo… Ero un criminale di guerra! È chiaro questo!”
Si crede che lei abbia scritto cose contro gli ebrei
“Non ho scritto nulla contro gli ebrei… tutto quello che ho detto era “che gli ebrei ci stanno spingendo in guerra”, e questo è quanto.
Avevano una rogna con Hitler, e non erano affari nostri, non avremmo dovuto impicciarcene. Gli ebrei hanno avuto una guerra di lamentele per due migliaia di anni, e adesso Hitler gli aveva dato causa di altri lamenti. Non ho nulla contro gli ebrei… non è logico dire qualcosa di buono o cattivo su cinque milioni di persone”.
Questa fu la fine della discussione su questo tema. Céline tornò in Francia nel 1950, dopo sei tristi anni in Danimarca. Quando ritornò, grida oltraggiate si levarono da numerosi settori della stampa francese e da molti funzionari governativi, che richiedevano altre punizioni. Nulla fu compiuto ufficialmente, ma come accennato da Céline stesso, i vicini esprimevano chiaramente cosa pensavano di lui. Avevo la sensazione, sedendo nella cucina di Céline, osservandolo e ascoltandolo, che, nonostante tutto quello che diceva, a dispetto della sua naturale rudezza e apparente rifiuto dei contatti personali, fosse felice di aver qualcuno che era venuto a trovarlo, qualcuno che lo ascoltasse e che gli facesse delle domande; di ricordare il passato, che dimostrasse come non fosse dimenticato – che la gente leggesse ancora Morte a credito e Viaggio al termine della notte.
Si discuteva di lui nonostante tutte le difficoltà, e gli odi, e il sapore amaro che lasciava in molti.
Se c’è ancora un qualche spirito in lui, e sembra dubbio, è uno spirito che dice: “Io conosco quale è la musica adatta… io conosco il motivetto giusto… non sentono nulla…”
Lei disse di non riuscire a leggere dei libri attuali, che erano “nati morti, incompiuti, non scritti…” State leggendo qualcosa, ora?
Leggo l’enciclopedia e Punch, e basta. Punch non è divertente, ci provano ma non ci riescono.”
Non c’è nessuno che lei considera oggi uno scrittore degno di considerazione?
Prima che io potessi suggerirne uno, ribatté: Chi, Hemingway? È un falso, un dilettante… i realisti francesi del 19° secolo erano un centinaio di volte meglio” E sparò velocemente i nomi di numerosi scrittori francesi, così velocemente che non riuscii a comprenderli.
“Dos Passos ha un bello stile, e basta”
E Camus?
chiesi innocentemente.
“Camus!” Pensai che mi tirasse un vaso.
Camus!” mi ripetè, stupito.
“È una nullità… un moralista… sempre a dire agli altri cos’è giusto e cos’è sbagliato… cosa dovrebbero fare e cosa non dovrebbero fare… sposatevi, non sposatevi… questo spetta alla chiesa… è una nullità!”
Céline quindi propose il romanziere inglese Lawrence Durrell.
Un intero libro su come bacia una ragazza, i diversi modi come può baciare e cosa significano… questo sarebbe scrivere?
Questo non è il mio scrivere, è nulla, è uno spreco. I miei libri non sono così, i miei libri sono stile, nient’altro, solo stile. Questa è l’unica cosa per cui scrivere.”
“Chi sa quanti hanno cercato di copiare il mio stile… ma non possono. Non possono riuscirci per quattrocento pagine di seguito, provateci, non ce la possono fare… questo è tutto quello che ho, solo stile, nient’altro. Non ci sono messaggi nei miei libri, quello spetta alla chiesa!”
Sbuffò e fece un gesto noncurante con la mano.
“No, i miei libri saranno presto dimenticati, non significano niente, non cambiano nulla, non serve a nulla…
Sono stato di tutto, un cowboy in America, contrabbandiere a Londra, uno squalo, proprio di tutto. Ho lavorato da quando avevo undici anni. So di cosa si tratta…conosco la lingua francese. Posso scrivere, e basta.”
“Ascoltate la gente parlare in strada… non ha nulla a che fare con i libri… è sempre: “Allora gli ho detto… e lui mi ha detto e allora gli ho detto” – attori, ecco. Tutti vogliono gli applausi. Il vescovo dice: “Ieri ho parlato a duemila persone, domani parlerò davanti a tremila” Questa è la religione! Guardate il papa – quando la gente vede il papa, lo vorrebbero mangiare! È così grasso – mangia troppo, beve troppo… attori, ecco cosa sono tutti!” “Alla gente interessano le assicurazioni e il divertimento – tutto qui. Sesso! Ecco dov’è la lotta… ognuno vuole mangiare l’altro… Ecco perché hanno paura del Negro. È’ forte! È’ pieno di energia! Prevarrà. Ecco perché ne hanno paura… è il suo momento, ce ne sono troppi… mostra i suoi muscoli… l’uomo bianco ha paura… è molle. È stato in cima per troppo tempo… la puzza ha raggiunto il tetto, e il Negro, la sente, la odora, e sta in attesa della vittoria… non ci vorrà ancora molto”.
“È’ il tempo del colore giallo… il nero e il bianco si mischieranno e il giallo dominerà, ecco. È un dato di fatto biologico, quando bianco e nero si mischiano, il giallo ne esce più forte, questa è l’unica cosa… tra duecento anni qualcuno guarderà la statua di un uomo bianco e chiederà se una cosa così strana fosse esistita realmente… e qualcuno risponderà: “Ma no, deve essere stata ridipinta”.
“Questa è la risposta! L’uomo bianco appartiene al passato… è già finito, estinto! È il turno per qualcosa di nuovo. Qua tutti parlano, ma non sanno nulla… lasciateli andare laggiù, e vedrete che le chiacchiere sono tutt’altra musica là, sono stato in Africa, so com’è, so che è molto forte, sanno dove stanno andando a finire… l’uomo bianco ha seppellito la sua testa troppo a lungo nell’utero… ha lasciato che la chiesa lo corrompesse, tutti si son fatti tirar dentro… non ti è permesso di dire questo… il papa ti guarda, stai attento… non dire nulla! Il cielo lo proibisce… NO! È’ un peccato… sarai crocifisso… stai a cuccia… sta buono… non abbaiare… non mordere… ecco la tua pappa… zitto!” “Non c’è niente dentro di loro… sono come dei tori, sbandiera qualcosa per distrarli; tette, patriottismo, la chiesa, qualunque cosa, in effetti, e salteranno. Non ci vuole molto, è facilissimo… vogliono sempre essere distratti… niente importa… la vita è molto facile
”.
Per quello che sembrò un lungo periodo, Céline non disse nulla. Infine, dissi di non aver mai conosciuto una donna che non fosse disgustata dai suoi libri, che non riuscivano mai a finirli.
“Certo, certo, che si aspettava… i miei libri non sono per le donne… hanno i loro trucchi, loro… il letto… soldi…. I loro giochetti… i miei libri non sono i loro trucchi… lo sanno da loro, come cavarsela…”
“No, non vedo più nessuno… sì, mia figlia è viva, sta a Parigi, non la vedo mai. Ha cinque figli. Non li ho mai visti.”
di: Robert Stromberg

venerdì 8 gennaio 2010

I legionari di Nettunia


Questi mesi di fine 2009 sono stati “scossi” da un’importante novità editoriale che non ha mancato di suscitare accese polemiche. Si è trattato di uno studio del ricercatore della Fondazione della RSI Pietro Cappellari, studio dedicato ai caduti della Repubblica Sociale Italiana di Anzio e Nettuno.
Ecco come lo stesso Cappellari, incontrato presso il suo studio, ha raccontato la genesi del libro I Legionari di Nettunia.

Come mai l’interesse per queste storie dimenticate?

Da diversi anni ormai mi occupo dello studio dei caduti della Rsi, caduti considerati dei veri e propri “fantasmi” dallo Stato italiano. Mentre i caduti della Seconda Guerra Mondiale sono in generale considerati “morti di serie B”, quelli della Rsi non sono neanche considerati come tali, non sono mai esistiti, dei “fantasmi” appunto. Questo lavoro nasce dalle ricerche di Cipriano Porcu che, negli anni ‘90, cercò di ricostruire le vicende dei fratelli Fioravanti, due ragazzi di Anzio e Nettuno caduti combattendo nelle fila della GNR. Purtroppo, non si riuscì mai a trovare una documentazione idonea per ricostruire le vicissitudini di queste due Camicie Nere, fino a quando – grazie alla Fondazione della Rsi – è stato possibile trovare delle fonti inedite su questi episodi e, inoltre, scoprire che Anzio e Nettuno avevano avuto diversi giovani che si erano arruolati nella Rsi e sotto queste insegne erano caduti. E’ iniziata per me la scoperta di un “mondo” sconosciuto. Attraverso delle ricerche condotte in tutta l’Italia settentrionale ho potuto ricostruire tassello dopo tassello le vite di questi volontari dell’onore. Si tratta di storie drammatiche ed eroiche nello stesso tempo, che gettano una luce nuova sulla storia di Anzio e Nettuno, il cui Novecento non è mai stato studiato con cognizione di causa.

Le verità contenute nel libro sono state definite “sconvolgenti”. Perché?

Purtroppo, la popolazione italiana fa dell’ignoranza della storia patria un suo fiero distintivo. Ad Anzio e Nettuno, dove il falso mito della “liberazione” degli Americani persiste con tutto il suo apparato propagandistico, lo studio della Rsi e le motivazioni ideali che spinsero il fior fiore della gioventù italiana a immolarsi sui campi di battaglia sono semplicemente tabù. I giovani italiani preferirono combattere gli Alleati, anziché aspettare, fazzoletto bianco in mano, la loro venuta. Ed è per questo che il mio studio è “sconvolgente”. Dimostra come i Nettuniani, ossia i ragazzi di Anzio e Nettuno che fecero delle scelte precise, optarono principalmente per combattere sotto il Tricolore italiano, sotto le bandiere della Rsi. Nel bellissimo corto che è stato lanciato per pubblicizzare il campionato del mondo di baseball che si terrà, per l’appunto, a Nettuno nel prossimo settembre, si vedono dei giocatori con la maglia della squadra cittadina che sbarcano come i soldati americani e combattono, con tanto di mazze, sulle spiagge nettunesi contro ipotetici “crucchi”. Ebbene, nella realtà, in quel 1944, gli Italiani erano dall’altra parte della “barricata”, a combattere al fianco dei soldati germanici. Altro che sbarco in maglia di baseball. Ecco perché questo libro è “sconvolgente” per il cittadino medio. Tutte le sue certezze vengono infrante dalla realtà storica dei fatti.

Questo libro, comunque, ha un respiro ben più ampio di quello della microstoria, non è vero?

Effettivamente, credere che questo studio sia una “storia locale” è un errore. Le vicende che vengono raccontate riguardano tutto un “mondo umano” che tra il 1943 e il 1945 si schierò sotto le insegne repubblicane. Le vicissitudini dei ragazzi di Anzio e Nettuno non sono altro che le vicissitudini di quel “mondo”. Non a caso, Nettunia, nel racconto, assume un ruolo marginale, visto che gran parte dei fatti narrati si svolgono nell’Italia settentrionale. Si parla della GNR di Brescia e Imperia come della Divisione “San Marco”, dei combattimenti avvenuti nelle Langhe, nel Torinese, nel Vercellese, nell’Astigiano e nella Pianura Pontina, per finire con l’eroica e sconosciuta resistenza delle Camicie Nere dell’“Etna” contro le soverchianti forze angloamericane negli ultimi giorni dell’aprile 1945. Tutti fatti che mai sono stati raccontati e che, per la prima volta, vengono presentati al grande pubblico attraverso una rigorosa ricostruzione storica.

Quale è il contributo più importante di questo studio?

Per prima cosa si deve segnalare come le vicissitudini riportate tendono ad evidenziare con la massima precisione la fisionomia spirituale del combattente della Rsi. Oggi che è stata ripresa la tematica del “male assoluto”, questo studio si inserisce nelle polemiche mettendo a tacere i detrattori della Repubblica Sociale Italiana. Le cristalline figure dei combattenti della Rsi escono dalle pagine del libro splendenti in tutta la loro purezza. Ecco che, allora, parlare di “male assoluto” diventa una idiozia, prima che un falso storico. Il contributo dato alla conoscenza della RSI da questo studio è importante proprio per questo fatto. Infine, non si può neanche ignorare che I Legionari di Nettunia sono il frutto di una collaborazione tra la Fondazione della Rsi di Terranova Bracciolini e il Centro Studi Militari della Rsi di Latina. Questo libro ha messo in moto una preziosa “intesa” – un vero e proprio “Asse” – tra i due enti, che dimostra come lo studio della Repubblica Sociale Italiana non può più essere ostaggio delle falsi tesi degli antifascisti.

di: Lemonio Boreo (16 Novembre 2009) Da "Rinascita", Quotidiano di Liberazione Nazionale