Quel che non si dice del mitico generale. Il caso più famoso fu il massacro di Bronte. Ma non ci fu solo quello. La storia del Mille e del loro capo è piena di tante ombre. Ecco quel che dovreste sapere e che non vi è mai stato raccontato...
[Da «il Sabato», 31 gennaio-6 febbraio 1987, p. 19]
Carlo Alberto, il re tentenna. Mazzini, l’apostolo della Patria. Garibaldi l’eroe dei due mondi. Cavour, il gran tessitore. E poi il «grido di dolore», «Obbedisco»!, «Ci siamo e ci resteremo», «Qui si fa l’Italia o si muore», «Roma o morte»! e così via. Abbiamo una storia da operetta: bisogna avere proprio un cuore di pietra per non scoppiare a ridere. Qualche storico ha cominciato a dissipar le nebbie su quel colossale falso storico (e dove era leggenda appaiono spesso grottesche pagliacciate e talvolta imprese criminali). Ma gli eroi del risorgimento restano. Il Mazzini ad esempio. Che dire della descrizione che ne dà il Farini fuori dei canoni ufficiali: «Mediocre uomo in tutto, orgoglio stragrande in sembianza d’umiltà», astratte vacuità...? Garibaldi poi è marmo e bronzo.
Lo sceneggiato TV Il Generale di Magni fa di tutto per sfuggire all’enfasi e alla retorica. Ed era ora. Ma la scelta di Franco Nero ha dato un tocco di edulcorata classe holliwoodiana ad un personaggio, il Garibaldi storico, piuttosto rozzo e un tantinello esaltato. Sentiamolo: «Papa e clero disgrazia e cancro d’Italia». Ed ancora: «Il grido d’ogni italiano, dalle fasce alla vecchiezza deve essere: guerra al prete»!. Tale fu la scienza e la ‘classe’ del nizzardo. Appena sbarca in Sicilia si proclama Dittatore, svuota conventi e monasteri, li saccheggia, confisca, scioglie a forza i Gesuiti, imprigiona, stabilisce bivacchi militari nelle splendide chiese meridionali. Garibaldi era stato iniziato alla Massoneria nel 1842 a Montevideo. A Palermo fonda una quantità di Logge. Nel 1864 viene eletto primo Gran Maestro della massoneria italiana e poi Gran Maestro onorario a vita. (Massoni erano pure Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele, Crispi, Ricasoli e così via). Con lui la massoneria italiana vara una virulenta tradizione anticattolica.
Il nostro eroe che mise al suo asino il nome del Papa, che chiamava Pio IX «un metro cubo di letame» (nel 1881 i massoni dettero addirittura l’assalto al funerale del Papa per scaraventarne la salma nel Tevere) fu il caposcuola su cui si formarono quelle generazioni di liberi-pensatori. Fra questi, qualche anno dopo, il mangiapreti romagnolo Mussolini Benito. Siamo appena nel 1904 quando il giovane rivoluzionario di Predappio attacca Papa Sarto «in nome dell’Anticristo che è la ragione, che si ribella al dogma e abbatte Dio». Pochi anni dopo salirà agli onori della cronaca per un libello blasfemo scritto per celebrare l’anniversario della morte di Garibaldi. Ma ancora nel 1918, direttore de Il Popolo d’Italia, sarà a Milano, sotto il monumento a Garibaldi a celebrare la vittoria. «Fin da giovane Mussolini era stato un esponente tipico, quasi caricaturale dell’ideologia massonica» (Vannoni). La pacata e lucida mente di Jemolo vedrà nel Mussolini, ormai Duce d’Italia, «il più diretto erede del garibaldinismo».
Del resto il «segreto iniziatico» della dottrina massonica non è proprio l’autodivinizzazione dell’uomo e l’idolatria del Capo/Stato? (Nei catechismi patriottici si celebrava in Garibaldi la Trinità: «Il Padre della patria, il Figlio del popolo, lo Spirito della libertà»).
Si potrebbero poi sorprendere i legami del garibaldinismo col fascismo anche attraverso curiosi canali secondari. Il massone, mazziniano, Eduardo Frosini ad esempio, che sedette alla presidenza del I congresso fascista di Firenze (1919), che nel suo giornale La Questione morale (già allora!) per primo propugnò la vocazione imperiale di Roma. Del resto proprio il garibaldino-massone Crispi aveva varato in grande quella politica coloniale imperialista che il Duce si sentirà in dovere di portare a compimento, con la fondazione dell’Impero. Altri generali garibaldini (e massoni) come Nino Bixio, dai massacri di contadini calabresi finiranno i loro anni a mercanteggiare in schiavi cinesi con il Perù. È la singolare epopea dei ‘liberatori’...
La conquista del Sud. Lo sceneggiato televisivo di Magni racconta dunque soltanto il biennio ‘60-’61 del nizzardo. Quello sceneggiato dice e non dice: troppo lontana è la verità dalla leggenda. Proviamo allora a oltrepassare il fronte, per capire finalmente come fu visto Garibaldi, in quei due anni, dalle popolazioni ‘liberate’. Spigolature di un documento eccezionale davvero da antologia, e oggi quasi introvabile. È un libello appassionato e infuocato di un intellettuale napoletano, Giacinto de Sivo, pubblicato quasi un secolo fa clandestinamente e anonimo, e nel 1965 ristampato in copia anastatica da un piccolo editore: I Napolitani al cospetto delle nazioni civili. È la stessa storia, ma stavolta scritta dai vinti: il grido di ribellione di un popolo non solo colonizzato e umiliato dai sedicenti ‘liberatori’ ma per di più coperto di menzogne nella storia ufficiale, quella scritta dai vincitori. «Ell’è una trista ironia lo appellar risorgimento questo subissamento del bel paese».
L’altrastoria. Il Regno delle due Sicilie è libero e indipendente fin dal 1734, con un re italianissimo, napoletano. Non è una terra ricca solo di passato (da Cicerone a Orazio, a S. Tommaso a Vico a Tasso...): ha una grande tradizione giuridica, enormi ricchezze artistiche e — si direbbe oggi — ambientali. La statistiche dicono: in proporzione meno poveri che a Parigi e Londra, le tasse più lievi d’Europa, la prima flotta d’Italia, una popolazione cresciuta di 1/3 dal 1800 al 1860, un debito pubblico di appena 500 milioni di Lire per 9 milioni di abitanti, contro il Piemonte che ha più di mille milioni di debito per quattro milioni di abitanti (il sud in sostanza dovrà pagare i debiti del Piemonte, anche. quelli fatti per conquistarlo). Inoltre «erano in cassa 33 milioni di ducati quando il liberatore Garibaldi vi mise su le mani e li fe’ disparire».
Il re di Torino, di origini e lingua francese aveva spedito un nizzardo a «liberare dagli stranieri» una terra governata da un re ben più italiano di lui (per di più Napoli era, in confronto a Torino quel che oggi sarebbe Firenze in confronto ad Aosta). Ma il re di Napoli, cattolico e sostenitore del Papa, negli equilibri internazionali era sostanzialmente isolato.
Dunque come possono 1000 uomini male armati e peggio vestiti distruggere così un Regno con un esercito di 100.000 uomini? I vincitori rispondono (e hanno scritto): per il gran valore dei garibaldini e l’appoggio delle popolazioni. In realtà Garibaldi poteva esser rigettato in mare fin dallo sbarco. La vera arma vincente che spianò la strada al nostro fu quella della massoneria piemontese e francese che fra burocrati, ufficiali e ministri si era comprato tutto il Palazzo di Francesco II: «La setta corrompe e inventa la storia» scrive De Sivo, «sospinge l’umanità a subire la tirannide o ad esser tiranna». Qualche esempio. A Calatafimi il generate Landi (al prezzo di 18.000 ducati) impedisce ai suoi di sbaragliare i garibaldini già in rotta. Senza alcuna ragione 20.000 soldati vengono fatti uscire da Palermo senza colpo ferire. E poi Milazzo, Messina: migliaia di soldati di Francesco spediti sulle montagne lontane. Il generale Ghio ne disciolse 10.000. Altrettanti il generale Briganti che però viene fucilato sul posto, per alto tradimento dai suoi stessi soldati. E poi altri ufficiali leali al re costretti a disarmare le proprie truppe e a consegnare migliaia di soldati a qualche decina di garibaldini che avevano loro stessi sbaragliato e ridotto alla resa. E infine le sconfitte di Garibaldi sul Volturno e l’incredibile comportamento degli ufficiali di Francesco che avevano ormai Napoli e la vittoria definitiva a portata di mano.
Un generale Cialdini, ad esempio che passò con Garibaldi mitragliando le popolazioni insorte contro il suo tradimento (come, anni prima, erano insorte contro Pisacane). Decine dl città «reazionarie», che avevano organizzato la resistenza (da Isernia, a Venosa, a Barile, Monteverde, Cotronei, S. Marco e così via) furono distrutte e bruciate dai Garibaldini. Villaggi, cascine, molini, saccheggiati, contadini massacrati (non solo a Bronte). «Purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava del prete» scriveva il traditore generale Pianelli nel febbraio ‘61, passato coi ‘liberatori’.
«Napoli non avversa l’Italia» scriveva appassionatamente il nostro De Sivo, «ma combatte la setta, che è anti-italica, com’è anticristiana e anti-sociale, atea e ladra». Da questa ribellione nasce il brigantaggio contro l’occupante piemontese. «Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni; e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui?».
Il De Sivo si appella ad un’Europa complice e connivente dell’invasore: «La setta» scrive «deruba, distrugge e poi ci impone i suoi maestri piemontesi, le sue leggi, i suoi debiti, il suo vocabolario e gli esempi di laidezze e rapine e irreligione e ferocia». Si ha un bel deprecare, oggi, la proverbiale diffidenza dei popoli del meridione d’Italia verso le istituzioni e lo Stato; e condannar la mafia e cosi via. Del resto proprio gli espropri dei beni della Chiesa nel Sud, con cui a Torino si costituirono te finanze del nascente Stato massonico, sono fra le cause del futuro sottosviluppo del sud, del suo ritardo nei confronti del nord, che ha esportato i debiti e importato le ricchezze. «Il primo frutto dell’unità è l’aumento dei balzelli pubblici... Oh le promesse dei settari! A voi basta il gridar popolo e civiltà per saccheggiare i popoli civili».
Ma il parlamento piemontese non ci pensa due volte ad annettersi le provincie meridionali: era un Parlamento eletto da 100 mila persone per 24 milioni di abitanti (al 95% contadini e cattolici). Un parlamento ‘liberale’: «Codesti sedicenti deputati, ignoti al popolo, corifei della setta, eletti da se stessi…». Per salvar la faccia Garibaldi, ad annessione già avvenuta organizzò un plebiscito: era il 21 ottobre 1860. I risultati ufficiali furono proclamati su piazze e strade deserte: 1.313.376 per l’annessione e 10.312 contro. Anche a prender per buone cifre tanto balorde, si deve comunque pensare ad una minoranza sui 9 milioni di abitanti.
Ma quel che era accaduto in quei giorni, sui libri dei vincitori non sta scritto. Aggressioni, uccisioni, arresti, intimidazioni. Grandi cartelli dichiaravano «Nemico» chi votava No; il voto peraltro non fu segreto: furono poste due urne palesi e quelle del No «coperte da bande di camorristi». Anche astenersi era colpa di Stato: «Salvar la vita, in quei giorni era pensiero universale». E poi garibaldini — anche stranieri — che votavano anche 10, 20 volte: perfino Garibaldi, Bixio e Sirtori non si vergognarono di votare. E per chi si ribellava era dura. Ad esempio si può ricordare il rapporto del governatore garibaldino della Capitanata: «Insurrezioni nel giorno del plebiscito: si son fatti sforzi eccezionali perche l’insurrezione non sia generale». (segue la richiesta di armi e soldati). O il suo collega di Teramo che proclamava lo stato d’assedio nei comuni della provincia ancora 9 giorni dopo il plebiscito: «I reazionari presi con le armi saran fucilati»!.
Agli stati d’assedio, i brogli, le violenze, vanno aggiunte le galere piene di «reazionari», gli esiliati, i fucilati... «Ma alla setta bastava mostrare all’Europa una maggioranza di cifre». Sarà un testimone d’eccezione, Lord Russel in un dispaccio del 24 ottobre a testimoniare che «i voti che ebber luogo in quelle province non han grande valore...». Ma la scuola dei vincitori racconta ben altro: dice che la gran capitale di un Regno, la bellissima Napoli fu entusiasta di diventare una prefettura di Torino. «Lasciate dal vantar plebisciti. Dite che son fatti compiuti; e sì che son compiuti, ma per restar monumenti eterni di vostra nequizia. Voi, gretta minoranza, volete imporre il vostro pensiero ad una nazione, e col pensiero i ceppi... un pugno di tristi vuol comandare a milioni; perciò destituisce, disarma, condanna, pugnala, carcera, esilia, fucila ed incendia.
Siete atroci perche pochi; siete costretti a dar terrore, perché vi manca il numero; dovete far seguaci con la corruzione perché non avete il concorso della virtù».(De Sivo). Questa fu l’epopea del ‘liberatore’ Garibaldi raccontata dal popolo ‘liberato’. Sui libri di scuola (la scuola dei vincitori) si trova al capitolo: Risorgimento.
Antonio Socci
[Da «il Sabato», 31 gennaio-6 febbraio 1987, p. 19]
Carlo Alberto, il re tentenna. Mazzini, l’apostolo della Patria. Garibaldi l’eroe dei due mondi. Cavour, il gran tessitore. E poi il «grido di dolore», «Obbedisco»!, «Ci siamo e ci resteremo», «Qui si fa l’Italia o si muore», «Roma o morte»! e così via. Abbiamo una storia da operetta: bisogna avere proprio un cuore di pietra per non scoppiare a ridere. Qualche storico ha cominciato a dissipar le nebbie su quel colossale falso storico (e dove era leggenda appaiono spesso grottesche pagliacciate e talvolta imprese criminali). Ma gli eroi del risorgimento restano. Il Mazzini ad esempio. Che dire della descrizione che ne dà il Farini fuori dei canoni ufficiali: «Mediocre uomo in tutto, orgoglio stragrande in sembianza d’umiltà», astratte vacuità...? Garibaldi poi è marmo e bronzo.
Lo sceneggiato TV Il Generale di Magni fa di tutto per sfuggire all’enfasi e alla retorica. Ed era ora. Ma la scelta di Franco Nero ha dato un tocco di edulcorata classe holliwoodiana ad un personaggio, il Garibaldi storico, piuttosto rozzo e un tantinello esaltato. Sentiamolo: «Papa e clero disgrazia e cancro d’Italia». Ed ancora: «Il grido d’ogni italiano, dalle fasce alla vecchiezza deve essere: guerra al prete»!. Tale fu la scienza e la ‘classe’ del nizzardo. Appena sbarca in Sicilia si proclama Dittatore, svuota conventi e monasteri, li saccheggia, confisca, scioglie a forza i Gesuiti, imprigiona, stabilisce bivacchi militari nelle splendide chiese meridionali. Garibaldi era stato iniziato alla Massoneria nel 1842 a Montevideo. A Palermo fonda una quantità di Logge. Nel 1864 viene eletto primo Gran Maestro della massoneria italiana e poi Gran Maestro onorario a vita. (Massoni erano pure Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele, Crispi, Ricasoli e così via). Con lui la massoneria italiana vara una virulenta tradizione anticattolica.
Il nostro eroe che mise al suo asino il nome del Papa, che chiamava Pio IX «un metro cubo di letame» (nel 1881 i massoni dettero addirittura l’assalto al funerale del Papa per scaraventarne la salma nel Tevere) fu il caposcuola su cui si formarono quelle generazioni di liberi-pensatori. Fra questi, qualche anno dopo, il mangiapreti romagnolo Mussolini Benito. Siamo appena nel 1904 quando il giovane rivoluzionario di Predappio attacca Papa Sarto «in nome dell’Anticristo che è la ragione, che si ribella al dogma e abbatte Dio». Pochi anni dopo salirà agli onori della cronaca per un libello blasfemo scritto per celebrare l’anniversario della morte di Garibaldi. Ma ancora nel 1918, direttore de Il Popolo d’Italia, sarà a Milano, sotto il monumento a Garibaldi a celebrare la vittoria. «Fin da giovane Mussolini era stato un esponente tipico, quasi caricaturale dell’ideologia massonica» (Vannoni). La pacata e lucida mente di Jemolo vedrà nel Mussolini, ormai Duce d’Italia, «il più diretto erede del garibaldinismo».
Del resto il «segreto iniziatico» della dottrina massonica non è proprio l’autodivinizzazione dell’uomo e l’idolatria del Capo/Stato? (Nei catechismi patriottici si celebrava in Garibaldi la Trinità: «Il Padre della patria, il Figlio del popolo, lo Spirito della libertà»).
Si potrebbero poi sorprendere i legami del garibaldinismo col fascismo anche attraverso curiosi canali secondari. Il massone, mazziniano, Eduardo Frosini ad esempio, che sedette alla presidenza del I congresso fascista di Firenze (1919), che nel suo giornale La Questione morale (già allora!) per primo propugnò la vocazione imperiale di Roma. Del resto proprio il garibaldino-massone Crispi aveva varato in grande quella politica coloniale imperialista che il Duce si sentirà in dovere di portare a compimento, con la fondazione dell’Impero. Altri generali garibaldini (e massoni) come Nino Bixio, dai massacri di contadini calabresi finiranno i loro anni a mercanteggiare in schiavi cinesi con il Perù. È la singolare epopea dei ‘liberatori’...
La conquista del Sud. Lo sceneggiato televisivo di Magni racconta dunque soltanto il biennio ‘60-’61 del nizzardo. Quello sceneggiato dice e non dice: troppo lontana è la verità dalla leggenda. Proviamo allora a oltrepassare il fronte, per capire finalmente come fu visto Garibaldi, in quei due anni, dalle popolazioni ‘liberate’. Spigolature di un documento eccezionale davvero da antologia, e oggi quasi introvabile. È un libello appassionato e infuocato di un intellettuale napoletano, Giacinto de Sivo, pubblicato quasi un secolo fa clandestinamente e anonimo, e nel 1965 ristampato in copia anastatica da un piccolo editore: I Napolitani al cospetto delle nazioni civili. È la stessa storia, ma stavolta scritta dai vinti: il grido di ribellione di un popolo non solo colonizzato e umiliato dai sedicenti ‘liberatori’ ma per di più coperto di menzogne nella storia ufficiale, quella scritta dai vincitori. «Ell’è una trista ironia lo appellar risorgimento questo subissamento del bel paese».
L’altrastoria. Il Regno delle due Sicilie è libero e indipendente fin dal 1734, con un re italianissimo, napoletano. Non è una terra ricca solo di passato (da Cicerone a Orazio, a S. Tommaso a Vico a Tasso...): ha una grande tradizione giuridica, enormi ricchezze artistiche e — si direbbe oggi — ambientali. La statistiche dicono: in proporzione meno poveri che a Parigi e Londra, le tasse più lievi d’Europa, la prima flotta d’Italia, una popolazione cresciuta di 1/3 dal 1800 al 1860, un debito pubblico di appena 500 milioni di Lire per 9 milioni di abitanti, contro il Piemonte che ha più di mille milioni di debito per quattro milioni di abitanti (il sud in sostanza dovrà pagare i debiti del Piemonte, anche. quelli fatti per conquistarlo). Inoltre «erano in cassa 33 milioni di ducati quando il liberatore Garibaldi vi mise su le mani e li fe’ disparire».
Il re di Torino, di origini e lingua francese aveva spedito un nizzardo a «liberare dagli stranieri» una terra governata da un re ben più italiano di lui (per di più Napoli era, in confronto a Torino quel che oggi sarebbe Firenze in confronto ad Aosta). Ma il re di Napoli, cattolico e sostenitore del Papa, negli equilibri internazionali era sostanzialmente isolato.
Dunque come possono 1000 uomini male armati e peggio vestiti distruggere così un Regno con un esercito di 100.000 uomini? I vincitori rispondono (e hanno scritto): per il gran valore dei garibaldini e l’appoggio delle popolazioni. In realtà Garibaldi poteva esser rigettato in mare fin dallo sbarco. La vera arma vincente che spianò la strada al nostro fu quella della massoneria piemontese e francese che fra burocrati, ufficiali e ministri si era comprato tutto il Palazzo di Francesco II: «La setta corrompe e inventa la storia» scrive De Sivo, «sospinge l’umanità a subire la tirannide o ad esser tiranna». Qualche esempio. A Calatafimi il generate Landi (al prezzo di 18.000 ducati) impedisce ai suoi di sbaragliare i garibaldini già in rotta. Senza alcuna ragione 20.000 soldati vengono fatti uscire da Palermo senza colpo ferire. E poi Milazzo, Messina: migliaia di soldati di Francesco spediti sulle montagne lontane. Il generale Ghio ne disciolse 10.000. Altrettanti il generale Briganti che però viene fucilato sul posto, per alto tradimento dai suoi stessi soldati. E poi altri ufficiali leali al re costretti a disarmare le proprie truppe e a consegnare migliaia di soldati a qualche decina di garibaldini che avevano loro stessi sbaragliato e ridotto alla resa. E infine le sconfitte di Garibaldi sul Volturno e l’incredibile comportamento degli ufficiali di Francesco che avevano ormai Napoli e la vittoria definitiva a portata di mano.
Un generale Cialdini, ad esempio che passò con Garibaldi mitragliando le popolazioni insorte contro il suo tradimento (come, anni prima, erano insorte contro Pisacane). Decine dl città «reazionarie», che avevano organizzato la resistenza (da Isernia, a Venosa, a Barile, Monteverde, Cotronei, S. Marco e così via) furono distrutte e bruciate dai Garibaldini. Villaggi, cascine, molini, saccheggiati, contadini massacrati (non solo a Bronte). «Purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava del prete» scriveva il traditore generale Pianelli nel febbraio ‘61, passato coi ‘liberatori’.
«Napoli non avversa l’Italia» scriveva appassionatamente il nostro De Sivo, «ma combatte la setta, che è anti-italica, com’è anticristiana e anti-sociale, atea e ladra». Da questa ribellione nasce il brigantaggio contro l’occupante piemontese. «Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni; e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui?».
Il De Sivo si appella ad un’Europa complice e connivente dell’invasore: «La setta» scrive «deruba, distrugge e poi ci impone i suoi maestri piemontesi, le sue leggi, i suoi debiti, il suo vocabolario e gli esempi di laidezze e rapine e irreligione e ferocia». Si ha un bel deprecare, oggi, la proverbiale diffidenza dei popoli del meridione d’Italia verso le istituzioni e lo Stato; e condannar la mafia e cosi via. Del resto proprio gli espropri dei beni della Chiesa nel Sud, con cui a Torino si costituirono te finanze del nascente Stato massonico, sono fra le cause del futuro sottosviluppo del sud, del suo ritardo nei confronti del nord, che ha esportato i debiti e importato le ricchezze. «Il primo frutto dell’unità è l’aumento dei balzelli pubblici... Oh le promesse dei settari! A voi basta il gridar popolo e civiltà per saccheggiare i popoli civili».
Ma il parlamento piemontese non ci pensa due volte ad annettersi le provincie meridionali: era un Parlamento eletto da 100 mila persone per 24 milioni di abitanti (al 95% contadini e cattolici). Un parlamento ‘liberale’: «Codesti sedicenti deputati, ignoti al popolo, corifei della setta, eletti da se stessi…». Per salvar la faccia Garibaldi, ad annessione già avvenuta organizzò un plebiscito: era il 21 ottobre 1860. I risultati ufficiali furono proclamati su piazze e strade deserte: 1.313.376 per l’annessione e 10.312 contro. Anche a prender per buone cifre tanto balorde, si deve comunque pensare ad una minoranza sui 9 milioni di abitanti.
Ma quel che era accaduto in quei giorni, sui libri dei vincitori non sta scritto. Aggressioni, uccisioni, arresti, intimidazioni. Grandi cartelli dichiaravano «Nemico» chi votava No; il voto peraltro non fu segreto: furono poste due urne palesi e quelle del No «coperte da bande di camorristi». Anche astenersi era colpa di Stato: «Salvar la vita, in quei giorni era pensiero universale». E poi garibaldini — anche stranieri — che votavano anche 10, 20 volte: perfino Garibaldi, Bixio e Sirtori non si vergognarono di votare. E per chi si ribellava era dura. Ad esempio si può ricordare il rapporto del governatore garibaldino della Capitanata: «Insurrezioni nel giorno del plebiscito: si son fatti sforzi eccezionali perche l’insurrezione non sia generale». (segue la richiesta di armi e soldati). O il suo collega di Teramo che proclamava lo stato d’assedio nei comuni della provincia ancora 9 giorni dopo il plebiscito: «I reazionari presi con le armi saran fucilati»!.
Agli stati d’assedio, i brogli, le violenze, vanno aggiunte le galere piene di «reazionari», gli esiliati, i fucilati... «Ma alla setta bastava mostrare all’Europa una maggioranza di cifre». Sarà un testimone d’eccezione, Lord Russel in un dispaccio del 24 ottobre a testimoniare che «i voti che ebber luogo in quelle province non han grande valore...». Ma la scuola dei vincitori racconta ben altro: dice che la gran capitale di un Regno, la bellissima Napoli fu entusiasta di diventare una prefettura di Torino. «Lasciate dal vantar plebisciti. Dite che son fatti compiuti; e sì che son compiuti, ma per restar monumenti eterni di vostra nequizia. Voi, gretta minoranza, volete imporre il vostro pensiero ad una nazione, e col pensiero i ceppi... un pugno di tristi vuol comandare a milioni; perciò destituisce, disarma, condanna, pugnala, carcera, esilia, fucila ed incendia.
Siete atroci perche pochi; siete costretti a dar terrore, perché vi manca il numero; dovete far seguaci con la corruzione perché non avete il concorso della virtù».(De Sivo). Questa fu l’epopea del ‘liberatore’ Garibaldi raccontata dal popolo ‘liberato’. Sui libri di scuola (la scuola dei vincitori) si trova al capitolo: Risorgimento.
Antonio Socci
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