giovedì 8 aprile 2010

Autodifesa di Julius Evola ( premessa)


Nell’aprile del 1951 Julius Evola venne arrestato nella propria abitazione di Corso Vittorio Emanuele da uomini dell’Ufficio Politico della Questura di Roma. L’accusa: essere stato il «maestro», l’«ispiratore», con le sua nebulose teorie», di un gruppo di giovani, i quali, a loro volta, erano accusati d’aver dato via a degli organismi di lotta clandestina: il «F.A.R.» (Fasci d’Azione Rivoluzionaria» e la «Legione nera» di orientamento neofascista. Di qui l’imputazione, per tutti, di apologia di fascismo e di aver «tentato di ricostruire il disciolto partito fascista». Quale «padre spirituale di tutti gli imputati», come venne definito dagli inquirenti, rientrava nella logica, dell’intolleranza del sistema gettare in carcere uno studioso, uno scrittore, per di più grande invalido di guerra, al quale di null’altro poteva farsi carico se non dei suoi studi e dei suoi scritti! Ed è assai significativo che nel regime democratico post-bellico, Evola sia stato forse il primo in Italia ad essere incarcerato per «reato ideologico». Evola, per la verità, accettò la inattesa disavventura con estrema indifferenza. Ben altre erano state le esperienze di vita dell’uomo perché la pur dura detenzione nel carcere di Regina Coeli potesse intaccar il suo proprio olimpico distacco! Anzi, a leggerne l’ «autodifesa», si ha la sensazione di una sorta di sua «aria divertita», al cospetto di accusatori tanto faziosi ed in malafede quanto culturalmente sprovveduti. Si tratta comunque di un episodio della vita di Evola che va ricordato, perché contribuisce a darci la imponente figura dell’uomo, ed anche quella, davvero mediocre, dei suoi avversari, che imprigionando lui, hanno creduto di mettere in ceppi al suo pensiero. Il processo ebbe inizio ai primi di ottober del ’51, dinanzi alla Corte d’Assise di Roma. La difesa di Evola venne assunta dal prof. Francesco Carnelutti, avvocato insigne e uomo di grande carattere, anche se di formazione culturale ed ideologica assai distante da quella evoliana. Nel corso della lettura dell’ «autodifesa», quando Evola citò la casa editrice Laterza, Carnelutti esclamò: «Non si pubblica nulla da Laterza che non sia gradito a Croce». E quando Evola affermò che, stando ai termini dell’accusa, avrebbe avuto l’onore di vedere seduto al banco degli imputati persone come Aristotele, Platone, il Dante di «De Monarchia», fino ad un Metternich e ad un Bismark, Carnelutti interruppe a voce alta: «La polizia è andata in cerca anche di costoro…» (risate). «E’ doloroso che da sei mesi un grande invalido di guerra stia in prigione. In Italia la libertà personale è diventata uno straccio». A Carnelutti sfuggì all’atto dell’arringa, la precisazione di Evola, di non essere stato mai iscritto al Partito Nazionale Fascista. Questa precisazione, probabilmente, fece effetto sui giudici popolari, che dovevano giudicare quel particolare tipo di «reati». Nel corso dell’arringa Carnelutti fece omaggio al Presidente della Corte d’assise (dott.Sciandone) del volume «Rivolta contro il mondo moderno», ripubblicato in nuova edizione da «Bocca» ed apparso nelle librerie mentre l’autore era in carcere. Contrariamente a quanto scritto da taluno, il Pubblico Ministero dott. Sangiorgi chiese per Evola la condanna ad otto mesi di reclusione e non l’assoluzione per insufficienza di prove. Il processo si concluse il 20 novembre 1951: Evola fu assolto con formula piena. Riteniamo utile pubblicare in appendice un ampio stralcio della arringa pronunciata da Carnelutti il 6 novembre 1951 (pubblicata sulla rivista «L’Eloquenza» - n. 11-12 del novembre-dicembre 1951.

venerdì 2 aprile 2010

Casanova, tra esoterismo e pratiche magico-sessuali


di: Vittorio Fincati

Per sei anni, a partire dal 1757, il trentaduenne Giacomo Casanova, avventuriero, gaudente, ma anche iscritto alla Massoneria, ebbe una singolare avventura con la cinquantaduenne ricca marchesa francese Jeanne-Camus de Pontcarré (1705-1775), andata in sposa a Louis-Christophe de Lascaris d’Urfé de la Rochefoucauld (1704-1734), casato che aveva annoverato due personaggi in odore di esoterismo, Claude e Honoré d’Urfé, autore quest’ultimo del lunghissimo romanzo L’Astrea. La marchesa, a detta dello stesso Casanova “folle solo per eccesso di intelligenza”, col nome iniziatico di Egeria, era una cultrice di magia1, discepola dell’alchimista Benoît de Maillet detto Taliamed, “ottima alchimista” lei stessa. A detta della marchesa questo Taliamed, così come i maggiori alchimisti, sarebbe morto solo in apparenza, ma in realtà vivrebbe ancora in altre sembianze. La d’Urfé possedeva un vero e proprio laboratorio alchemico ed aveva raccolto nella sua biblioteca una vasta messe di importanti manoscritti, specialmente paracelsiani, oltre quelli che già possedeva la biblioteca della famiglia Urfé, imparentata con la famiglia Lascaris, tra cui si annoverava un celebre alchimista: “lei mi mostrò un piccolo manoscritto in cui si spiegava la Grande Opera in francese, in modo chiaro. Mi disse che non lo teneva sotto chiave, perché era redatto con una scrittura cifrata e solo lei ne possedeva la chiave interpretativa”. Teneva sotto chiave, invece, un commentario all’opera alchemica di Raimondo Lullo. Il famoso conte di Saint-Germain era spesso tra gli ospiti della sua tavola. Conobbe anche Cagliostro. Sosteneva di venire visitata in sogno da un genio, Ormesius, ed aveva la singolare idea fissa di voler trasmigrare in un maschio, al fine di poter poi riuscire a conversare direttamente con gli spiriti elementari. Casanova decise di assecondare le credenze della marchesa ed anzi contribuì con del suo, predisponendo rituali e tecniche di magia sessuale. E’ molto curioso leggere in lui – che per sua stessa ammissione si interessava molto di alchimia – di queste conoscenze magiche davvero singolari, derivategli probabilmente dalle sue frequentazioni con le logge massoniche rosacrociane che all’epoca impazzavano in mezza Europa: “la cabala, la stregoneria, tutte le scienze occulte non hanno segreti per lui (…) Si sapeva, inoltre, da un rapporto di polizia, che era massone e che abusava della credulità della brava gente, che confondeva con storie di cabale e rosacroce”2. L’incontro con la marchesa sarebbe stato propiziato dalla sua fama di “stregone”: fu presentato a lei dal nobile Nicolas-François-Julie de La Tour d’Auvergne che Casanova aveva guarito dalla sciatica tracciandogli sulla coscia un pentacolo magico. Tuttavia non è sicuro che le cose siano andate così. Il Samaran ipotizza che Casanova l’abbia conosciuta all’interno di una cerchia di cultori di magia. Infatti il conte de la Tour d’Auvergne sembra che partecipasse a misteriose ricerche di tesori e notturni tentativi di vedere il diavolo che ben presto interessarono la polizia. Nel gruppo di amici vi era pure un certo Jean-Paul Lascaris, dal cognome impegnativo, che venne poi arrestato per truffa e impostura. Casanova si vantava però di conoscere “il ciclo magico del sistema di Zoroastro”, - forse la stessa rituaria di carattere astrale che verrà data alle stampe nel 1796 dal barone André-Robert Andréa de Nerciat3 - e di avere alle sue dipendenze il genio Paralis, che interrogava su ogni questione grazie ad un sistema combinatorio e permutativo di lettere: “Il mio genio si chiama Paralis. Ponetegli una domanda per iscritto, così come la fareste normalmente (…) la signora d’Urfé, tremando di gioia, pone la domanda e la versa in numeri, poi io ne faccio la piramidazione, e le faccio estrarre la risposta che poi riversa in lettere alfabetiche. Ne ricava solo delle consonanti ma, grazie ad una seconda operazione che apporta le vocali, ottenne la risposta espressa in termini chiarissimi”.
La magia che la marchesa d’Urfé voleva praticare è ricordata dal Casanova col termine decisamente raffinato di realizzazione dell’ipostasi, ma che ben spiega il carattere di quella operatività. Ci sono troppi elementi, termini e riferimenti sospetti nel racconto di Giacomo Casanova per pensare che egli non abbia voluto mascherare in forma favolistica qualche pratica sessuo-magica di cui aveva avuto sentore o fattane anche esperienza personale. Peraltro egli dichiara di essere a conoscenza dell’osceno giuramento segreto dei Rosacrociani suoi contemporanei: “tra uomini non è indecente scambiarselo, ma una donna come la signora d’Urfé doveva avere una certa riluttanza a farlo a un uomo che aveva conosciuto per la prima volta quel giorno. Il giuramento che leggiamo nelle nostre sacre Scritture è camuffato. “Giurò, dice il santo Libro – mettendogli la mano sulla coscia”. Ma non si tratta della coscia. Perciò non succede mai che un uomo presti giuramento a una donna in quel modo, perché la donna non possiede il verbo”. Qui, più che un giuramento, sembra trattarsi di una pratica iniziatica sessuale4.
“Della sua affiliazione alla massoneria, delle sue pretese di alchimia e cabala, Casanova ha parlato senza nascondersi. Ne La Clavicola di Salomone, ne I Talismani, ne La Cabala, in Zecor-ben, in Picatrix, e altri libri di magia, fondava la scienza con cui abusava delle anime candide, non dispiacendosi, dice, se lo si credeva un poco stregone, capace di procurarsi ad ogni momento, con la virtù delle loro infallibili formule, colloqui con i demoni”5. La conoscenza magica del Casanova emerge in modo del tutto particolare da un passo estremamente specialistico che è presente anche in altri documenti di magia ipostatica o trasmigratoria. Casanova avrebbe dovuto procurare alla marchesa una ragazza vergine figlia di un adepto dell’arte magica ed avrebbe dovuto ingravidarla nel 14esimo giorno di una certa lunazione. Una volta partorito il fanciullo magico, la marchesa avrebbe dovuto praticare su di esso una raccapricciante operazione, con la quale avrebbe trasferito il suo spirito nel corpo del neonato, “morendo” al vecchio corpo.
Dopo tre anni avrebbe acquisito nuovamente coscienza di se stessa, spodestando quindi l’anima e la coscienza del fanciullo: “trascorremmo quelle tre settimane interamente dediti ai preparativi di quella divina operazione, preparativi che consistevano nel celebrare culti particolari ai rispettivi geni di ciascuno dei sette pianeti, nei giorni che erano loro consacrati. Finiti quei preparativi, dovevo andare a prendere, in un luogo che mi sarebbe stato rivelato per ispirazione dei Geni, una vergine figlia di un adepto, che dovevo rendere feconda di un figlio maschio [Horosmadis] grazie a un metodo noto soltanto ai confratelli Rosacroce. Quel bambino doveva nascere vivo, ma dotato di un’anima sensitiva6. La d’Urfé doveva prenderlo tra le braccia nell’istante in cui fosse venuto al mondo e tenerlo per sette giorni accanto a sé nel proprio letto. Alla fine di quei sette giorni, la donna doveva spirare tenendo la bocca incollata a quella del bambino che, per quel tramite, avrebbe ricevuto la su anima intelligente”7. Ma Casanova potrebbe aver cambiato le carte in tavola, poiché, da documenti diversi, e anche secondo logica, risulterebbe che a dover soccombere è il soggetto più giovane. Ma ciò Casanova non poteva certo scriverlo. L’operazione però non va in porto poiché il veneziano, rendendosi conto delle complicazioni inerenti tutta la vicenda – così asserisce, ma è sincero? – crea sempre nuovi impedimenti. Alla fine è costretto lui stesso ad avere un rapporto magico sessuale con la marchesa per ingravidarla, intessendo il racconto di particolari che non hanno riscontro nella letteratura di quel periodo per la loro “franchezza”. Poco dopo abbandonerà la marchesa per non più rivederla, dopo averla abbondantemente derubata (“aveva la delicatezza di non chiederle mai denaro, ma solo pietre preziose per formare delle Costellazioni”)8, incalzato dal susseguirsi delle sue avventure in tutta Europa. Un biografo di Casanova, il Samaran, sospetta che le soperchierie usate da Casanova con la d’Urfé potrebbe averle apprese dalla conoscenza di una certa Jeanne-Marguerite Leblanc, detta La Bontemps, indovina e scroccona professionista che all’epoca godeva di grande nomea a Parigi. La d’Urfé morirà molti anni più tardi niente affatto pazza9. Dove poteva avere appreso questa singolare dottrina la marchesa, dal momento che Casanova entra in gioco in un momento in cui lei è già nota per i suoi interessi alchemici e trasmigratori? Non è dato saperlo; forse la lettura di qualche manoscritto segreto dopo la morte del marito (1734) tra le sue carte private. Scrisse infatti Compigny des Bordes circa la dottrina segreta degli Urfé.
li Urfé, nel XVII e XVIII secolo, non ignoravano la dottrina segreta di Honoré, autore dell’Astrea. Due documenti, firmati dalla marchesa d’Urfé, conservati nella Biblioteca municipale di Montbrison, consentono di fare i dovuti raffronti. Il primo è datato dalla Bastie, 5 maggio 1769, scritto e firmato da Jeanne-Camus de Pontcarré, marchesa di Urfé: “Jeannette chiede se sia ancora vivo qualcuno della casata degli Urfé; dove si trovi, il suo nome, e come possa fare per vederlo? Che ne è stato della polvere di proiezione appartenuta all’Urfé, e come posso fare per entrarne in possesso? – Ce n’è alla Bastie, e in che posto? Come fare per averla?...”.
Ecco ora il secondo documento. E’ una lettera della marchesa d’Urfé all’autore dell’Astrea, morto nel 162511: “Sono ora del tutto sicuro, Signore, che tutte le mie ricerche non sono state inutili, poiché ho il piacere di apprendere che siete ancora tra i vivi. Cosa devo fare per avere il piacere di vedervi e fare in modo di meritare la vostra amicizia, che mi è più preziosa della stessa vita. I monumenti che voi avete lasciato in Foresta mi hanno sempre fatto sperare che forse avrei un giorno avuto la fortuna di rivedere l’illustre fondatore di Bonlieu e il creatore del castello della Bastie, o l’autore del famoso romanzo Astrea. Voi sapete scrutare il fondo dei cuori. Come sarei felice se trovaste in me le attitudini richieste per appartenere alla sublime società dei saggi, a cui aspiro da così tanto tempo. Voi non ignorate tutte le mie sventure. Voi sapete che l’attaccamento e il rispetto che ho sempre avuto per il vostro sangue illustre ne è stata la maggior causa, perdendo in esse tutto ciò che doveva trattenermi alla vita. Venite, Signore, riparate tutte le mie perdite facendomi da padre (mi sia permesso chiamarvi con questo dolce nome), e degnatevi di illuminare una che sacrificherebbe tutto per la felicità di trascorrere i suoi giorni presso di voi. Accoglietemi come il figliol prodigo. Dimenticate tutte le mie mancanze, causate solo dal desiderio di apprendere la vera scienza. Voi conoscete la critica situazione in cui oggi mi dibatto. Degnatevi di onorarmi dei vostri consigli e non temiate che colei che ha l’onore di portare il vostro nome venga ingannata e scambi il nero col bianco, e che ciò che deve condurre alla felicità suprema avvicinandoci all’Onnipotente sia uno scoglio funesto per la virtù. Voglio sperare che non mi rifiuterete questa grazia e quella di adottarmi come vostra figlia e considerarmi come la più docile delle vostre schiave”.
Da Storia della mia vita di Giacomo Casanova, riporto ora alcuni passi sulla marchesa Jeanne d’Urfé. Da notare la menzione del saluto “rosacruciano”, una chiara allusione alle pratiche di magia sessuale che i Rosacruciani praticavano; nonché il chiaro accenno al “suicidio” magico per passare nel corpo di un altra persona, che la marchesa Jeanne d’Urfé chiamava Magia dell’Ipostasi. Risulta però che Casanova ha scritto alludendo (e anche mentendo12), senza entrare con chiarezza nei particolari dei suoi rapporti esoterici e delle pratiche di magia sessuale. Casanova ha seminato degli indizi, però: quando fa dire alla marchesa d’Urfè che il suo genio, dal quale è rimasta incinta, si chiamava Ormesius. In realtà non esiste nessun genio chiamato con tale nome. Ormesius – quando non sia una corruzione del già citato Oromasis - pare che sia una figura mitica “inventata” dal barone svedese de Westerode, che faceva parte della Rosa Croce d’Oro, e che Casanova simboleggia nella figura di Querilinte13, alias adepto Federico Gualdo, che nelle Memorie fu il pittore di immaginette oscene Giacomo Passano. Questo barone de Westerode, iniziatore di un Ordine dei Filaleti, operava a Parigi proprio in quegli anni... Si può pensare che Casanova, il quale era mosso in ogni sua azione dal bisogno di soddisfare la bramosia sessuale, non fosse entrato in contatto con i cultori della magia sessuale?
“Ho una zia, conosciutissima per la sua competenza in tutte le scienze astratte, ottima alchimista, donna intelligente e ricchissima, unica padrona dei suoi averi, la cui conoscenza potrebbe esservi utile. Muore dalla voglia di incontrarvi, perché sostiene di conoscervi e che voi non siete come si crede a Parigi. Mi ha supplicato di condurvi a pranzo da lei; spero che non avrete niente in contrario. Mia zia è la marchesa d’Urfé”. Io non la conoscevo, ma il nome d’Urfé mi fece subito effetto, poiché conoscevo la storia del famoso Anne d’Urfé fiorito alla fine del XVI secolo. Quella dama era vedova di un suo pronipote; pensavo che, entrando a far parte della famiglia, poteva benissimo avere assorbito tutte le sublimi dottrine di una scienza che mi interessava molto, anche se la ritenevo chimerica. Risposi dunque a La Tour d’Auvergne che sarei andato con lui da sua zia quando voleva, ma non a pranzo, salvo che fossimo noi tre soli. (…) Fui puntuale all’appuntamento. Madame d’Urfé abitava sul Quai dei Teatini a fianco del palazzo di Bouillon. Era una bella donna, quantunque vecchia; mi accolse molto dignitosamente con la finezza dell’antica corte dei tempi della Reggenza. Per un paio d’ore conversammo di cose futili, per studiarci a vicenda, come per un tacito accordo. Ambedue volevamo far chiacchierare l’altro. Io non duravo fatica a fare l’ignorante, poiché lo ero. Madame d’Urfé faceva mostra soltanto di essere curiosa, ma si vedeva bene che non vedeva l’ora di sfoggiare la sua sapienza. Alle due servirono a noi tre il medesimo pranzo che gli altri giorni servivano a dodici persone. Dopo mangiato La Tour d’Auvergne ci salutò per andare a trovare il principe Turenne che aveva lasciato la mattina con una forte febbre; allora la dama cominciò a parlarmi di chimica, alchimia, magia e di tutto quello che era oggetto della sua mania. Quando il discorso arrivò alla grande opera e io ebbi l’ingenuità di chiederle se conosceva la materia prima, non si mise a ridere per educazione, ma fece un grazioso sorriso e mi disse di possedere già la cosiddetta pietra filosofale e di essere abbastanza esperta in tutte le grandi operazioni. Mi mostrò la sua biblioteca, che era appartenuta al grande d’Urfé e a Renata di Savoia, sua moglie, e che aveva arricchito di manoscritti che le erano costati più di cento-mila franchi. Suo autore preferito era Paracelso che, secondo lei, non era ne uomo ne donna, che aveva avuto la sventura di avvelenarsi con una dose troppo forte di medicina universale. Mi fece vedere un piccolo manoscritto ove il procedimento della grande opera era spiegato molto chiaramente in francese. Mi disse che non lo teneva chiuso con cento serrature, perché era cifrato e lei era l’unica a conoscerne la chiave. “Dunque, signora, non credete alla steganografìa?” “No, signore, e se vi fa piacere eccone una copia: ve la regalo”. L’accettai e me la misi in tasca. Dalla biblioteca passammo nel suo laboratorio che mi impressionò veramente. Mi mostrò una sostanza che da quindici anni teneva sul fuoco e che doveva restarci ancora per quattro o cinque anni. Era una polvere di proiezione, che doveva servire a mutare in un minuto qualsiasi metallo in oro. Mi indicò un tubo attraverso il quale, per forza di gravita, scendeva il carbone che manteneva il fuoco del fornello sempre alla stessa temperatura, cosicché succedeva talvolta che non entrasse nel laboratorio anche per tre mesi senza rischiare di trovare il fuoco spento. Un piccolo condotto di sotto convogliava le ceneri. Per lei la calcinazione del mercurio era un gioco da ragazzi; me ne mostrò un poco calcinato, dicendomi che quando ne avessi avuto voglia mi avrebbe mo-strato il procedimento. Mi fece vedere l’albero di Diana del famoso Taliamed di cui era allieva. Taliamed, come è risaputo, era il sapiente Maillet, che secondo Madame d’Urfé non era morto a Marsiglia come aveva fatto credere l’abate Le Maserier, ma era ancora vivo; e con un lieve sorriso mi disse che riceveva spesso sue lettere. Se il Reggente di Francia gli avesse dato retta, sarebbe vivo anche lui. Aggiunse che il Reggente era stato il suo primo amico e che era stato lui a darle il soprannome di Egeria e a farla sposare con il marchese d’Urfé. Possedeva anche un commento di Raimondo Lullo che rendeva chiaro tutto ciò che Arnaldo di Villanova aveva scritto dopo Ruggero Bacone e Geber, che, secondo lei, non erano morti. Questo prezioso manoscritto era in un cofano d’avorio, di cui lei custodiva la chiave, anche se il suo laboratorio era chiuso a tutti. Mi mostrò un barile pieno di platino del Pinto che poteva convertire in oro quando voleva. Glielo aveva regalato Mister Wood nel 1743. Mi fece vedere il medesimo platino in quattro vasi diversi: in tre di essi era rimasto intatto nell’acido solforico, nitrico e sodico, ma nel quarto, dove lei aveva versato acqua regia non aveva resistito e si era disciolto. Lo fondeva con lo specchio ustorio perché, mi disse, era il solo metallo che non si poteva fondere altrimenti, e ciò, secondo lei, dimostrava che era superiore all’oro. Me lo fece anche vedere precipitato con il sale ammonico, con il quale non si è mai riusciti a precipitare l’oro. Aveva un athanor che funzionava da quindici anni. Vidi che era pieno di carboni neri, e ne arguii che essa l’aveva usato un paio di giorni prima. Tornando al suo albero di Diana le domandai rispettosamente se conveniva con me che era un gioco per divertire i bambini. Mi rispose dignitosamente che anche lei lo aveva fatto per divertimento con argento, mercurio e spirito di nitro cristallizzati insieme e che lo considerava come una vegetazione metallica che mostrava in piccolo quello che la natura poteva fare in grande; ma aggiunse che era in grado di fare da un albero di Diana, un vero albero del sole, che avrebbe prodotto frutti d’oro da raccogliere e che avrebbe continuato a produrre fino a che non fosse finito un ingrediente che lei avrebbe mescolato ai sei lebbrosi in proporzione alla loro quantità. Le osservai sommessamente che non lo credevo possibile senza la polvere di proiezione. La d’Urfé mi rispose semplicemente con un grazioso sorriso. Prese una scodella di porcellana, dove c’era del nitro, del mercurio e dello zolfo e un piattino con un sale fisso. “Suppongo”, mi disse la marchesa, “che conosciate questi ingredienti”. “Li conosco”, le risposi, “se questo sale fisso è d’urina”. “È così”. “Ammiro il vostro intuito, signora. Avete ben analizzato il miscuglio con il quale ho dipinto il pentacolo sulla coscia di vostro nipote; ma non c’è tartaro che possa rivelarvi le parole che danno il potere al pentacolo”. “Non c’è bisogno di un tartaro per questo; in un manoscritto di un adepto che tengo in camera mia, e che vi farò vedere, c’è scritta la formula”. Non replicai e insieme uscimmo dal laboratorio. Appena entrati nella camera, trasse da un cofano un libro nero che pose su un tavolo e si volse per cercare del fosforo. Mentre cercava aprii il libro dietro di lei e vidi che era pieno di pentacoli e il caso volle che trovassi lo stesso segno che avevo dipinto sulla coscia di suo nipote, circondato dai nomi dei Geni dei pianeti, eccetto quelli di Saturno e di Marte. Chiusi il libro alla svelta. I Geni erano gli stessi di Agrippa che conoscevo bene. Facendo finta di nulla mi avvicinai a lei che aveva appena trovato il fosforo: quando lo vidi mi sorpresi, ma di questo parlerò dopo. La dama si sedette sul canapè, mi fece sedere vicino a lei e mi domandò se conoscevo il talismano del conte di Trèves. “Non ne ho mai sentito parlare, ma conosco quello di Polifilo”. “Sembra che siano uguali”. “Non credo”. “Lo sapremo subito: scrivete le parole che avete pronunciato dipingendo il pentacolo sulla coscia di mio nipote. Si tratterà dello stesso libro se troverò su questo qui le stesse parole intorno al medesimo talismano”. “Sarebbe una prova, ne convengo. Vi scriverò le parole” E scrissi i nomi dei Geni; la signora trovò il pentacolo, mi lesse i nomi e io tingendomi stupito, le consegnai il mio foglio ove lei lesse con la più grande soddisfazione gli stessi nomi. “Lo vedete”, osservò, “che Polifìlo e il conte di Trèves possedevano la stessa scienza”. “Lo ammetterò signora, se nel vostro libro c’è il metodo per pronunciare i nomi ineffabili. Conoscete la teoria delle ore planetarie?” “Credo di sì, ma per questa operazione non è necessaria” “Scusatemi: ho disegnato il pentacolo di Salomone sulla coscia di La Tour d’Auvergne all’ ora di Venere, e se non avessi cominciato con Anael, genio di quel pianeta, la mia operazione non sarebbe riuscita» «Questo non lo sapevo. E dopo Anael”? “Si deve passare a Mercurio, da Mercurio alla Luna, dalla Luna a Giove da Giove al Sole. Come vedete è il ciclo magico secondo il sistema di Zoroastro; salto solo Saturno e Marte che la scienza esclude da questa operazione” “se, per esempio, aveste operato all’ora della Luna”. “Allora sarei passato a Giove, poi al Sole, poi ad Anael, cioè a Venere e avrei concluso con Mercurio. “Senza di questo signora, non si può far nulla in magia, perché non si ha il tempo di far calcoli; ma non è una cosa difficile. Un esercizio di un mese basta a far prendere pratica a qualunque aspirante. Quello che è più difficoltoso è il culto, perche è complicato; ma alla fine ci si riesce. (…)”. “Può darsi che domani vi metta in condizione di non esitare più” II giuramento era quello dei Rosacroce, che non ci si scambia mai senza conoscersi bene prima. Perciò Madame d’Urfé aveva e doveva avere timore di commettere una indiscrezione e io, da parte mia, dovevo mostrare di avere lo stesso timore. Pensai che era opportuno guadagnare tempo, ma sapevo come si fa quel giuramento. Tra uomini non è indecente scambiarselo, ma una donna come la signora d’Urfé doveva avere una certa riluttanza a farlo a un uomo che aveva conosciuto per la prima volta quel giorno. “Il giuramento che leggiamo nelle nostre sacre Scritture”, disse, “è camuffato. “Giurò”, dice il santo Libro, “mettendogli la mano sulla coscia”. Ma non si tratta della coscia. Perciò non succede mai che un uomo presti giuramento a una donna in quel modo, perché la donna non possiede il verbo. (…) Secondo lei, non soltanto possedevo la pietra filosofale, ma potevo anche parlare con tutti gli spiriti elementari. Di conseguenza credeva che fossi in grado di sconvolgere il mondo intero, di fare la fortuna o la rovina della Francia, e attribuiva la mia necessità di tenermi nascosto al fondato timore di essere arrestato e rinchiuso; pensava infatti che ciò sarebbe inevitabilmente successo se il ministero ne fosse venuto a conoscenza. Queste idee stravaganti provenivano dalle rivelazioni notturne del suo Genio che la sua fantasia esaltata le faceva sembrare reali. Raccontandomi queste cose con l’ingenuità più assoluta, un giorno giunse a dirmi che il suo Genio l’aveva convinta che essendo lei una donna io non avrei potuto ottenerle un colloquio con i Geni, ma che avrei potuto, con un procedimento che sicuramente conoscevo, far passare il suo spirito nel corpo di un fanciullo maschio, nato dall’accoppiamento fìlosofico di un immortale con una mortale, o di un mortale con un essere femminile di natura divina. Assecondando le folli idee della dama, non mi pareva di ingannarla, perché ormai le cose stavano così, e non mi era possibile farle cambiare parere. Se da uomo veramente onesto, le avessi detto che tutte le sue convinzioni erano delle assurdità, non mi avrebbe creduto; e così decisi di lasciarmi andare. Potevo solo divertirmi, continuando a farmi credere il più grande di tutti i Rosacroce e il più potente degli uomini da una signora legata alle maggiori case di Francia e che, fra l’altro, era ricca più per i suoi contanti che per le ottantamila lire di rendita provenienti dalle sue terre e dalle case che possedeva a Parigi. Era chiaro che, in caso di bisogno, non mi avrebbe rifiutato nulla e, sebbene non avessi formulato alcun progetto per impadronirmi di una parte o di tutte le sue ricchezze, non mi sentii tuttavia di rinunciare al potere raggiunto. Madame d’Urfé era avara. Spendeva appena trentamila lire all’anno, e investiva in Borsa i suoi risparmi che si raddoppiavano. Un agente di cambio le procurava i titoli reali quando erano al prezzo più basso, e glieli faceva vendere quando erano in rialzo. Così aveva aumentato considerevolmente il sue contante. Più volte mi aveva detto che sarebbe stata disposta a dare tutto quello che aveva per diventare un uomo e che sapeva che ciò dipendeva solo da me...”.

Basi spirituali dell'idea imperiale nipponica

In occasione sia della precedente che della nuova intesa fra Italia, Germania e Giappone non si è mancato di sottolineare gli interessi politici comuni che ne sono stati il presupposto: tuttavia quasi nessuno ha pensato di passare all'ordine della visione del mondo, della spiritualità, dei principi tradizionali, per vedere fino a che punto in tale sede si possa parimenti constatare una certa convergenza. Tale assunto, anzi, ai più sembrerebbe assurdo. Il Giappone dai più vien considerato un altro mondo, che alla nostra mentalità resterà sempre chiuso. Si crede che il suo Stato e la sua tradizione siano effetto di una mentalità, che nessun ponte ricongiunge a quella dell'uomo occidentale. Ciò, in buona misura, è errato. Una tale opinione può esser vera solo dal punto di vista empiristico, vale a dire dal punto di vista di chi crede che nulla esiste di là da quel che è condizionato dall'elemento naturalistico, geografico, etnico, razzista in senso stretto. Senonché, dovunque esista una civiltà «tradizionale», nel senso più alto di questo termine, vige sempre qualcosa di superiore a tutto ciò, qualcosa di potenzialmente universale, che nelle diversità lascia vedere sole le espressioni varie di un contenuto unico. Ora, il Giappone è una fra le civiltà più tradizionali che ancora esistono. E se una incomprensione reale esiste fra alcune civiltà occidentali e quella giapponese, la causa non procede tanto dalla diversa razza, quanto dal fatto, che le prime - le civiltà occidentali -si trovano fuori dalla tradizione, sono cioè il prodotto di uno spirito «profano» e antitradizionale, cosa che le oppone non solo alle civiltà orientali, ma anche ad ogni normale e più alta civiltà del nostro stesso passato occidentale.

È d' uopo infatti risconoscere che, sia pure nelle forme adatte ad una diversa razza e a un diverso ambiente, il Giappone a tutt'oggi difende fermamente dei valori, che l'Occidente, nelle contingenze della sua storia, ha perduto e che esso solo in futuri sviluppi delle sue rivoluzioni rico-struttrici potrà sperare di riconquistare. E su questo terreno può ben esistere una convergenza. Nel suo rappresentare una aperta sfida contro ogni ideologia politica «evoluta» e «moderna», nel tener fermo, anche nell'ordine politico e statale, a significati trascendenti e antisecolari, un certo Giappone può valerci come una specie di reattivo, può aiutarci a superare dei compromessi imposti dalla necessità, può spronare il nostro coraggio spirituale e indicarci nuove linee di vetta. È a questa stregua che qui non crediamo inutile far cenno all'idea politica giapponese, dai più solo superficialmente conosciuta.

L'ideale politico-nazionale del Giappone - Ymato tamashii - si riassume nella tradizione imperiale, come tradizione «divina». «Seguendo il comando, scenderò dal cielo» - dice nel Ko-gi-ki, testo principale della tradizione nipponica, il capostipite dei sovrani del Giappone. Questi sovrani non sono considerati come esseri umani. Essi fanno tutt'uno con la dea solare Amaterasu-o-mi-kami, sulla base di una arcaica e ininterrotta tradizione dinastico-spirituale - anche storicamente, la dinastia nipponica ha una continuità di oltre duemila anni. Qui l'atto di governare e di dominare fa tutt'uno col culto - è simultaneamente un rito, un atto religioso: il termine matsurigoto significa sia governo in senso stretto, cioè come potere temporale, sia culto, «esercizio delle cose religiose», anfibologia, questa, che è piena di significato, perché ci rimanda a quella sintesi inscindibile fra autorità spirituale e potere temporale in una sola persona, che fu propria a tutte le civiltà tradizionali primordiali, Roma compresa.

Per tal via, il Giappone è l'unico Stato contemporaneo che si trovi nella felice condizione di ignorare il problema di una conciliazione fra l'idea nazionale e razzista e quella religiosa. Qui la religione è politica e la politica è religione. La religione giapponese, lo Shintoismo, ha come caposaldo il ciù-ghi, cioè la fedeltà assoluta all'imperatore - esatto equivalente di quel che fu lafìdes nel Medioevo ghibellino romano-germanico e, in una certa misura, anche nell'antica Roma. Nella fedeltà di fronte allo Stato si risolve anche il dovere religioso, perché lo Stato qui non è una creazione umana, ma ha base divina e per centro un essere, che è più che uomo, anche se - come i testi avvertono - esso non ha il carattere di un Dio assoluto di tipo monoteistico.

Tale essendo l'unico punto di riferimento per la stessa religiosità del singolo, ne segue anche, che ogni virtù o atto di quella vita individuale o collettiva, che nell'Occidente moderno viene considerata come mera realtà temporale, finisce col giustificarsi in termini difides, di trascendente fedeltà al Capo: ciù-ghi. Fedeltà e lealtà, in Giappone, sono dunque concetti che non solo valgono nell'ambito guerriero e cavalieresco, ma riprendono il rispetto per i genitori, la solidarietà fra parenti o amici, la pratica delle virtù, il rispetto delle leggi, l'armonia fra i coniugi col giusto rapporto gerarchico fra i sessi, la produttività nel campo dell'industria e dell'economia, il lavoro e lo studio, il compito di formare il proprio carattere, la difesa del sangue e della razza. Tutto ciò è «fedeltà» e, in ultima istanza, fedeltà di fronte al Sovrano. Ogni atto antisociale, immorale, criminoso, su tale base, non significa la trasgressione di una norma astratta, di una legge «sociale» più o meno anodina o convenzionale, bensì tradimento, slealtà, ignominia paragonabile a quello che ricade su di un guerriero che diserta il suo posto o tradisce l'impegno da lui virilmente contratto col suo capo. Non vi sono dunque dei «colpevoli», ma piuttosto dei «traditori», degli esseri incapaci di onore.

Ora, è interessante rilevare che una veduta del genere, ancor viva in Giappone e riflettente quel che ogni altra civiltà tradizionale, d'Oriente e d'Occidente, originariamente conobbe, ma poi perdette, già si riaffaccia nel fascismo e nel nazionalsocialismo: anche in questi movimenti si tende sempre più a dare una base etica e virile, quindi antipositivistica, alla nozione di diritto, di dovere sociale ed altresì di imputabilità e di responsabilità, anche se, a differenza del Giappone, qui non è presente il supremo, religioso punto di riferimento, costituito, nella tradizione giapponese, dal carattere in un certo modo supernaturale della funzione imperiale.

Questo carattere lo stesso sovrano giapponese lo possiede, oltre che per la sua discendenza considerata non-umana e, come si è accennato, retrocedente fino ad epoche preistoriche, anche per la via del «triplice tesoro» - sam-shu no-shin-ghi - emblema del potere divino: specchio, perla e spada. Non vi è cerimonia di incoronazione e di investitura in Giappone: il nuovo Sovrano diviene tale in quanto assume il triplice tesoro, che ne contrassegna e suggella il diritto dall'alto. Le tradizioni a ciò riferentesi sono così antiche, che spesso il loro significato originario nello stesso Giappone non sussiste che in forma frammentaria e velata. Che si deve propriamente pensare, ad esempio, del rapporto esistente fra il sovrano e la divinità femminile del Sole? Non è agevole trattare, in questa sede, di un tale problema, del resto, da noi già altrove considerato. Accenneremo solo, che qui il Sole fisico vale naturalmente solo come il simbolo sensibile per una realtà spirituale, per una forza di trascendente «solarità». Il fatto, poi, che questa forza sia concepita come femminile è probabilmente da spiegarsi come molti miti eroici, ove simboliche donne, regine o donne divine hanno una parte rilevante e sono esse che introducono degli esseri particolarmente dotati e provati alla funzione regale. Per mezzo di questo simbolismo, si vuole esprimere che anche rispetto alla forza spirituale, celeste e «solare» il sovrano, nell'assumerla, del mantenersi «uomo», deve cioè conservare la qualità affermativa e supremamente reale che, in ogni rapporto normale, l'uomo ha di fronte alla donna. È, insomma, l'opposto dell'atteggiamento semitico di servilismo di fronte al divino.

Il rapporto di «identità», del resto, è sottolineato dal primo oggetto del triplice tesoro imperiale, dallo specchio, che vien chiamato kaga-mi-me-mitamo, cioè augusto spirito. In esso, come in una magica «presenza», è la forza «solare». Come tale, lo specchio invita il sovrano a riconoscervi la sua vera immagine, cioè a tener sempre presente la sua identità con la forza solare.

Circa il secondo simbolo, la spada, vi sono da considerare due aspetti. Il primo, exoterico, corrisponde più o meno al significato che la spada ha avuto dovunque, come emblema del potere temporale. Nel Giappone vi è, in più, un riferimento alla capacità di discriminare il bene dal male, il reale dall'irreale, tanto da poter essere un giusto giudice in terra. Senonché il secondo aspetto del simbolismo in quistione - aspetto più segreto, esoterico - va a dare a tale capacità una specie di fondamento metafisico. Il mito vuole infatti che la spada fosse originariamente brandita per «uccidere il drago dalle otto teste» dal fratello della dea solare. Non essendo possibile trattar qui il simbolismo di questa impresa e del numero «otto» che vi ricorre, diremo solo che, di nuovo, vi è un riferimento ad un compimento sovrannaturale, presupponente la distruzione di influenze inferiori, «tel-luriche», nei vari piani dell'esistenza condizionata.

Quanto al simbolo della pietra, o perla di pietra, (ama, esso, dal punto di vista più esteriore, rimanda al buddhismo, che conosce la mistica perla della «compassione», nel senso più alto di comprensione, di sentimento umano, di grandezza ed apertura d'animo - in sanscrito mahatma. Ma la parola giapponese fama vuoi anche dire «anima» o «nume» e il simbolismo della «pietra celeste» ci porta effettivamente assai lontano nei tempi. Lo stesso Graal nel testo di Wolfram von Eschenbach appare come una pietra divina o celeste - lapis ex coelo - strettamente connessa all'idea di un regno trascendente, mentre l'antica tradizione inglese conosce la cosi-detta «pietra del destino» - Ha fai! - che da tempi preistorici ha parte nella consacrazione dei re legittimi. Riferimenti del genere potrebbero esser facilmente moltiplicati. In genere, una pietra sacra appare dovunque si stabilì il centro di una organizzazione «tradizionale» in senso superiore, cioè quasi nel senso di un «centro del mondo». Si può ricordare lo stesso omphalos di Delfo e perfino l'allegoria pontificale di Pietro come «pietra» nei Vangeli.

Come si è detto, la natura trascendente della sovranità, controsegnata da questi simboli del triplice tesoro, costituisce il caposaldo di tutta la dottrina nipponica dell'Impero e vale ancor oggi come dogma. Queste parole appartengono al commento del principe Hakabon Ito alla costituzione giapponese: «Il sacro trono fu creato quando la terra si separò dal ciclo (cioè: come una specie di surrogato al decadere di una unità primordiale esistente fra il terrestre e il divino). Il sovrano discende dal ciclo ed è divino e sacro». Nel testo ufficiale Kokutai no honghi edito recentemente (1937) dal Ministero nipponico della Educazione nazionale si ritrova la stessa idea, con una formulazione ancor più radicale - riportiamo alcuni punti, nella traduzione del Marenga: «I sovrani del Giappone discendono da una dèa solare. Il Giappone fu sempre governato da un'unica dinastia. Esso è un paese unico al mondo, senza simili. La dea è presente nello specchio imperiale del tempio di Ise. I tre simboli del potere sono stati consegnati dalla dèa. Il governo dell'impero è cosa divina. I sovrani sono divinità visibili. Essi sono differenti da quelli di qualsiasi nazione, perché non sono eletti dal popolo. L'atto di governare la nazione è identico a quello di rendere omaggio agli dèi secondo il rito shintoistico. Il sovrano è il popolo: sono la stessa cosa. La lealtà verso il sovrano è la base di ogni morale». Tutto ciò è ideologia ufficiale di Stato, è base dello specifico sentimento nazionale, è fondamento degli ideali e delle virtù di ogni giapponese, è l'arma con la quale si combatte il materialismo, l'individualismo, il collettivismo e soprattutto il bolscevismo, considerato giustamente come l'estrema antitesi di una tale idea politica, è la molla profonda di ogni atto eroico e di ogni sacrificio, è la fede, l'anima della razza Yamato. Nel 1935 il prof. Minobe si mise a capo di un tentativo di riforma «illuminata», cercando di far del trono un semplice organo del governo e quindi di «costituzionalizzare» e «positivizzare» l'istituto monarchico. Esso scatenò la reazione più violenta dell'anima giapponese e soprattutto dell'esercito. La natura e l'origine divina del sovrano vennero di nuovo solennemente affermate.

Il principio, che il sovrano è il popolo, ha una base quasi razzista. La dinastia viene considerata come il ceppo originario dal quale scaturirono o derivarono le principali casate della razza giapponese. Così la nazione viene concepita come un'unica grande famiglia o gens nel senso antico: un mito, questo, che cementa lo stesso orgoglio e la stessa solidarietà che oggi, da noi, il razzismo cerca di suscitare, mentre va a dare al lealismo giapponese una sfumatura quasi patriarcale. La lealtà, su tale base, è anche pietas, non è cosa che si esaurisce nell'atto libero del singolo, è un dovere del sangue. Naturalmente, questo sentimento è massimamente vivo fra gli elementi più prossimi all'apice imperiale, cioè nei bushi o samurai, i quali costituiscono la casta guerriera e feudale, concepita come il fiore della società giapponese come lo vuole l'antico proverbio: «Ciò che il ciliegio è fra le fioriture, tale è il bushi fra gli uomini». L'organizzazione dei samurai o bushi in una vera e propria casta, in cui si riflettono esattamente i tratti, fra l'ascetico e l'eroico, dei nostri antichi ordini cavaliereschi, risale a circa mille e cinquecento anni fa. La dottrina che ad essi fa da anima e da legge, il bushido, è però assai più antica, si armonizza con l'idea stessa dello Stato nipponico e, base di precise norme etiche, sociali, spirituali e perfino biologiche, è stata fedelmente tramandata da generazione a generazione, fino ai nostri giorni. E questa casta è la gelosa custode della tradizione: tanto essa è fedele fino alla morte al sovrano, altrettanto lo è al dogma della regalità divina, che, oggi come secoli fa, essa è pronta a difendere contro ogni profanazione e laicizzazione.

La dottrina del bushido, come quella dell'antica cavalleria occidentale, non concerne il solo mestiere delle armi (onde sarebbe erroneo considerare i samurai come una semplice «casta militare»), ma riguarda l'intero tenore di vita: è un modo d'essere che, essenzialmente, ad essa corrisponde, una razza dello spirito, di là da quella del sangue. A parte la norma suprema del lealismo, più forte di vita e di morte, nel bushido è compresa anche la formazione guerriera, ma in un senso speciale, poco accessibile alla mentalità europea contemporanea, che confonde volentieri il guerriero col militare e sempre vi unisce l'idea di qualcosa di duro, di rigido, di chiuso. Alla «via del bushi» è invece essenziale anche una interiorizzazione dell'eroismo e della forza, la vittoria sulla propria natura, cosa fondamentale per la «finezza», la nobiltà, lo «stile» e la «bellezza» così come tutto ciò viene concepito in Giappone. Il bushi, quindi, viene anche addestrato tradizionalmente al dominio dei propri pensieri, dei propri sentimenti, della propria impulsività e passionalità: ad un ascetismo sui generis. Peraltro, ancor oggi al bushido non sono estranee le pratiche e le discipline dello Zen, che è una delle scuole più «esoteriche» del buddhismo, avente in proprio metodi di controllo e di risveglio di energie umane profonde, che già confinano con l'occulto, mentre sempre vi si sottolinea l'esigenza, che ogni realizzazione materiale - quelle per esempio del mestiere delle armi e della stessa lotta giapponese, ju-jùtzu - sia intesa come simbolo e base per una realizzazione spirituale. E come da un lato vi è la più rigida legge di onore, la cura scrupolosa di evitare che la più lieve macchia adombri la famiglia a cui il samurai appartiene, dall'altra vi è l'ideale diuna forza sottile, inflessibile e inafferrabile di dominio, che rifugge da qualsiasi esibizione coreografica e narcisistica, da qualsiasi vanità, e richiama le dottrine di Laotze circa quell'azione, che non è azione materiale, wei-wu-wei, e che nella sua invisibilità è irresistibile.

Chi, da noi, sul serio difende l'idea di una «educazione totale», soprattutto con riferimento al problema delle future élites, non può considerare con indifferenza questi aspetti della cultura giapponese. Egli deve piuttosto riconoscere che l'Occidente, già da secoli, con la scusa di dominare la natura e la materia, ha quasi interamente abbandonato il compito del dominio di se stessi; che in Occidente spesso sussistono dei gravi equivoci circa quel che veramente significhi la virilità, unilateralmente confusa con le forme più grezze, muscolari o violentemente «volontaristiche» di essa; che, per via di circostanze disgraziate, l'ascesi che soprattutto è stata conosciuta in Occidente è quella di tipo religioso, rinunciatario, contemplativo, non quella, che può integrare, potenziare e trasfigurare una vocazione guerriera e un'etica aristocratica. Nel punto in cui s'intenda sul serio superare tutte queste limitazioni con una educazione virile veramente integrale, idee molto affini a quelle del bushido ci appariranno tutt'altro che peregrino ed estranee, ma si presenteranno invece con un particolare carattere di attualità per le avanguardie spirituali dei nostri stessi movimenti rinnovatori.

Infine, un ultimo punto. Partendo dal centro costituito dalla dinastia e irradiandosi attraverso le vene costituite dalle grandi famiglie bushi, la concezione trascendente dello Stato nipponico va a raggiungere tutti i restanti elementi della nazione e, quindi, a permeare, per gradi, l'intera società nazionale dello stesso significato. L'intero Giappone si sente dunque come il portatore di una forza divina, come una razza unica, che ha una missione universale, irreducibile ad ogni esigenza della semplice materia. Questa non è una vecchia fede superata. Fra i versi che ogni Giapponese impara nelle scuole d'oggi, fin dalla più tenera età, si trovano, p. es., i seguenti: «Il Giappone è l'unica terra divina. Il popolo giapponese è l'unico popolo divino e per questo il Giappone può esser la luce del mondo». Il noto uomo politico Yosuké Matsuoma, che rappresentò recentemente la sua patria presso alla Società delle Nazioni, ebbe ad esprimersi come segue: «Sono convinto che la missione della razza Yamato (cioè di quella nipponica) sia di proteggere la razza umana dagli inferni, di salvaguardarla dalla distruzione e di condurla verso un mondo di chiarezza».

Qui ci troviamo naturalmente di fronte ad un «mito», cioè dinanzi ad una idea-forza, intesa a creare un'alta tensione spirituale in un popolo. Come Rudolf Walter (3) ebbe a rilevare riferendo analoghe espressioni, la nozione di un «popolo eletto» e quella di una missione supernazionale, in realtà, sono ben lungi dal costituire un patrimonio soltanto giapponese: si manifestò fatalmente lo stesso sentimento dovunque una gente fu pervasa da una tensione metafisica e compenetrata dal senso, che, dietro alle forze umane ad essa proprie, agiscono anche delle forze dall'alto. Si tratta così di una fede, che anche le genti arie ebbero in proprio e, volendo trovare in Occidente per essa un equivalente non meno augusto di quello nipponico per vetustà, non vi è che da ricordare il simbolo romano, la fede secolare nella aeternitas Romae e nella missione supernazionale e universale della razza di Roma.

Ora, queste corrispondenze non sono prive, oggi, di un preciso significato. Una volta separata la parte più contingente - nel suo esclusivismo -della ideologia nipponica in parola, ciò che resta come nucleo centrale è l'idea di una lotta giustificata non solo da ambizioni di potenza materiale e dalla mera ragion politica, bensì anche da una idea, da una missione, da una vocazione di dominio spirituale e, in fondo, da un punto di riferimento trascendente. Ora, è necessario che, in una forma o nell'altra, significati del genere si affermino sempre più nettamente nella lotta oggi in corso, limitando la potenza di altri miti e di altre vocazioni. Per questo, il Giappone può trovarsi con noi, e soprattutto con gli esponenti coscienti della tradizione imperiale romana, su di uno stesso fronte, non solo politico, materiale e militare, ma anche spirituale e ideale. Le differenze etniche e naturalistiche qui non possono mascherare che agli occhi dei miopi la innegabile convergenza, in tema di spirito tradizionale. Chi, da epoche remote, ha saputo conservare questo spirito può incontrarsi a combattere a lato di chi oggi cerca di riconquistarlo dopo aver superato la decadenza, la disgregazione e l'oscuramento che hanno caratterizzata la pseudo-civiltà del mondo moderno.
di Julius Evola