In occasione sia della precedente che della nuova intesa fra Italia, Germania e Giappone non si è mancato di sottolineare gli interessi politici comuni che ne sono stati il presupposto: tuttavia quasi nessuno ha pensato di passare all'ordine della visione del mondo, della spiritualità, dei principi tradizionali, per vedere fino a che punto in tale sede si possa parimenti constatare una certa convergenza. Tale assunto, anzi, ai più sembrerebbe assurdo. Il Giappone dai più vien considerato un altro mondo, che alla nostra mentalità resterà sempre chiuso. Si crede che il suo Stato e la sua tradizione siano effetto di una mentalità, che nessun ponte ricongiunge a quella dell'uomo occidentale. Ciò, in buona misura, è errato. Una tale opinione può esser vera solo dal punto di vista empiristico, vale a dire dal punto di vista di chi crede che nulla esiste di là da quel che è condizionato dall'elemento naturalistico, geografico, etnico, razzista in senso stretto. Senonché, dovunque esista una civiltà «tradizionale», nel senso più alto di questo termine, vige sempre qualcosa di superiore a tutto ciò, qualcosa di potenzialmente universale, che nelle diversità lascia vedere sole le espressioni varie di un contenuto unico. Ora, il Giappone è una fra le civiltà più tradizionali che ancora esistono. E se una incomprensione reale esiste fra alcune civiltà occidentali e quella giapponese, la causa non procede tanto dalla diversa razza, quanto dal fatto, che le prime - le civiltà occidentali -si trovano fuori dalla tradizione, sono cioè il prodotto di uno spirito «profano» e antitradizionale, cosa che le oppone non solo alle civiltà orientali, ma anche ad ogni normale e più alta civiltà del nostro stesso passato occidentale.
È d' uopo infatti risconoscere che, sia pure nelle forme adatte ad una diversa razza e a un diverso ambiente, il Giappone a tutt'oggi difende fermamente dei valori, che l'Occidente, nelle contingenze della sua storia, ha perduto e che esso solo in futuri sviluppi delle sue rivoluzioni rico-struttrici potrà sperare di riconquistare. E su questo terreno può ben esistere una convergenza. Nel suo rappresentare una aperta sfida contro ogni ideologia politica «evoluta» e «moderna», nel tener fermo, anche nell'ordine politico e statale, a significati trascendenti e antisecolari, un certo Giappone può valerci come una specie di reattivo, può aiutarci a superare dei compromessi imposti dalla necessità, può spronare il nostro coraggio spirituale e indicarci nuove linee di vetta. È a questa stregua che qui non crediamo inutile far cenno all'idea politica giapponese, dai più solo superficialmente conosciuta.
L'ideale politico-nazionale del Giappone - Ymato tamashii - si riassume nella tradizione imperiale, come tradizione «divina». «Seguendo il comando, scenderò dal cielo» - dice nel Ko-gi-ki, testo principale della tradizione nipponica, il capostipite dei sovrani del Giappone. Questi sovrani non sono considerati come esseri umani. Essi fanno tutt'uno con la dea solare Amaterasu-o-mi-kami, sulla base di una arcaica e ininterrotta tradizione dinastico-spirituale - anche storicamente, la dinastia nipponica ha una continuità di oltre duemila anni. Qui l'atto di governare e di dominare fa tutt'uno col culto - è simultaneamente un rito, un atto religioso: il termine matsurigoto significa sia governo in senso stretto, cioè come potere temporale, sia culto, «esercizio delle cose religiose», anfibologia, questa, che è piena di significato, perché ci rimanda a quella sintesi inscindibile fra autorità spirituale e potere temporale in una sola persona, che fu propria a tutte le civiltà tradizionali primordiali, Roma compresa.
Per tal via, il Giappone è l'unico Stato contemporaneo che si trovi nella felice condizione di ignorare il problema di una conciliazione fra l'idea nazionale e razzista e quella religiosa. Qui la religione è politica e la politica è religione. La religione giapponese, lo Shintoismo, ha come caposaldo il ciù-ghi, cioè la fedeltà assoluta all'imperatore - esatto equivalente di quel che fu lafìdes nel Medioevo ghibellino romano-germanico e, in una certa misura, anche nell'antica Roma. Nella fedeltà di fronte allo Stato si risolve anche il dovere religioso, perché lo Stato qui non è una creazione umana, ma ha base divina e per centro un essere, che è più che uomo, anche se - come i testi avvertono - esso non ha il carattere di un Dio assoluto di tipo monoteistico.
Tale essendo l'unico punto di riferimento per la stessa religiosità del singolo, ne segue anche, che ogni virtù o atto di quella vita individuale o collettiva, che nell'Occidente moderno viene considerata come mera realtà temporale, finisce col giustificarsi in termini difides, di trascendente fedeltà al Capo: ciù-ghi. Fedeltà e lealtà, in Giappone, sono dunque concetti che non solo valgono nell'ambito guerriero e cavalieresco, ma riprendono il rispetto per i genitori, la solidarietà fra parenti o amici, la pratica delle virtù, il rispetto delle leggi, l'armonia fra i coniugi col giusto rapporto gerarchico fra i sessi, la produttività nel campo dell'industria e dell'economia, il lavoro e lo studio, il compito di formare il proprio carattere, la difesa del sangue e della razza. Tutto ciò è «fedeltà» e, in ultima istanza, fedeltà di fronte al Sovrano. Ogni atto antisociale, immorale, criminoso, su tale base, non significa la trasgressione di una norma astratta, di una legge «sociale» più o meno anodina o convenzionale, bensì tradimento, slealtà, ignominia paragonabile a quello che ricade su di un guerriero che diserta il suo posto o tradisce l'impegno da lui virilmente contratto col suo capo. Non vi sono dunque dei «colpevoli», ma piuttosto dei «traditori», degli esseri incapaci di onore.
Ora, è interessante rilevare che una veduta del genere, ancor viva in Giappone e riflettente quel che ogni altra civiltà tradizionale, d'Oriente e d'Occidente, originariamente conobbe, ma poi perdette, già si riaffaccia nel fascismo e nel nazionalsocialismo: anche in questi movimenti si tende sempre più a dare una base etica e virile, quindi antipositivistica, alla nozione di diritto, di dovere sociale ed altresì di imputabilità e di responsabilità, anche se, a differenza del Giappone, qui non è presente il supremo, religioso punto di riferimento, costituito, nella tradizione giapponese, dal carattere in un certo modo supernaturale della funzione imperiale.
Questo carattere lo stesso sovrano giapponese lo possiede, oltre che per la sua discendenza considerata non-umana e, come si è accennato, retrocedente fino ad epoche preistoriche, anche per la via del «triplice tesoro» - sam-shu no-shin-ghi - emblema del potere divino: specchio, perla e spada. Non vi è cerimonia di incoronazione e di investitura in Giappone: il nuovo Sovrano diviene tale in quanto assume il triplice tesoro, che ne contrassegna e suggella il diritto dall'alto. Le tradizioni a ciò riferentesi sono così antiche, che spesso il loro significato originario nello stesso Giappone non sussiste che in forma frammentaria e velata. Che si deve propriamente pensare, ad esempio, del rapporto esistente fra il sovrano e la divinità femminile del Sole? Non è agevole trattare, in questa sede, di un tale problema, del resto, da noi già altrove considerato. Accenneremo solo, che qui il Sole fisico vale naturalmente solo come il simbolo sensibile per una realtà spirituale, per una forza di trascendente «solarità». Il fatto, poi, che questa forza sia concepita come femminile è probabilmente da spiegarsi come molti miti eroici, ove simboliche donne, regine o donne divine hanno una parte rilevante e sono esse che introducono degli esseri particolarmente dotati e provati alla funzione regale. Per mezzo di questo simbolismo, si vuole esprimere che anche rispetto alla forza spirituale, celeste e «solare» il sovrano, nell'assumerla, del mantenersi «uomo», deve cioè conservare la qualità affermativa e supremamente reale che, in ogni rapporto normale, l'uomo ha di fronte alla donna. È, insomma, l'opposto dell'atteggiamento semitico di servilismo di fronte al divino.
Il rapporto di «identità», del resto, è sottolineato dal primo oggetto del triplice tesoro imperiale, dallo specchio, che vien chiamato kaga-mi-me-mitamo, cioè augusto spirito. In esso, come in una magica «presenza», è la forza «solare». Come tale, lo specchio invita il sovrano a riconoscervi la sua vera immagine, cioè a tener sempre presente la sua identità con la forza solare.
Circa il secondo simbolo, la spada, vi sono da considerare due aspetti. Il primo, exoterico, corrisponde più o meno al significato che la spada ha avuto dovunque, come emblema del potere temporale. Nel Giappone vi è, in più, un riferimento alla capacità di discriminare il bene dal male, il reale dall'irreale, tanto da poter essere un giusto giudice in terra. Senonché il secondo aspetto del simbolismo in quistione - aspetto più segreto, esoterico - va a dare a tale capacità una specie di fondamento metafisico. Il mito vuole infatti che la spada fosse originariamente brandita per «uccidere il drago dalle otto teste» dal fratello della dea solare. Non essendo possibile trattar qui il simbolismo di questa impresa e del numero «otto» che vi ricorre, diremo solo che, di nuovo, vi è un riferimento ad un compimento sovrannaturale, presupponente la distruzione di influenze inferiori, «tel-luriche», nei vari piani dell'esistenza condizionata.
Quanto al simbolo della pietra, o perla di pietra, (ama, esso, dal punto di vista più esteriore, rimanda al buddhismo, che conosce la mistica perla della «compassione», nel senso più alto di comprensione, di sentimento umano, di grandezza ed apertura d'animo - in sanscrito mahatma. Ma la parola giapponese fama vuoi anche dire «anima» o «nume» e il simbolismo della «pietra celeste» ci porta effettivamente assai lontano nei tempi. Lo stesso Graal nel testo di Wolfram von Eschenbach appare come una pietra divina o celeste - lapis ex coelo - strettamente connessa all'idea di un regno trascendente, mentre l'antica tradizione inglese conosce la cosi-detta «pietra del destino» - Ha fai! - che da tempi preistorici ha parte nella consacrazione dei re legittimi. Riferimenti del genere potrebbero esser facilmente moltiplicati. In genere, una pietra sacra appare dovunque si stabilì il centro di una organizzazione «tradizionale» in senso superiore, cioè quasi nel senso di un «centro del mondo». Si può ricordare lo stesso omphalos di Delfo e perfino l'allegoria pontificale di Pietro come «pietra» nei Vangeli.
Come si è detto, la natura trascendente della sovranità, controsegnata da questi simboli del triplice tesoro, costituisce il caposaldo di tutta la dottrina nipponica dell'Impero e vale ancor oggi come dogma. Queste parole appartengono al commento del principe Hakabon Ito alla costituzione giapponese: «Il sacro trono fu creato quando la terra si separò dal ciclo (cioè: come una specie di surrogato al decadere di una unità primordiale esistente fra il terrestre e il divino). Il sovrano discende dal ciclo ed è divino e sacro». Nel testo ufficiale Kokutai no honghi edito recentemente (1937) dal Ministero nipponico della Educazione nazionale si ritrova la stessa idea, con una formulazione ancor più radicale - riportiamo alcuni punti, nella traduzione del Marenga: «I sovrani del Giappone discendono da una dèa solare. Il Giappone fu sempre governato da un'unica dinastia. Esso è un paese unico al mondo, senza simili. La dea è presente nello specchio imperiale del tempio di Ise. I tre simboli del potere sono stati consegnati dalla dèa. Il governo dell'impero è cosa divina. I sovrani sono divinità visibili. Essi sono differenti da quelli di qualsiasi nazione, perché non sono eletti dal popolo. L'atto di governare la nazione è identico a quello di rendere omaggio agli dèi secondo il rito shintoistico. Il sovrano è il popolo: sono la stessa cosa. La lealtà verso il sovrano è la base di ogni morale». Tutto ciò è ideologia ufficiale di Stato, è base dello specifico sentimento nazionale, è fondamento degli ideali e delle virtù di ogni giapponese, è l'arma con la quale si combatte il materialismo, l'individualismo, il collettivismo e soprattutto il bolscevismo, considerato giustamente come l'estrema antitesi di una tale idea politica, è la molla profonda di ogni atto eroico e di ogni sacrificio, è la fede, l'anima della razza Yamato. Nel 1935 il prof. Minobe si mise a capo di un tentativo di riforma «illuminata», cercando di far del trono un semplice organo del governo e quindi di «costituzionalizzare» e «positivizzare» l'istituto monarchico. Esso scatenò la reazione più violenta dell'anima giapponese e soprattutto dell'esercito. La natura e l'origine divina del sovrano vennero di nuovo solennemente affermate.
Il principio, che il sovrano è il popolo, ha una base quasi razzista. La dinastia viene considerata come il ceppo originario dal quale scaturirono o derivarono le principali casate della razza giapponese. Così la nazione viene concepita come un'unica grande famiglia o gens nel senso antico: un mito, questo, che cementa lo stesso orgoglio e la stessa solidarietà che oggi, da noi, il razzismo cerca di suscitare, mentre va a dare al lealismo giapponese una sfumatura quasi patriarcale. La lealtà, su tale base, è anche pietas, non è cosa che si esaurisce nell'atto libero del singolo, è un dovere del sangue. Naturalmente, questo sentimento è massimamente vivo fra gli elementi più prossimi all'apice imperiale, cioè nei bushi o samurai, i quali costituiscono la casta guerriera e feudale, concepita come il fiore della società giapponese come lo vuole l'antico proverbio: «Ciò che il ciliegio è fra le fioriture, tale è il bushi fra gli uomini». L'organizzazione dei samurai o bushi in una vera e propria casta, in cui si riflettono esattamente i tratti, fra l'ascetico e l'eroico, dei nostri antichi ordini cavaliereschi, risale a circa mille e cinquecento anni fa. La dottrina che ad essi fa da anima e da legge, il bushido, è però assai più antica, si armonizza con l'idea stessa dello Stato nipponico e, base di precise norme etiche, sociali, spirituali e perfino biologiche, è stata fedelmente tramandata da generazione a generazione, fino ai nostri giorni. E questa casta è la gelosa custode della tradizione: tanto essa è fedele fino alla morte al sovrano, altrettanto lo è al dogma della regalità divina, che, oggi come secoli fa, essa è pronta a difendere contro ogni profanazione e laicizzazione.
La dottrina del bushido, come quella dell'antica cavalleria occidentale, non concerne il solo mestiere delle armi (onde sarebbe erroneo considerare i samurai come una semplice «casta militare»), ma riguarda l'intero tenore di vita: è un modo d'essere che, essenzialmente, ad essa corrisponde, una razza dello spirito, di là da quella del sangue. A parte la norma suprema del lealismo, più forte di vita e di morte, nel bushido è compresa anche la formazione guerriera, ma in un senso speciale, poco accessibile alla mentalità europea contemporanea, che confonde volentieri il guerriero col militare e sempre vi unisce l'idea di qualcosa di duro, di rigido, di chiuso. Alla «via del bushi» è invece essenziale anche una interiorizzazione dell'eroismo e della forza, la vittoria sulla propria natura, cosa fondamentale per la «finezza», la nobiltà, lo «stile» e la «bellezza» così come tutto ciò viene concepito in Giappone. Il bushi, quindi, viene anche addestrato tradizionalmente al dominio dei propri pensieri, dei propri sentimenti, della propria impulsività e passionalità: ad un ascetismo sui generis. Peraltro, ancor oggi al bushido non sono estranee le pratiche e le discipline dello Zen, che è una delle scuole più «esoteriche» del buddhismo, avente in proprio metodi di controllo e di risveglio di energie umane profonde, che già confinano con l'occulto, mentre sempre vi si sottolinea l'esigenza, che ogni realizzazione materiale - quelle per esempio del mestiere delle armi e della stessa lotta giapponese, ju-jùtzu - sia intesa come simbolo e base per una realizzazione spirituale. E come da un lato vi è la più rigida legge di onore, la cura scrupolosa di evitare che la più lieve macchia adombri la famiglia a cui il samurai appartiene, dall'altra vi è l'ideale diuna forza sottile, inflessibile e inafferrabile di dominio, che rifugge da qualsiasi esibizione coreografica e narcisistica, da qualsiasi vanità, e richiama le dottrine di Laotze circa quell'azione, che non è azione materiale, wei-wu-wei, e che nella sua invisibilità è irresistibile.
Chi, da noi, sul serio difende l'idea di una «educazione totale», soprattutto con riferimento al problema delle future élites, non può considerare con indifferenza questi aspetti della cultura giapponese. Egli deve piuttosto riconoscere che l'Occidente, già da secoli, con la scusa di dominare la natura e la materia, ha quasi interamente abbandonato il compito del dominio di se stessi; che in Occidente spesso sussistono dei gravi equivoci circa quel che veramente significhi la virilità, unilateralmente confusa con le forme più grezze, muscolari o violentemente «volontaristiche» di essa; che, per via di circostanze disgraziate, l'ascesi che soprattutto è stata conosciuta in Occidente è quella di tipo religioso, rinunciatario, contemplativo, non quella, che può integrare, potenziare e trasfigurare una vocazione guerriera e un'etica aristocratica. Nel punto in cui s'intenda sul serio superare tutte queste limitazioni con una educazione virile veramente integrale, idee molto affini a quelle del bushido ci appariranno tutt'altro che peregrino ed estranee, ma si presenteranno invece con un particolare carattere di attualità per le avanguardie spirituali dei nostri stessi movimenti rinnovatori.
Infine, un ultimo punto. Partendo dal centro costituito dalla dinastia e irradiandosi attraverso le vene costituite dalle grandi famiglie bushi, la concezione trascendente dello Stato nipponico va a raggiungere tutti i restanti elementi della nazione e, quindi, a permeare, per gradi, l'intera società nazionale dello stesso significato. L'intero Giappone si sente dunque come il portatore di una forza divina, come una razza unica, che ha una missione universale, irreducibile ad ogni esigenza della semplice materia. Questa non è una vecchia fede superata. Fra i versi che ogni Giapponese impara nelle scuole d'oggi, fin dalla più tenera età, si trovano, p. es., i seguenti: «Il Giappone è l'unica terra divina. Il popolo giapponese è l'unico popolo divino e per questo il Giappone può esser la luce del mondo». Il noto uomo politico Yosuké Matsuoma, che rappresentò recentemente la sua patria presso alla Società delle Nazioni, ebbe ad esprimersi come segue: «Sono convinto che la missione della razza Yamato (cioè di quella nipponica) sia di proteggere la razza umana dagli inferni, di salvaguardarla dalla distruzione e di condurla verso un mondo di chiarezza».
Qui ci troviamo naturalmente di fronte ad un «mito», cioè dinanzi ad una idea-forza, intesa a creare un'alta tensione spirituale in un popolo. Come Rudolf Walter (3) ebbe a rilevare riferendo analoghe espressioni, la nozione di un «popolo eletto» e quella di una missione supernazionale, in realtà, sono ben lungi dal costituire un patrimonio soltanto giapponese: si manifestò fatalmente lo stesso sentimento dovunque una gente fu pervasa da una tensione metafisica e compenetrata dal senso, che, dietro alle forze umane ad essa proprie, agiscono anche delle forze dall'alto. Si tratta così di una fede, che anche le genti arie ebbero in proprio e, volendo trovare in Occidente per essa un equivalente non meno augusto di quello nipponico per vetustà, non vi è che da ricordare il simbolo romano, la fede secolare nella aeternitas Romae e nella missione supernazionale e universale della razza di Roma.
Ora, queste corrispondenze non sono prive, oggi, di un preciso significato. Una volta separata la parte più contingente - nel suo esclusivismo -della ideologia nipponica in parola, ciò che resta come nucleo centrale è l'idea di una lotta giustificata non solo da ambizioni di potenza materiale e dalla mera ragion politica, bensì anche da una idea, da una missione, da una vocazione di dominio spirituale e, in fondo, da un punto di riferimento trascendente. Ora, è necessario che, in una forma o nell'altra, significati del genere si affermino sempre più nettamente nella lotta oggi in corso, limitando la potenza di altri miti e di altre vocazioni. Per questo, il Giappone può trovarsi con noi, e soprattutto con gli esponenti coscienti della tradizione imperiale romana, su di uno stesso fronte, non solo politico, materiale e militare, ma anche spirituale e ideale. Le differenze etniche e naturalistiche qui non possono mascherare che agli occhi dei miopi la innegabile convergenza, in tema di spirito tradizionale. Chi, da epoche remote, ha saputo conservare questo spirito può incontrarsi a combattere a lato di chi oggi cerca di riconquistarlo dopo aver superato la decadenza, la disgregazione e l'oscuramento che hanno caratterizzata la pseudo-civiltà del mondo moderno.
di Julius Evola
È d' uopo infatti risconoscere che, sia pure nelle forme adatte ad una diversa razza e a un diverso ambiente, il Giappone a tutt'oggi difende fermamente dei valori, che l'Occidente, nelle contingenze della sua storia, ha perduto e che esso solo in futuri sviluppi delle sue rivoluzioni rico-struttrici potrà sperare di riconquistare. E su questo terreno può ben esistere una convergenza. Nel suo rappresentare una aperta sfida contro ogni ideologia politica «evoluta» e «moderna», nel tener fermo, anche nell'ordine politico e statale, a significati trascendenti e antisecolari, un certo Giappone può valerci come una specie di reattivo, può aiutarci a superare dei compromessi imposti dalla necessità, può spronare il nostro coraggio spirituale e indicarci nuove linee di vetta. È a questa stregua che qui non crediamo inutile far cenno all'idea politica giapponese, dai più solo superficialmente conosciuta.
L'ideale politico-nazionale del Giappone - Ymato tamashii - si riassume nella tradizione imperiale, come tradizione «divina». «Seguendo il comando, scenderò dal cielo» - dice nel Ko-gi-ki, testo principale della tradizione nipponica, il capostipite dei sovrani del Giappone. Questi sovrani non sono considerati come esseri umani. Essi fanno tutt'uno con la dea solare Amaterasu-o-mi-kami, sulla base di una arcaica e ininterrotta tradizione dinastico-spirituale - anche storicamente, la dinastia nipponica ha una continuità di oltre duemila anni. Qui l'atto di governare e di dominare fa tutt'uno col culto - è simultaneamente un rito, un atto religioso: il termine matsurigoto significa sia governo in senso stretto, cioè come potere temporale, sia culto, «esercizio delle cose religiose», anfibologia, questa, che è piena di significato, perché ci rimanda a quella sintesi inscindibile fra autorità spirituale e potere temporale in una sola persona, che fu propria a tutte le civiltà tradizionali primordiali, Roma compresa.
Per tal via, il Giappone è l'unico Stato contemporaneo che si trovi nella felice condizione di ignorare il problema di una conciliazione fra l'idea nazionale e razzista e quella religiosa. Qui la religione è politica e la politica è religione. La religione giapponese, lo Shintoismo, ha come caposaldo il ciù-ghi, cioè la fedeltà assoluta all'imperatore - esatto equivalente di quel che fu lafìdes nel Medioevo ghibellino romano-germanico e, in una certa misura, anche nell'antica Roma. Nella fedeltà di fronte allo Stato si risolve anche il dovere religioso, perché lo Stato qui non è una creazione umana, ma ha base divina e per centro un essere, che è più che uomo, anche se - come i testi avvertono - esso non ha il carattere di un Dio assoluto di tipo monoteistico.
Tale essendo l'unico punto di riferimento per la stessa religiosità del singolo, ne segue anche, che ogni virtù o atto di quella vita individuale o collettiva, che nell'Occidente moderno viene considerata come mera realtà temporale, finisce col giustificarsi in termini difides, di trascendente fedeltà al Capo: ciù-ghi. Fedeltà e lealtà, in Giappone, sono dunque concetti che non solo valgono nell'ambito guerriero e cavalieresco, ma riprendono il rispetto per i genitori, la solidarietà fra parenti o amici, la pratica delle virtù, il rispetto delle leggi, l'armonia fra i coniugi col giusto rapporto gerarchico fra i sessi, la produttività nel campo dell'industria e dell'economia, il lavoro e lo studio, il compito di formare il proprio carattere, la difesa del sangue e della razza. Tutto ciò è «fedeltà» e, in ultima istanza, fedeltà di fronte al Sovrano. Ogni atto antisociale, immorale, criminoso, su tale base, non significa la trasgressione di una norma astratta, di una legge «sociale» più o meno anodina o convenzionale, bensì tradimento, slealtà, ignominia paragonabile a quello che ricade su di un guerriero che diserta il suo posto o tradisce l'impegno da lui virilmente contratto col suo capo. Non vi sono dunque dei «colpevoli», ma piuttosto dei «traditori», degli esseri incapaci di onore.
Ora, è interessante rilevare che una veduta del genere, ancor viva in Giappone e riflettente quel che ogni altra civiltà tradizionale, d'Oriente e d'Occidente, originariamente conobbe, ma poi perdette, già si riaffaccia nel fascismo e nel nazionalsocialismo: anche in questi movimenti si tende sempre più a dare una base etica e virile, quindi antipositivistica, alla nozione di diritto, di dovere sociale ed altresì di imputabilità e di responsabilità, anche se, a differenza del Giappone, qui non è presente il supremo, religioso punto di riferimento, costituito, nella tradizione giapponese, dal carattere in un certo modo supernaturale della funzione imperiale.
Questo carattere lo stesso sovrano giapponese lo possiede, oltre che per la sua discendenza considerata non-umana e, come si è accennato, retrocedente fino ad epoche preistoriche, anche per la via del «triplice tesoro» - sam-shu no-shin-ghi - emblema del potere divino: specchio, perla e spada. Non vi è cerimonia di incoronazione e di investitura in Giappone: il nuovo Sovrano diviene tale in quanto assume il triplice tesoro, che ne contrassegna e suggella il diritto dall'alto. Le tradizioni a ciò riferentesi sono così antiche, che spesso il loro significato originario nello stesso Giappone non sussiste che in forma frammentaria e velata. Che si deve propriamente pensare, ad esempio, del rapporto esistente fra il sovrano e la divinità femminile del Sole? Non è agevole trattare, in questa sede, di un tale problema, del resto, da noi già altrove considerato. Accenneremo solo, che qui il Sole fisico vale naturalmente solo come il simbolo sensibile per una realtà spirituale, per una forza di trascendente «solarità». Il fatto, poi, che questa forza sia concepita come femminile è probabilmente da spiegarsi come molti miti eroici, ove simboliche donne, regine o donne divine hanno una parte rilevante e sono esse che introducono degli esseri particolarmente dotati e provati alla funzione regale. Per mezzo di questo simbolismo, si vuole esprimere che anche rispetto alla forza spirituale, celeste e «solare» il sovrano, nell'assumerla, del mantenersi «uomo», deve cioè conservare la qualità affermativa e supremamente reale che, in ogni rapporto normale, l'uomo ha di fronte alla donna. È, insomma, l'opposto dell'atteggiamento semitico di servilismo di fronte al divino.
Il rapporto di «identità», del resto, è sottolineato dal primo oggetto del triplice tesoro imperiale, dallo specchio, che vien chiamato kaga-mi-me-mitamo, cioè augusto spirito. In esso, come in una magica «presenza», è la forza «solare». Come tale, lo specchio invita il sovrano a riconoscervi la sua vera immagine, cioè a tener sempre presente la sua identità con la forza solare.
Circa il secondo simbolo, la spada, vi sono da considerare due aspetti. Il primo, exoterico, corrisponde più o meno al significato che la spada ha avuto dovunque, come emblema del potere temporale. Nel Giappone vi è, in più, un riferimento alla capacità di discriminare il bene dal male, il reale dall'irreale, tanto da poter essere un giusto giudice in terra. Senonché il secondo aspetto del simbolismo in quistione - aspetto più segreto, esoterico - va a dare a tale capacità una specie di fondamento metafisico. Il mito vuole infatti che la spada fosse originariamente brandita per «uccidere il drago dalle otto teste» dal fratello della dea solare. Non essendo possibile trattar qui il simbolismo di questa impresa e del numero «otto» che vi ricorre, diremo solo che, di nuovo, vi è un riferimento ad un compimento sovrannaturale, presupponente la distruzione di influenze inferiori, «tel-luriche», nei vari piani dell'esistenza condizionata.
Quanto al simbolo della pietra, o perla di pietra, (ama, esso, dal punto di vista più esteriore, rimanda al buddhismo, che conosce la mistica perla della «compassione», nel senso più alto di comprensione, di sentimento umano, di grandezza ed apertura d'animo - in sanscrito mahatma. Ma la parola giapponese fama vuoi anche dire «anima» o «nume» e il simbolismo della «pietra celeste» ci porta effettivamente assai lontano nei tempi. Lo stesso Graal nel testo di Wolfram von Eschenbach appare come una pietra divina o celeste - lapis ex coelo - strettamente connessa all'idea di un regno trascendente, mentre l'antica tradizione inglese conosce la cosi-detta «pietra del destino» - Ha fai! - che da tempi preistorici ha parte nella consacrazione dei re legittimi. Riferimenti del genere potrebbero esser facilmente moltiplicati. In genere, una pietra sacra appare dovunque si stabilì il centro di una organizzazione «tradizionale» in senso superiore, cioè quasi nel senso di un «centro del mondo». Si può ricordare lo stesso omphalos di Delfo e perfino l'allegoria pontificale di Pietro come «pietra» nei Vangeli.
Come si è detto, la natura trascendente della sovranità, controsegnata da questi simboli del triplice tesoro, costituisce il caposaldo di tutta la dottrina nipponica dell'Impero e vale ancor oggi come dogma. Queste parole appartengono al commento del principe Hakabon Ito alla costituzione giapponese: «Il sacro trono fu creato quando la terra si separò dal ciclo (cioè: come una specie di surrogato al decadere di una unità primordiale esistente fra il terrestre e il divino). Il sovrano discende dal ciclo ed è divino e sacro». Nel testo ufficiale Kokutai no honghi edito recentemente (1937) dal Ministero nipponico della Educazione nazionale si ritrova la stessa idea, con una formulazione ancor più radicale - riportiamo alcuni punti, nella traduzione del Marenga: «I sovrani del Giappone discendono da una dèa solare. Il Giappone fu sempre governato da un'unica dinastia. Esso è un paese unico al mondo, senza simili. La dea è presente nello specchio imperiale del tempio di Ise. I tre simboli del potere sono stati consegnati dalla dèa. Il governo dell'impero è cosa divina. I sovrani sono divinità visibili. Essi sono differenti da quelli di qualsiasi nazione, perché non sono eletti dal popolo. L'atto di governare la nazione è identico a quello di rendere omaggio agli dèi secondo il rito shintoistico. Il sovrano è il popolo: sono la stessa cosa. La lealtà verso il sovrano è la base di ogni morale». Tutto ciò è ideologia ufficiale di Stato, è base dello specifico sentimento nazionale, è fondamento degli ideali e delle virtù di ogni giapponese, è l'arma con la quale si combatte il materialismo, l'individualismo, il collettivismo e soprattutto il bolscevismo, considerato giustamente come l'estrema antitesi di una tale idea politica, è la molla profonda di ogni atto eroico e di ogni sacrificio, è la fede, l'anima della razza Yamato. Nel 1935 il prof. Minobe si mise a capo di un tentativo di riforma «illuminata», cercando di far del trono un semplice organo del governo e quindi di «costituzionalizzare» e «positivizzare» l'istituto monarchico. Esso scatenò la reazione più violenta dell'anima giapponese e soprattutto dell'esercito. La natura e l'origine divina del sovrano vennero di nuovo solennemente affermate.
Il principio, che il sovrano è il popolo, ha una base quasi razzista. La dinastia viene considerata come il ceppo originario dal quale scaturirono o derivarono le principali casate della razza giapponese. Così la nazione viene concepita come un'unica grande famiglia o gens nel senso antico: un mito, questo, che cementa lo stesso orgoglio e la stessa solidarietà che oggi, da noi, il razzismo cerca di suscitare, mentre va a dare al lealismo giapponese una sfumatura quasi patriarcale. La lealtà, su tale base, è anche pietas, non è cosa che si esaurisce nell'atto libero del singolo, è un dovere del sangue. Naturalmente, questo sentimento è massimamente vivo fra gli elementi più prossimi all'apice imperiale, cioè nei bushi o samurai, i quali costituiscono la casta guerriera e feudale, concepita come il fiore della società giapponese come lo vuole l'antico proverbio: «Ciò che il ciliegio è fra le fioriture, tale è il bushi fra gli uomini». L'organizzazione dei samurai o bushi in una vera e propria casta, in cui si riflettono esattamente i tratti, fra l'ascetico e l'eroico, dei nostri antichi ordini cavaliereschi, risale a circa mille e cinquecento anni fa. La dottrina che ad essi fa da anima e da legge, il bushido, è però assai più antica, si armonizza con l'idea stessa dello Stato nipponico e, base di precise norme etiche, sociali, spirituali e perfino biologiche, è stata fedelmente tramandata da generazione a generazione, fino ai nostri giorni. E questa casta è la gelosa custode della tradizione: tanto essa è fedele fino alla morte al sovrano, altrettanto lo è al dogma della regalità divina, che, oggi come secoli fa, essa è pronta a difendere contro ogni profanazione e laicizzazione.
La dottrina del bushido, come quella dell'antica cavalleria occidentale, non concerne il solo mestiere delle armi (onde sarebbe erroneo considerare i samurai come una semplice «casta militare»), ma riguarda l'intero tenore di vita: è un modo d'essere che, essenzialmente, ad essa corrisponde, una razza dello spirito, di là da quella del sangue. A parte la norma suprema del lealismo, più forte di vita e di morte, nel bushido è compresa anche la formazione guerriera, ma in un senso speciale, poco accessibile alla mentalità europea contemporanea, che confonde volentieri il guerriero col militare e sempre vi unisce l'idea di qualcosa di duro, di rigido, di chiuso. Alla «via del bushi» è invece essenziale anche una interiorizzazione dell'eroismo e della forza, la vittoria sulla propria natura, cosa fondamentale per la «finezza», la nobiltà, lo «stile» e la «bellezza» così come tutto ciò viene concepito in Giappone. Il bushi, quindi, viene anche addestrato tradizionalmente al dominio dei propri pensieri, dei propri sentimenti, della propria impulsività e passionalità: ad un ascetismo sui generis. Peraltro, ancor oggi al bushido non sono estranee le pratiche e le discipline dello Zen, che è una delle scuole più «esoteriche» del buddhismo, avente in proprio metodi di controllo e di risveglio di energie umane profonde, che già confinano con l'occulto, mentre sempre vi si sottolinea l'esigenza, che ogni realizzazione materiale - quelle per esempio del mestiere delle armi e della stessa lotta giapponese, ju-jùtzu - sia intesa come simbolo e base per una realizzazione spirituale. E come da un lato vi è la più rigida legge di onore, la cura scrupolosa di evitare che la più lieve macchia adombri la famiglia a cui il samurai appartiene, dall'altra vi è l'ideale diuna forza sottile, inflessibile e inafferrabile di dominio, che rifugge da qualsiasi esibizione coreografica e narcisistica, da qualsiasi vanità, e richiama le dottrine di Laotze circa quell'azione, che non è azione materiale, wei-wu-wei, e che nella sua invisibilità è irresistibile.
Chi, da noi, sul serio difende l'idea di una «educazione totale», soprattutto con riferimento al problema delle future élites, non può considerare con indifferenza questi aspetti della cultura giapponese. Egli deve piuttosto riconoscere che l'Occidente, già da secoli, con la scusa di dominare la natura e la materia, ha quasi interamente abbandonato il compito del dominio di se stessi; che in Occidente spesso sussistono dei gravi equivoci circa quel che veramente significhi la virilità, unilateralmente confusa con le forme più grezze, muscolari o violentemente «volontaristiche» di essa; che, per via di circostanze disgraziate, l'ascesi che soprattutto è stata conosciuta in Occidente è quella di tipo religioso, rinunciatario, contemplativo, non quella, che può integrare, potenziare e trasfigurare una vocazione guerriera e un'etica aristocratica. Nel punto in cui s'intenda sul serio superare tutte queste limitazioni con una educazione virile veramente integrale, idee molto affini a quelle del bushido ci appariranno tutt'altro che peregrino ed estranee, ma si presenteranno invece con un particolare carattere di attualità per le avanguardie spirituali dei nostri stessi movimenti rinnovatori.
Infine, un ultimo punto. Partendo dal centro costituito dalla dinastia e irradiandosi attraverso le vene costituite dalle grandi famiglie bushi, la concezione trascendente dello Stato nipponico va a raggiungere tutti i restanti elementi della nazione e, quindi, a permeare, per gradi, l'intera società nazionale dello stesso significato. L'intero Giappone si sente dunque come il portatore di una forza divina, come una razza unica, che ha una missione universale, irreducibile ad ogni esigenza della semplice materia. Questa non è una vecchia fede superata. Fra i versi che ogni Giapponese impara nelle scuole d'oggi, fin dalla più tenera età, si trovano, p. es., i seguenti: «Il Giappone è l'unica terra divina. Il popolo giapponese è l'unico popolo divino e per questo il Giappone può esser la luce del mondo». Il noto uomo politico Yosuké Matsuoma, che rappresentò recentemente la sua patria presso alla Società delle Nazioni, ebbe ad esprimersi come segue: «Sono convinto che la missione della razza Yamato (cioè di quella nipponica) sia di proteggere la razza umana dagli inferni, di salvaguardarla dalla distruzione e di condurla verso un mondo di chiarezza».
Qui ci troviamo naturalmente di fronte ad un «mito», cioè dinanzi ad una idea-forza, intesa a creare un'alta tensione spirituale in un popolo. Come Rudolf Walter (3) ebbe a rilevare riferendo analoghe espressioni, la nozione di un «popolo eletto» e quella di una missione supernazionale, in realtà, sono ben lungi dal costituire un patrimonio soltanto giapponese: si manifestò fatalmente lo stesso sentimento dovunque una gente fu pervasa da una tensione metafisica e compenetrata dal senso, che, dietro alle forze umane ad essa proprie, agiscono anche delle forze dall'alto. Si tratta così di una fede, che anche le genti arie ebbero in proprio e, volendo trovare in Occidente per essa un equivalente non meno augusto di quello nipponico per vetustà, non vi è che da ricordare il simbolo romano, la fede secolare nella aeternitas Romae e nella missione supernazionale e universale della razza di Roma.
Ora, queste corrispondenze non sono prive, oggi, di un preciso significato. Una volta separata la parte più contingente - nel suo esclusivismo -della ideologia nipponica in parola, ciò che resta come nucleo centrale è l'idea di una lotta giustificata non solo da ambizioni di potenza materiale e dalla mera ragion politica, bensì anche da una idea, da una missione, da una vocazione di dominio spirituale e, in fondo, da un punto di riferimento trascendente. Ora, è necessario che, in una forma o nell'altra, significati del genere si affermino sempre più nettamente nella lotta oggi in corso, limitando la potenza di altri miti e di altre vocazioni. Per questo, il Giappone può trovarsi con noi, e soprattutto con gli esponenti coscienti della tradizione imperiale romana, su di uno stesso fronte, non solo politico, materiale e militare, ma anche spirituale e ideale. Le differenze etniche e naturalistiche qui non possono mascherare che agli occhi dei miopi la innegabile convergenza, in tema di spirito tradizionale. Chi, da epoche remote, ha saputo conservare questo spirito può incontrarsi a combattere a lato di chi oggi cerca di riconquistarlo dopo aver superato la decadenza, la disgregazione e l'oscuramento che hanno caratterizzata la pseudo-civiltà del mondo moderno.
di Julius Evola
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