Parlare di scrittori “maledetti” è sempre operazione ardua, a causa delle contrastanti reazioni che le loro opere hanno il potere di suscitare in chi legge. La cosa si complica ancor più se di fronte ci si trova un certo Louis Ferdinand Destouches (l894 – 1961), noto universalmente con il nome d’arte di Céline (preso dalla nonna materna cui era molto legato). In Italia, l’ostracismo di certi critici verso di lui è ben rappresentato da Massimo Onofri, che nel suo Recensioni. Istruzioni per l’uso (Donzelli, 2008) lo ha snobbato, dedicandogli solo un paio di citazioni. Fortunatamente, non tutti sono su questa linea, come ha dimostrato l’anno dopo Marina Alberghini con il suo Gatto randagio, edito da Mursia. Comunque, a darci una mano per tentar l’impresa di raccontare l’impatto delle opere di Cèline in Italia, c’è un apprezzabile libro di un quinquennio fa, intitolato Céline in Italia e pubblicato dalle edizioni Settimo Sigillo di Roma. Maurizio Markovec vi ricostruisce con dovizia di riferimenti bibliografici la vicenda di tutte le traduzioni ed interpretazioni dei lavori di Céline, che si son succedute qui da noi a partire dal 1933, allorché apparve ad opera di Alex Alexis (pseudonimo di Luigi Alessio) un puritana versione italiana di Voyage au bout de la nuit, che all’epoca sfiorò il prestigioso Premio Goncourt. Per quanto depurato da tutte le espressioni che potevano apparire volgari in un clima poco disposto a tollerarle, questo racconto - al pari del successivo Morte a credito - suscitò commenti complessivamente negativi, come quelli della rivista cattolica Il Frontespizio o de Il Saggiatore, per non parlare di una stroncatura di Margherita Sarfatti su La Stampa. In effetti, il primo Céline, anche a motivo del suo antimilitarismo e dei virulenti attacchi alla società borghese, si prestava a piacere maggiormente ad un Trotsky, il quale nell’ottobre del ’35 ebbe per lui parole lusinghiere. Il famoso rivoluzionario russo non s’avvide che nessuno era fuori tiro con quella scheggia impazzita della letteratura che fu Céline, capacissimo di scrivere un Mea culpa contro il regime sovietico e di dissacrare ferocemente anche le tematiche sociali.
I proletari, infatti, secondo Céline avevano quale “unica aspirazione profonda nient’altro che l’accesso alla borghesia”: E pertanto meritavano anch’essi l’appellativo di “avidi budelli… assorbiti dalle funzioni bassamente digestive”, loro affibbiato su L’ècole des cadavres (unico testo ancor oggi non tradotto in Italia). Il severo giudizio, come si vede, non è da meno delle feroci stoccate da lui tirate al “borghese ben pasciuto”, i cui soli ideali – secondo una felice espressione di Maurice Bardèche – sono l’aperitivo, lo stipendio e le vacanze. In realtà, gli strali disgustati e dissacranti di Céline sono diretti contro l’intero genere umano degli ultimi due secoli, “folle di orgoglio, gonfiato dalla meccanica” e “trascinato per la trippa” e del quale “si conserverà solo la parola m…”. Nel calderone delle sue invettive finiscono infatti per cadere tutti, senza distinzioni di razza, sesso, ceto o religione, in un j’accuse delirante che non risparmia proprio nessuno. “Io aderisco a me stesso, finché posso…”, scriverà sulla scia di Nietzsche questo grande anarchico del pensiero. La sua ostilità verso il mondo moderno ci porta all’aspetto più delicato di alcuni suoi scritti, il più famigerato dei quali è Bagattelle per un massacro, recentemente ritirato dal commercio per volere della vedova a causa del fortissimo antisemitismo.
I più entusiasti critici dell’opera céliniana come Ernesto Ferrero e Giovanni Roboni hanno parlato al riguardo di un delirio “tutto metaforico”, invitando a non confondere il suo io reale con il suo io lirico o apparente, costruito apposta per soli fini letterari. La tesi non convince, anche se effettivamente l’oltranza troppo esagitata dei libelli (oggi) meno presentabili di Céline può apparir tale da scongiurarne ogni possibile efficacia propagandistica. Analogo discorso ha da valere in ordine all’accusa di collaborazionismo, definita “pretestuosa” da Elio Naselli, ritenuta invece vera da Stelio Solinas e mitigata da un “a modo suo” da Alberto Rosselli. In realtà, sia il governo di Pètain che i nazisti non mostrarono grande simpatia per un autore ritenuto decadente, ampiamente ricambiati peraltro dal misantropo di Courbeoie. Sta di fatto che l’accusa mossagli da Radio Londra durante la seconda guerra mondiale, equivalendo ad una condanna a morte, lo costrinse a cercare rifugio in Danimarca dove poi finì fortunatamente solo in prigione.
La drammatica fuga attraverso la Germania agonizzante divenne poi oggetto della famosa Trilogia del Nord degli ultimi anni della sua vita. Per certe sue posizioni estreme, Céline fu sicuramente un personaggio capace di suscitare antipatie persino a destra, anche se una parte del nazionalismo più razzista ne farà un’icona. Quanto alla sinistra, é notorio che nel dicembre 1945, mentre impazzava l’epurazione contro i collaborazionisti francesi, Jan-Paul Sartre gli sferrò con il suo Portrait d’un antisémite la pericolosissima accusa d’esser stato addirittura “pagato” dai nazisti.
Céline, il quale durante l’occupazione tedesca si era abbastanza defilato limitandosi a scrivere un articolo e alcune lettere ai giornali, replicò duramente con il pamphlet al vetriolo ‘A l’agité du bocal. Il padre dell’esistenzialismo, che dal canto suo aveva potuto mettere tranquillamente in scena un’allegoria dell’occupazione tedesca dal titolo Les Mouches addirittura nel giugno del ‘43, vi finì triturato sotto una caterva di epiteti irripetibili, il più gentile dei quali suona come tenia des étrons. Al riguardo, ricordiamo a chi vi fosse interessato che questo libello di Céline è stato pubblicato nel 2005 a cura di Andrea Lombardi dall’Effepi di Genova (via Balbi Piovera, 7). A parte l’aspetto ideologico-politico, che ha indotto spesso gli editori che l’hanno pubblicato a prendere prudentemente le distanze da certe sue invettive razziste suscettibili oggi dei rigori della legge, Céline ha rappresentato un vero caso letterario essendo l’inventore, secondo Phlippe Sollers, di una “ritmica sbalorditiva, mai udita” nella lingua francese, capace di attirargli l’elogio di Ezra Pound e di Henry Miller e di farlo porre accanto a Bernanos (Carlo Bo) o a Marcel Proust (Giuseppe Guglielmi). Padroneggiando con maestria l’argot, che è il gergo forte e marcato delle caserme, dei bassifondi, della mala e del pronto soccorso degli ospedali francesi da lui bazzicati come medico, Céline ha innovato profondamente il linguaggio ufficiale mettendo così in seria difficoltà chi si è cimentato nelle traduzioni delle sue opere perché neppure il dialetto riesce a renderne appieno il senso.
L’altro aspetto rivoluzionario di Cèline è stato l’uso di una parlata frenetica, intercalata da un lessico iperbolico, aspro e dirompente, inframmezzato da esclamativi e puntini di sospensione, a sottolineare la concitazione del discorso. Questa tecnica sulfurea, secondo Giovanni Bugliolo, ha operato il miracolo di far riacquistare “una verginità assoluta” anche ai più “logori espedienti narrativi e retorici”. Da questi cenni necessariamente brevi si comprende perché Céline è destinato a far discutere ogni volta che viene ripubblicato. Egli ci pone infatti di fronte ad un dilemma che non ammette vie di mezzo: o lo si ama o lo si odia. E odiarlo risulta decisamente più comodo.
Articolo letto: 617 volte (24 Gennaio 2011)
I proletari, infatti, secondo Céline avevano quale “unica aspirazione profonda nient’altro che l’accesso alla borghesia”: E pertanto meritavano anch’essi l’appellativo di “avidi budelli… assorbiti dalle funzioni bassamente digestive”, loro affibbiato su L’ècole des cadavres (unico testo ancor oggi non tradotto in Italia). Il severo giudizio, come si vede, non è da meno delle feroci stoccate da lui tirate al “borghese ben pasciuto”, i cui soli ideali – secondo una felice espressione di Maurice Bardèche – sono l’aperitivo, lo stipendio e le vacanze. In realtà, gli strali disgustati e dissacranti di Céline sono diretti contro l’intero genere umano degli ultimi due secoli, “folle di orgoglio, gonfiato dalla meccanica” e “trascinato per la trippa” e del quale “si conserverà solo la parola m…”. Nel calderone delle sue invettive finiscono infatti per cadere tutti, senza distinzioni di razza, sesso, ceto o religione, in un j’accuse delirante che non risparmia proprio nessuno. “Io aderisco a me stesso, finché posso…”, scriverà sulla scia di Nietzsche questo grande anarchico del pensiero. La sua ostilità verso il mondo moderno ci porta all’aspetto più delicato di alcuni suoi scritti, il più famigerato dei quali è Bagattelle per un massacro, recentemente ritirato dal commercio per volere della vedova a causa del fortissimo antisemitismo.
I più entusiasti critici dell’opera céliniana come Ernesto Ferrero e Giovanni Roboni hanno parlato al riguardo di un delirio “tutto metaforico”, invitando a non confondere il suo io reale con il suo io lirico o apparente, costruito apposta per soli fini letterari. La tesi non convince, anche se effettivamente l’oltranza troppo esagitata dei libelli (oggi) meno presentabili di Céline può apparir tale da scongiurarne ogni possibile efficacia propagandistica. Analogo discorso ha da valere in ordine all’accusa di collaborazionismo, definita “pretestuosa” da Elio Naselli, ritenuta invece vera da Stelio Solinas e mitigata da un “a modo suo” da Alberto Rosselli. In realtà, sia il governo di Pètain che i nazisti non mostrarono grande simpatia per un autore ritenuto decadente, ampiamente ricambiati peraltro dal misantropo di Courbeoie. Sta di fatto che l’accusa mossagli da Radio Londra durante la seconda guerra mondiale, equivalendo ad una condanna a morte, lo costrinse a cercare rifugio in Danimarca dove poi finì fortunatamente solo in prigione.
La drammatica fuga attraverso la Germania agonizzante divenne poi oggetto della famosa Trilogia del Nord degli ultimi anni della sua vita. Per certe sue posizioni estreme, Céline fu sicuramente un personaggio capace di suscitare antipatie persino a destra, anche se una parte del nazionalismo più razzista ne farà un’icona. Quanto alla sinistra, é notorio che nel dicembre 1945, mentre impazzava l’epurazione contro i collaborazionisti francesi, Jan-Paul Sartre gli sferrò con il suo Portrait d’un antisémite la pericolosissima accusa d’esser stato addirittura “pagato” dai nazisti.
Céline, il quale durante l’occupazione tedesca si era abbastanza defilato limitandosi a scrivere un articolo e alcune lettere ai giornali, replicò duramente con il pamphlet al vetriolo ‘A l’agité du bocal. Il padre dell’esistenzialismo, che dal canto suo aveva potuto mettere tranquillamente in scena un’allegoria dell’occupazione tedesca dal titolo Les Mouches addirittura nel giugno del ‘43, vi finì triturato sotto una caterva di epiteti irripetibili, il più gentile dei quali suona come tenia des étrons. Al riguardo, ricordiamo a chi vi fosse interessato che questo libello di Céline è stato pubblicato nel 2005 a cura di Andrea Lombardi dall’Effepi di Genova (via Balbi Piovera, 7). A parte l’aspetto ideologico-politico, che ha indotto spesso gli editori che l’hanno pubblicato a prendere prudentemente le distanze da certe sue invettive razziste suscettibili oggi dei rigori della legge, Céline ha rappresentato un vero caso letterario essendo l’inventore, secondo Phlippe Sollers, di una “ritmica sbalorditiva, mai udita” nella lingua francese, capace di attirargli l’elogio di Ezra Pound e di Henry Miller e di farlo porre accanto a Bernanos (Carlo Bo) o a Marcel Proust (Giuseppe Guglielmi). Padroneggiando con maestria l’argot, che è il gergo forte e marcato delle caserme, dei bassifondi, della mala e del pronto soccorso degli ospedali francesi da lui bazzicati come medico, Céline ha innovato profondamente il linguaggio ufficiale mettendo così in seria difficoltà chi si è cimentato nelle traduzioni delle sue opere perché neppure il dialetto riesce a renderne appieno il senso.
L’altro aspetto rivoluzionario di Cèline è stato l’uso di una parlata frenetica, intercalata da un lessico iperbolico, aspro e dirompente, inframmezzato da esclamativi e puntini di sospensione, a sottolineare la concitazione del discorso. Questa tecnica sulfurea, secondo Giovanni Bugliolo, ha operato il miracolo di far riacquistare “una verginità assoluta” anche ai più “logori espedienti narrativi e retorici”. Da questi cenni necessariamente brevi si comprende perché Céline è destinato a far discutere ogni volta che viene ripubblicato. Egli ci pone infatti di fronte ad un dilemma che non ammette vie di mezzo: o lo si ama o lo si odia. E odiarlo risulta decisamente più comodo.
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