venerdì 25 aprile 2025

𝟑.𝟎.𝟏 - 𝐋𝐚 𝐯𝐞𝐫𝐢𝐭𝐚̀ 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐝𝐚𝐭𝐚 "𝟐𝟓 𝐚𝐩𝐫𝐢𝐥𝐞", 𝐢𝐦𝐩𝐨𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐚𝐠𝐥𝐢 𝐔.𝐒.𝐀. 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐜𝐜𝐮𝐛𝐞 𝐈𝐭𝐚𝐥𝐲, 𝐨𝐜𝐜𝐮𝐩𝐚𝐭𝐚 𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐪𝐮𝐢𝐬𝐭𝐚𝐭𝐚, 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐟𝐞𝐬𝐭𝐢𝐯𝐚.


 di Antonio Pantano


L'operazione militare che gli Alleati imposero in Italia alle loro truppe per invadere e conquistare la pianura padana, oggi si ritiene - con enfasi da sciuscià servili - aver avuto data al 25 aprile 1945. Infatti vige anche con la imposta aura di "giorno di vacanza lavorativa e festa nazionale", pur non condivisa da tutti gli italiani, e non sentita totalmente dai giovani delle generazioni del XXI secolo che ne ignorano l'origine.
Però quel accadimento non avvenne e non si concluse quel giorno, perché in quel giorno la sovranità effettiva a Milano e in Lombardìa, nella Venezia Euganea, nella Venezia Tridentina anche di lingua germanica, nel Friùli e Venezia Giulia del tempo, in Piemonte, e parte dell'Emilia, era ancora, nella forma e nella sostanza, esercitata dalla Repubblica Sociale Italiana, e in quel giorno la vita si svolse normalmente (anche i cinema ed i teatri funzionavano insieme con tutti i servizi pubblici!) nei territori liberi e non conquistati, senza sussulti o interruzioni.
La data del 25 aprile 1945 fu scelta ed imposta dai comandi militari statunitensi solo per farla coincidere col giorno nel quale si insediò ufficialmente Harry Truman a Washington, alla presidenza degli Stati Uniti, in subentro a Franklin D. Roosevelt, morto per disfacimento fisico e crollo mentale 12 giorni prima. Ed in più, perché quel giorno era stato deciso durante la conferenza di Yalta, tra il 4 e l'11 febbraio 1945, per la convocazione a San Francisco della conferenza organizzativa delle "Nazioni Unite" costituende.
E nella prima conferenza organizzativa delle "Nazioni Unite" lo statunitense senatore Fulbrigth fissò anche i termini della successiva "unione europea" che i vincitori vollero e stabilirono su tutto il territorio d'Europa, da organizzarsi con accorta studiata
gradualità pluriennale, che avrebbe avuto inizio con la "comunità del carbone e dell'acciaio" controllata dai magnati apolidi che avevano sedi e basi negli U.S.A ..
Quindi: nessun motivo "italiano", o riguardante accadimenti in Italia!
Roosevelt e Truman, eminenti personaggi della politica statunitense deputati a potere e governo, aderirono, ottenendo alto grado e lignaggio, a potenti logge massoniche americane, secondo il criterio tassativo da lungo tempo (e tuttora vigente) per
intraprendere una carriera pubblica di esito prestigioso in quel paese. Infatti negli S.U.A., secondo la costituzione, il presidente della repubblica deve essere "cristiano", e - meglio e possibilmente, per la garanzia ed il prestigio, e consuetudine cristallizzata - massone, comunane considerante l'Altissimo. nella qualità di "architetto dell'universo".
Dal 1909 Harry Truman e dal 1911 F.D. Roosevelt, erano ossequiosi fedeli e praticanti verso il rigoroso e molto autorevole massonico " Supremo Rito Scozzese Antico ed Accettato ", di liturgìa autonoma nord americana.
Rito cui apparteneva - protetto da "logica" copertura prudenziale - anche il rampante prelato cristiano cattolico Francis Joseph Spellman [ Whitman, Massachusetts, 4 maggio 1889 - New York, 2 dicembre 1967 ], frequentatore dal 1916 dell'Italia, ove fece
apprendistato e lavorò, primo americano, nella segreteria di stato vaticana dal 1925 al 1932, frequentando con assiduità il poco più giovane, ed a lui molto affine per indole, Giovanni Battista Montini.
Furono gli anni che provocarono e concretarono negli S.U.A. la artificiosa crisi finanziaria e la logica indotta depressione, mentre in Italia ciò era assai lontano dall'immaginarsi, dominando le conquiste sociali e le attività innovative imposte dal regime fascista.

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lunedì 21 aprile 2025

𝐈𝐥 " 𝐟𝐮𝐧𝐠𝐨 𝐬𝐚𝐩𝐫𝐨𝐟𝐢𝐭𝐚 " 𝐆𝐞𝐥𝐥𝐢 𝐋𝐢𝐜𝐢𝐨, 𝐚𝐧𝐠𝐮𝐢𝐥𝐥𝐨𝐬𝐨 "𝐟𝐫𝐚𝐭𝐞𝐥𝐥𝐨" 𝐦𝐚𝐬𝐬𝐨𝐧𝐞


di Antonio Pantano

Con scarsa fantasìa, uno dei tanti "aedi" gazzettieri prezzolati a servizio del regime democratico che si dedicò profondamente a pubblicare "verità" (assai ben pagate) sulla vicenda, riuscì persino ad inventare una intromissione "tangente" di un tale fantaccino - che raggiunse il grado massimo di sotto caporale - Gelli Licio, dai primi anni '50 del XX secolo divenuto "venerabile" capo massone di una autorevole loggia operante in Italia sotto l'ala tutelante e protettrice del maggiorente democristiano (già attivo intellettuale e docente universitario di "economia fascista corporativa" nell'ultimo decennio del regime , ove esercitò più volte anche il ruolo di Presidente di commissione esaminatrice dei Littoriali, ma, aretinamente, "avveduto" di riparare in Svizzera durante i mesi duri e compromettenti della guerra in Italia, secondo i suggerimenti di molti cattolici di osservanza "vaticana") Amintore Fanfani [ Pieve Santo Stefano, AR, 6 febbraio 1908 - Roma, 20 novembre 1990 ] e dei "consociati di formale opposizione partitica" del clan sovieto-comunista di Togliatti & compagni.
Gelli Licio. Che, nella adolescenza - incapace ed inconcludente negli studi primari di obbligo - riuscì ad ottenere con alacre fatica la sola licenza di scuola elementare dopo aver compiuto i 12 anni. Da giovane, durante il "ventennio fascista", scelse di avviarsi nella carriera militare per garantirsi la certezza di introitare una qualsiasi paga sicura. Poi, influenzato per certo da una diffusa e sentita atmosfera corale generale, da volontario partecipò alla campagna militare anticomunista in Spagna. Vocato ormai a vivere da militar-soldato per convenienza, nella seconda guerra mondiale si trovò inviato da semplice fantaccino in Croazia (ove, al massimo, riuscì a trovarsi nelle mansioni di attendente - cioè guardarobiere e servitor cameriere - a qualche ufficiale superiore della corte di Mario Roatta), ove poi pervenne nei Balcani, in Montenegro, nel 1941, al seguito del federale fascista di Pistoia, tale Alonza, (a Pistoia, nell'anteguerra, il giovane Gelli aveva occupato l'incarico servile di aprire la mattina la Federazione Fascista per nettarla e curarla con mansioni da sotto-fattorino ed usciere) che lo impegnò a Càttaro. In guerra, ed anche ai tempi della R.S.I., il Gelli mai riuscì a raggiungere il grado militare di caporale, a causa della insufficienza del titolo di studio e della propria indole.
Quindi il Gelli Licio mai fu coinvolto, non avendo alcun grado nemmeno di sottoufficiale, in azioni e responsabilità di alcun rilievo militare e politico.
Ma nel dopoguerra gli si attribuì (con raffinato e disinvolto falso sistema dettato da ragioni apparentemente inspiegabili, ma rientrati in trame massoniche condivise dai partiti consociativi di potere, che contribuirono a gonfiargli un fantasioso e falso ruolo) un mai raggiunto - per lui impossibile a conseguirsi - grado di "gerarca fascista", perché, in realtà, come ho già accennato, ebbe
sola mansione di addetto alle quotidiane pulizie degli uffici che ospitavano la federazione fascista di Pistoia, e, per la funzione, precario possessore delle chiavi di quella sede. Mai, poi, il Gelli ebbe incarichi relativi a "trasferimento e gestione" di qualsiasi riserva aurea in tempo di guerra.
In Montenegro il Gelli potrebbe aver orecchiato - o, con verosimile certezza, orecchiò - da qualche prelato cattolico croato, in combutta con qualche alto militare italiano, della esistenza della "riserva aurea iugoslava" nascosta in cavità sotterranee segrete dal clan monarchico belgradese dei Karageorgevic, che poi in buona parte fu fatta trasferire su un battello navale sommergibile britannico con destinazione a banche inglesi. Così come potrebbe aver raccolto notizie della quantità residua di quel tesoro ancora nascosta nelle viscere delle montagne di quella regione.
Ma è ormai risaputo che pennivendoli e stampa - prezzolati lautamente dallo interessato e da chi a lui era legato da affari ed interessi - si prestarono per decenni ad intorbidare le acque - certamente per compiacere filoni deviati della magistratura penale italiana, depistatrice su eccidi e stragi divenute famose - per confonderle, inventando situazioni, vari e pittoreschi "golpe", traffici, combutte, certamente per volere di "logge potenti" più dello "stato", innaffiati dai fumi alcoolici creati dai contaballe sensazionalisti di provincia. Questi riuscirono ad inserire il Gelli anche in fantasiose istorie relative agli inattaccabili sotterranei della antica Frenzenfeste nel comune italiano di Fortezza, in provincia di Bolzano, alla confluenza della valle d'Isarco e della val Pusteria. Ove la mitica riserva aurea italiana fu posta a sicuro riparo sotterraneo a profondità di molte decine di metri di roccia basaltica in custodia nella pertinenza della "commissariata" Banca d'Italia, data la conformazione geologica della zona stretta tra gole nel fondovalle inaccessibile, ben protetta, ed impraticabile, dagli incessanti bombardamenti aerei anglo-americani, che miravano alla adiacente linea ferroviaria per il Brennero.
Ma, in area pistoiese ed aretina, mai è stata contraddetta e smentita la attendibile fondatissima opinione che tutto fu costruito ad arte per annebbiare e camuffare traffici lucrosi "consociativi" d'antica data, scaturiti dalla stantìa cronica e disinvolta attività di "confidente" e doppiogiochista che il Gelli - animato dalla fantasìa toscana e bassitaliota - seppe svolgere e svolse con molti del fronte Alleato, ed in particolare con alcuni "prodi" proditori "partigiani comunisti", operanti alla macchia proprio nei momenti del passaggio del fronte bellico in Toscana. Partigiani che seppero e vollero arricchirsi in quei frangenti, ed assai di più nel dopoguerra, con loschi traffici di oro e preziosi trafugati in molte direzioni (anche in danno di raggirati commercianti ebrei facoltosi - nel dopoguerra fu facile e consueto, per logica, attribuire le colpe di quelle grassazioni ai nazi-fascisti!), che in quel di Arezzo, ove il Gelli si stabilì, ebbero poi lievitazione ed esplosione. E nella zona fu poi alimentato un consistente polo affaristico e produttivo.
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testo liberamente estrapolato dal volume: Ezra Pound & Pellegrini - Edizioni Vita Nova

giovedì 6 febbraio 2025

LA PAROLA ASSASSINATA

 
LA PAROLA ASSASSINATA
Il sogno europeo di Robert Brasillach

di Salvatore Santangelo


La zuppa magra, i muri freddi, la marcia orgogliosa” …  il 6-02-1945, alle ore 9.38, viene fucilato il giornalista, narratore e poeta Robert Brasillach.

L’accusa: “Intelligenza” con il nemico per aver aderito a quel gruppo composito di intellettuali, alcuni di grande spessore come Drieu la Rochelle e Céline, che scelsero di sognare un’alleanza impossibile, nel 1940-45, fra la Francia vinta e la Germania che sembrava essere lo strumento principe per la costruzione di un nuovo assetto europeo. 

Nella stagione dell’odio Brasillach è vittima designata, prima e non ultima, di una resa dei conti le cui proporzioni rimangono ancora oscure; nella sola Francia si parla di oltre 100.000 esecuzioni sommarie dopo la “liberazione”.

Così all’età di soli 36 anni, moriva uno degli esponenti più significativi della cultura europea del ‘900.

Si da giovanissimo si era infatti distinto per la vivacità intellettuale, l’agile penna e la tendenza all’eresia.

Nel 1931 diviene, a soli 22 anni, redattore dell’Action Francaise e dalla stampa i suoi primi racconti.

Ma, in quegli anni, l’Europa è attraversata da grandi e nuovi sconvolgimenti: in Italia prima, e in Germania poi, una generazione di giovani reduci forgiati nelle “tempeste d’acciaio” della Grande Guerra, ha conquistato attraverso la piazza lo Stato, dando vita ad un nuovo esperimento a cu si dava il nome di Fascismo.

 Le mal du siécle = le fascisme come lo definiva lo stesso Brasillach. Un tipo umano “che canta, che marcia che sogna”, insomma una sorta di poesia che informa di sé tutta la realtà. A questa idea di un fascismo come poesia, Brasillach resterà fedele sino all’ultimo anche quando con la catena al piede scriverà le ultime note e gli ultimi versi mentre il “grande sogno” si è infranto.

Il congresso di Norimberga del 1936, cui assiste come inviato, e successivamente, la Guerra Civile Spagnola – è tra i primi a visitare l’Alcazar liberato – gli faranno rompere le ultime esitazioni e questo figlio del nazionalismo maurassiano  si converte così ad un ideale europeo che vede nel Reno non un confine ma un ponte lanciato pe un nuovo incontro.

Un incontro di pari dignità, di quella fierezza che insieme alla speranza, Brasillach ha difeso coerentemente sino all’ultimo e che ha lasciato a testamento per coloro che, anche attraverso i suoi scritti, hanno tentano o tentano di rincorrere quel sogno.

domenica 24 novembre 2024

Mondialismo e Società segrete ( quarta parte)


Il vecchio mondo è crollato e il nuovo non e ancora nato”, esordiscono gli autori, constatando che il mondo è in preda all'anarchia  “dove i vecchi valori sono contestati e disprezzati, dove di conseguenza nessuno crede più a nulla.


di Paolo Taufer

 “Per fortuna, proseguono, un barlume che ci guidi infine s'è acceso a partire dal 9 novembre 1989 con la caduta del muro di Berlino. 9 novembre vale a dire tre volte nove, poiché c'è novem che nel latino di Roma significa 9, nono mese del suo calendario. Tre volte 9 fa 999, seguito da mille, il ritorno all'unità: `l'unità della nostra civiltà, dell'universale e la fine delle tensioni".
   
Autorevole conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che nel crollo del comunismo appellarsi al caso, a nebbiosi determinismi o addirittura a interventi miracolosi del Cielo può depistare, costituendo esso crollo piuttosto un momento programmato sulla via di  quella Repubblica universale, o Grande  Opera, per secoli perseguita con sistematicità e determinazione da sette anticristiane.
   Trova altresì conferma la dottrina massonica, cioè gnostica,  del cicli cosmici secondo la  quale la terra passerebbe, con ritmo bimillenario, da un “eone a un altro “eone, da un'era ad un'altra era:
Che altri accettino la rivelazione di un'eternità che paralizza l'uomo e l'idea di una creazione immobile senza inizio né fine. Che concepiscano un tempo lineare che fluisce sempre nello stesso senso senza mai ritornare. Per noi, al contrario, dove tutto è ragione e simbolo, il grande orologio del tempo gira senza fine intorno al suo asse, ruota che instancabilmente compie ii' suoi cicli e le sue Rivoluzioni, che' gira senza posa per ritornare al suo punto di partenza, serpente ouroboros che mangia la sua, coda...”.
“...Oggi nei tempi travagliati che viviamo, annunciatori della fine del ciclo, l'abominevole era dei Pesci volge alla fine e attendiamo il sorgere dell'era dell'Acquario che inaugurerà un nuovo, grande, inizio”.
   Verso il 2000 si concluderebbe dunque “l'abominevole” e tenebrosa “Era dei Pesci, caratterizzata dal dominio di Cristo e la sua religione, fondata sul rigore morale, l'ascetismo e la rinuncia, per passare all' “Era dell'Acquario” che, all'insegna della soppressione di ogni divieto morale, costituirebbe una specie di ritorno al Paradiso terrestre (la nuova “età dell'oro"), sotto il controllo e il dominio degli “alti iniziati", formati alla scuola del talmudismo e del cabalismo ebraici, che prevedono appunto, in una prospettiva messianica, la restaurazione del “Grande Eden", o “Mondo a venire".
    ... Viviamo anni ripugnanti, dicono i nostri autori, la fine di un grande ciclo e di un piccolo ciclo, quello di ikthus, che in greco significa “pesce”. Si, stiamo evolvendo nella turbolenza di un periodo di rivelazione che in greco si chiama “apocalisse”, un caos da cui, un nuovo ordine, quello dell'Acquario, segno sublime dei nostro Fratello Mozart e della sua musica divina che inaugurerà, speriamo/o, una nuova età dell'oro”.
“Secondo la nostra tradizione brahamanica, ripresa ed esposta nell'inno induista alla Grande Dea, oggi termina il 7° ciclo". Dove il “Re del Mondo”, spiega lo storico della massoneria Serge Hutin (23), viene identificato dagli iniziati come "la massima. sovranità dei 2 governi invisibili, il vero “Re dei Re”  dal quale emanerebbe ogni autorità, diritto e potere, incluso quello della "Comunità dei Maghi" che  avrà la missione di elaborare la sintesi universale delle grandi religioni e dei potenti dirigenti..' (24) Il Re del Mondo, scrive il Guénon, riportando l'opinione di un alto iniziato polacco che negli anni fece un avventuroso viaggio nelle steppe dell'Asia Centrale, Ferdinand Ossendowski (1876-1945):  è in rapporto con i pensieri di tutti coloro che dirigono il destino dell'umanità... Conosce le loro intenzioni e le loro idee" (25).

Le rivelazioni si susseguono: “La progressiva soppressione delle frontiere economiche e sociali porterà con sé il predominio dell'uomo forte, cioè di colui che ha minori bisogni. Se le cose stanno così, dovranno condurre, dopo un periodo di forti tensioni, a un nuovo ordine teocratico". 

Siamo dunque caro lettore, al cospetto di un pensiero massonico genuino che ci riporta a quanto affermato all'inizio, ossia che colui che rifiuta una lettura teologica dei nostri tempi si condanna a non capire nulla di quanto stiamo vivendo. Viceversa per gli avversari  di Cristo non esistono dubbi, quando, come in questo caso, ci partecipano, apertis verbis, che si tratta, né più né meno, di fondare una nuova religione universale, in aperta contrapposizione col Vangelo, da proporre e imporre a tutti gli uomini. 

Tale è il pensiero della Grande Loggia di Francia, che si professa teista, lasciando a baloccarsi con la laicità e la democrazia, i bassi iniziati e il mondo profano delle turbe, rimbecillite e confuse da duecento anni di rivoluzioni. Alzti iniziati sanno invece che società sono prodotte e plasmate dalla religione: che la religione produce la morale e che dalla morale discende la legge. Per essi è assodato che senza religione non può esservi che disordine e caos.  "I preti caldei ed egiziani, coloro che celebrano i grandi misteri dell'antichità pagana, i maestri della cabala ebraica, erano degli iniziati." 

I conti tornano: coll'autorità che le deriva dall'essere la seconda obbedienza massonica francese, la Gran Loggia conferma punto per  punto le direttrici individuate in questo intervento, ossia il piano di dominazione mondiale ispirato dai maghi in diretto contatto con la potestas tenebrarum, il governo mondiale dell'Era dell'Acquario in forma di dittatura teocratica, la presenza degli alti iniziati nella società attraverso i secoli, la religione unica da essi custodita e oggi trasmessa nelle grandi adunanze dell' "Onu delle religioni" in forma di sintesi di ogni morale ed ogni costume, risultato della commistione e della contraddizione di tutte, dove non v'è più distinzione fra vero e falso, fra bene e male, dove ogni principio è contraddetto e discutibile per far sì che le regole della convivenza diventino arbitrarie e cadano nella disponibilità dei potenti, che possono allora modificarle a loro piacimento. Ma per realizzare il passaggio all'età dell'oro sarà necessario strumentalizzare, guidare ispirandole, le masse, ignare del loro bene supremo isolando allo stesso tempo con misure che vanno dall' "ostracismo morale" alla coercizione di coloro che sollecitamente non si apriranno al novus ordo, definiti "civilmente incapaci".
"Anche gli ebrei attendono la venuta di un Messia. In attesa di questa venuta, i disordini attuali e a venire determinano un atteggiamento e un'azione da opporre alle masse che hanno perduto il settentrione e l'oriente e che chiamiamo, per semplicità, “masse conservatrici", inadatte ai cambiamenti. Tali masse sono il sottoprodotto snaturato di masse politiche messe attualmente al servizio di forze distruttive". (...)

"Le individualità positive (vale a dire gli iniziati) devono creare degli “isolotti di resistenza” sulla scorta di una preoccupazione essenziale: la loro sopravvivenza. Ogni opposizione dottrinale dovrà cedere il passo di fronte a questo problema che deve condurre a un consenso unanime.

La coalizione delle individualità deve colpire con un ostracismo morale le masse conservatrici, isolarle e togliere ad esse ogni credito. Pazientemente, senza sosta, si deve mobilitare ogni elemento per ampliare il fronte”. (...)
“il rimedio a lungo termine consiste evidentemente nel massimo riassorbimento delle masse conservatrici attraverso la riabilitazione di ogni elemento responsabile. Naturalmente occorre rendersi conto che un resto vi sarà. Un certo numero rimarrà ciò che è. Occorre tuttavia guidarlo. Come? Agendo in modo deciso per privarlo dei propri mezzi di immunità e di nocività”.
Si dovrà perciò, in questo senso, maturare una giurisprudenza che distingua l'uomo illuminato che accetta ogni responsabilità e gode dei corrispondenti diritti, dal “profano”, civilmente incapace. Bene inteso, tale distinzione sarà soggetta a cambiamento, potendo ogni profano accedere all'iniziazione dopo un periodo di “prova”, vale a dire dopo avere adempiuto ai doveri che competono al suo nuovo statuto”.
Sovvengono le minacciose espressioni del “Cittadino del Mondo David Spangler, erede di Alice Bailey, fondatrice del Lucis Trust, e moderno sacerdote della Nuova Era sulla sorte da riservare a coloro che, rifiutando ad oltranza l'iniziazione alla Nuova Era, rifiuteranno il segno della Bestia: 

"Non è davvero importante sapere ciò che accadrà al vecchio mondo: siamo sicuri che il Cristo (s'intende qui l'Anticristo, n.d.r.) sorveglierà le sue milizie e che essi saranno interamente presi in carico da questa presenza cosmica...Tuttavia, noi possiamo dire qualcosa sul luogo dove andranno il vecchio mondo e coloro che vi resteranno affezionati. In tutta la creazione c'è una infinità di sfere e di ambienti, rappresentanti diversi gradi di sviluppo della coscienza...Sarà allora urgente che costoro vengano riassorbiti nei mondi interiori...in altre parole il pianeta o il livello in cui la legge di attrazione li condurrà potrà essere un altro livello della coscienza terrestre if cui essi potranno rimanere ed essere istruiti fino a quando potranno nuovamente essere rivestiti di corpo fisico...Conta poco perciò sapere se le persone dovranno essere eliminate da ogni piano terrestre o se prevarrà questo schema..." 


La comunità di intenti fra le "guide", i "master of Wisdom"  del New Age e gli alti iniziati è perfetta...come irriducibile e totale appare il comune disprezzo e odio di teosofisti e massoneria  per Cristo e la sua legge che si vuole  colpire in  coloro che la osservano e la difendono. Senonché la società che questi signori vogliono sostituire alla società cristiana non potrà reggersi perchéPpriva di ogni morale. Il rituale non è affermazione ma, come ben riconosce Sant'Agostino,  negazione, onde non può creare ma solo distruggere. Il vizio, il delitto non costruiscono ma demoliscono; perché il bene il bene e la virtù edificano e rinsaldano. La società che sta nascendo sotto i nostri occhi e in tanti, anche cattolici, salutano come l'alba di una nuova e migliore era, è dunque, una società di morte dove relativismo, soggettivismo, sregolatezza, discordia, degenerazione, droga, aborto, alcolismo, imperversano in misura sempre crescente. Gli alti iniziati stanno togliendo all'uomo quella verità che fa liberi.  fondamento di ogni libertà, lo riducono in realtà ad una schiavitù inaudita, in pari tempo, offrendogli la "libertà dalla Legge divina", quella libertà di delitto di cui pornografia, divorzio e vizio sono le manifestazioni più evidenti e impressionanti. All'insegnamento di Cristo, per cui il peccato è schiavitù, (Giov. 8,34) e la "verità rende liberi" (Giov, 8, 32) essi contrappongono quello per cui il peccato è liberazione dall'oppressione dei comandamenti, e la negazione della verità oggettiva, e quindi del Bene e della Legge oggettivi, è lo scopo per cui l'uomo deve aspirare con tute le proprie forze per realizzare la sua dignità di essere libero. 

Ma torniamo al nostro documento: gli avvenimenti e i segni ci mostrano bene che stiamo per raggiungere la fine di un grande piccolo segno (ciclo? n.d.r.). La ruota si appresta a girare , ma ssumerà il verso buono o cattivo della rotazione? Dextrosum o sinistrorsum? Verso destra o verso sinistra? Che ci predice la Ruota della fortuna la lama 10 del tarocco iniziatico ?"

Noi che pretendiamo di essere un'alleanza di uomini illuminati che senza sosta lavorano al  progresso dell'Umanità , diamo tutti assieme, in un'immensa catena d'unione , tutti gli ordini e tutte le obbedienze tra loro fuse, si, diamo tutti insieme il buon impulso alla Grande Ruota Cosmica  che misura il tempo a spirale...". Si , tutti i segni sono lì a rivelarcelo: il mondo avanza a grandi passi da quasi 300 anni che l'ultima massoneria s'è costituita". 

Senonchè, non se ne dubiti, il regno di costoro sarà breve: sulla menzogna non si costruisce, e, come vi ho già detto il male non crea, ma distrugge: Satana è il negatore, non il Creatore. Abilissimo nell'annientare egli, e come lui i suoi seguaci, è incapace di costruire. Potere quindi essere certi, su questo coincidono la buona logica e la Scrittura, che il suo regno sarà tremendo, ma assai breve. Quando l'Iniquo si manifesterà, e l'uomo metterà se stesso nel tempio di Dio (II Tess. 2,4), quando gli uomini di Chiesa avranno consumato fino in fondo la grande apostasia (II Tess. 3), quándo il Governo mondiale predetto nell'Apocalisse (13, 7-8) sarà installato e la Grande Opera satanica compiuta, allora il Signore Gesù distruggerà l'Anticristo e tutti coloro che, sedotti dalle sue lusinghe o intimiditi dalle sue minacce, non avranno accolto la verità in maniera da salvarsi (II Tess. 2,12). Egli precipiterà tutti questi operatori di iniquità nello stagno di fuoco e zolfo preparato per essi, e il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli (Ap. 14, 10-11). 

La domanda che si pone a questo punto e che investe direttamente ogni cattolico, perchè in essa è contenuto il nostro destino eterno, è questa: "E noi?", "E io?". Di che parte siamo, di che parte sono, di che parte saremo? Non ci si illuda di neutralità, tra il bene e il male non è possibile: chi si proclama indifferente, neutrale fra i due, è già dalla parte del male.' Gesù stesso l'ha detto: "chi non è con me è contro di me" (Matteo 12,30). La nostra inerzia in questi momenti prepara la nostra caduta: chi non si oppone alla corrente ne sarà rapito e l'albero cade dove pende. All'opera dunque! fin d'ora, aprendo le intelligenze, svelando l'azione della Controchiesa, staccando etichette, ripulendo apparenze, avendo ben presente la responsabilità che comporta il conoscere, che va di pari passo con quella di far conoscere, chiedendo assiduamente, quotidianamente, alla Madonna quel dono della perseveranza finale che, come ci ricorda S. Alfonso de Liguori in quella vera e propria guida del Cielo che è il suo "Apparecchio alla morte", certamente ci concederà se, a nostra volta, saremo perseveranți nel chiederglielo.

Fine. 

Le prime tre parti dell'articolo  "Mondialismo e società segrete" sono state

pubblicate sui numeri 135,136 e 137 di "Avanguardia".


Note:

23) Serge Hutin, "Governi occulti e società segrete", ed. Mediterranee, Roma 1973, pag. 62.

24) ibidem, pag. 195.

25) René Guénon, "Il Re del Mondo", edizioni Adelphi, Milano 1994, pag. 39.

sabato 15 giugno 2024

Ricorre oggi il genetliaco di un grande combattente: Léon Joseph Marie Ignace Degrelle.


Nato il 15 giugno 1906 a Buglione, una cittadina dell'Ardenna belga: la sua famiglia era di origine francese. Suo padre, Édouard Degrelle, era un birraio che si trasferì in Belgio dalla Francia nel 1901. Dopo un’adolescenza idilliaca nella pittoresca regione delle Ardenne, compì i suoi studi presso i Padri gesuiti e poi si iscrisse all'Università di Lovanio. Qui conquista il dottorato in diritto. S'interessa però a tutte le discipline intellettuali: amplia i suoi studi universitari, nella Facoltà di Scienze Politiche e Sociali; si interessa d'arte e d'archeologia, nonché della filosofia tomistica.
La giovinezza di Degrelle fu ricca di avventure. A soli vent'anni, era già proprietario di un settimanale e autore di cinque libri. Profondamente devoto al cristianesimo, si impegnò attivamente nell'Azione Cattolica, diventandone un fervente condottiero. La sua vera passione, tuttavia, era la politica: mirava a conquistare le masse, in particolare quelle marxiste, per convertirle al suo ideale di una trasformazione politica, sociale e, soprattutto, spirituale della società. Aspirava a elevare il popolo, a creare uno Stato forte, competente, responsabile e duraturo, sostenuto democraticamente da un consenso popolare consapevole e sensibile. Tenne più di duemila discorsi pubblici, sempre aperti al dibattito.
Degrelle intraprese una brillante carriera politica e militare. Nel 1932 sposò Marie-Paule Lemai, figlia di un industriale francese, e insieme ebbero cinque figli: Chantal, Anne, Godelieve, Léon-Marie e Marie-Christine. Fondò il movimento nazionalista belga di ispirazione cattolica conosciuto come "rexismo". Il 24 maggio 1936, il suo movimento ottenne un trionfo elettorale, conquistando 33 seggi tra deputati e senatori.
Il potere assoluto è ciò che cerca, in uno stile che ricorda il fascismo del tempo. L'Europa di allora era ancora confinata a nazioni gelose del loro passato, isolate dai vicini. Léon Degrelle guardava oltre. Da studente, aveva esplorato l'America Latina, gli Stati Uniti e il Canada; successivamente visitò il Nord Africa e il Medio Oriente. Conosceva l'Europa a fondo e credeva in un destino comune che un giorno l'avrebbe unita. Invitato da Mussolini, incontrò Hitler a Berlino e Churchill a Londra.
Si adoperò disperatamente, rischiando la sua carriera politica, per evitare che l'Europa precipitasse in un'altra guerra. Tuttavia, le rivalità e gli odi franco-anglo-tedeschi prevalevano. E da Mosca, Stalin mirava a sfruttare questi conflitti per imporre il comunismo in Europa una volta che fosse stata prosciugata.
La guerra scoppiò, iniziando in Polonia nel 1939, nell'Europa occidentale nel 1940, per poi diventare la Seconda Guerra Mondiale nel 1941.
Tutto cambiò. La bandiera con la svastica sventolava dal Polo Nord fino alla frontiera spagnola e alle coste della Grecia. Ma la guerra civile europea proseguiva tra tedeschi e britannici. Stalin, dal suo rifugio moscovita, attendeva il momento per porre fine al conflitto e raccogliere i frutti. Hitler lo anticipò, invadendo l'URSS il 22 giugno 1921. Per l'Europa era un tiro di moneta: vincere Hitler o Stalin.
Fu allora che migliaia di giovani volontari da tutta Europa si alzarono, comprendendo che il destino delle loro nazioni era in gioco. Alla fine, furono 600.000 europei, non tedeschi, a combattere sul Fronte Orientale, portando decine di divisioni in più alla Waffen SS.
La Waffen SS era l'esercito d'assalto europeo, sia ideologico che militare. I tedeschi, 400.000, erano in minoranza. Era, per la prima volta, un vero esercito di un'Europa unita, forte di un milione di giovani combattenti.
. Ognuna di quelle divisioni è destinata a fornire al suo popolo, dopo le ostilità, una struttura politica liberata dai nazionalismi ristretti. Tutti conducono la stessa battaglia.
Tutti hanno la stessa ideologia. Tutti vogliono lo stesso assembramento. Tutti sono diventati camerati. Di tutta la guerra europea 1940-1945, il fenomeno Waffen S.S. è il fenomeno politico-militare meno conosciuto, e, forse, il più importante.
LEON DEGRELLE ne fu uno dei guerrieri più famosi. Partito soldato semplice, guadagnando tutti i suoi gradi, da caporale a generale, per «meriti eccezionali in combattimento», conducendo 75 a corpo a corpo, ferito numerose volte, decorato con le più alte onorificenze: il collare della Ritterkreuz, le Fronde di Quercia, la Croce d'Oro Tedeica, il distintivo d'oro dei combattimenti ravvicinati, la Medaglia d'Oro dei Feriti, ecc.
Nel corso della notte che segui la fine della Seconda Guerra Mondiale, LEON DEGRELLE riuscì a sfuggire alla capitolazione superando l'Europa intera in aereo, mitragliato lungo più di duemila chilometri, per schiantarsi, gravemente ferito, davanti il porto di San Sebastian in Spagna.
E' vissuto sino alla fine del marzo 1994, in esilio, a Malaga, in una casa in cui la storia e l'arte si accoppiano. Per lui, non vi è politica senza conoscenza della Storia, non vi è elevazione dei popoli senza partecipazione alla bellezza. Dovunque, da lui, il passato più esaltante e la perfezione delle forme alimentano l'ispirazione.
L'opera di LEON DEGRELLE fu sempre epopea e poesia. Ad ognuno dei suoi passi, la grandezza di Roma, i suoi marmi, i suoi bronzi, i suoi vetri lievi ed armoniosi lo accompagnano. E la grazia dei colonnati arabi. E la gravità dell'arte gotica. E la sontuosità del Rinascimento e del Barocco. E la gloria delle sue bandiere.
Onore alla sua memoria!
Tutte le reazioni

mercoledì 24 aprile 2024

25 APRILE 1945



STORIA:

Il 25 aprile 1945 non ci fu alcuna insurrezione nelle grandi città, a cominciare da Milano, dove i fascisti inquadrati in piazza Dante e in piazza S. Sepolcro, lasciarono indisturbati la città verso le 5 del mattino dell’oramai 26 aprile.
Il CLNAI ,che doveva subentrare nella autorità di governo, uscito dai comodi rifugi curiali, per mancanza di uomini dovette far occupare le sedi governative, a cominciare dalla Prefettura di Corso Monforte lasciata da Mussolini, da reparti della Guardia di Finanza, passata all’ultimo minuto con la cosiddetta Resistenza.
Di partigiani: neppure l’ombra.
Tutti gli storici seri, hanno potuto accertare, anche con testimonianze di persone del posto e non politicizzate, che il 25 aprile la vita in Milano proseguì tranquilla, cinema e ristoranti compresi, per tutto il giorno, anche se il fantasma del CLNAI aveva proclamato l’insurrezione, ma tranne alcuni scioperi tranviari e negli uffici pubblici, qualche agitazione nelle fabbriche di periferia, qualche sirena che veniva messa in azione, nessuno se ne era accorto.
Oggi sappiamo che tutti i presunti resoconti di gesta partigiane, in quel giorno, sono pure invenzioni, che le foto, fatte a posteriori, con partigiani armati di tutto punto che fingono di affrontare un inesistente nemico, sono scenografie da set, che anche il giorno dopo, il 26 aprile, in una Milano dove oramai i fascisti se ne erano andati verso Como, alcuni gruppi di partigiani , si azzardarono a mettere fuori la testa e a presidiare alcune grandi strade, ma in genere la città non li vide proprio, tanto che ci furono vari fascisti che vi capitarono a passare, anche in camicia nera, e non furono per nulla disturbati.
Solo il 27 aprile, arrivarono in Milano, assieme ad alcune avanguardie delle truppe Alleate, alcune “divisioni” di brigate Garibaldi e simili, tutte in divise nuove fiammanti di marca americana, ad attestare che questi “eroici” partigiani, fuggiti in montagna proprio per evitare di fare la guerra, di fatto non l’avevano fatta proprio.
Fu allora che le file della Resistenza si infoltirono dei cosiddetti “partigiani dell’ultim’ora”, quelli che si iscrissero ai CLN sui banchetti di strada e nelle sedi improvvisate, e nel clima festaiolo divennero tutti partigiani. In seguito si iscrissero alle associazioni partigiane: sono quelli che poi andavano dicendo: “io ho combattuto contro i fascisti” e ci rimediarono anche qualche pensioncina resistenziale.
Questa è la verità storica di un inesistente 25 aprile quale giorno di “liberazione”.
Ma quel giorno, simbolicamente, avvenne invece, questa si, la fine della nostra patria occupata, da allora e per sempre, dallo straniero.
gli alleati imposero le loro leggi, pretesero l’abolizione delle grandi riforme sociali della RSI e la riconsegna delle imprese nelle mani degli industriali, imposero al nostro paese l’adeguamento al sistema finanziario occidentale, un sistema di usura e rapina,
i esportarono la coca cola, lo chewing-gum, i flipper e con essi il vizio, le droghe, la corruzione, ma soprattutto il modello way of life americano che è significato la fine di tutte le nostre culture e tradizioni.
E da quel 25 aprile 1945 non ci siamo più liberati, anzi oggi con 113 basi straniere sul nostro territorio, abbiamo perso ogni minimo residuo di sovranità nazionale.
Possono quindi festeggiare questa fittizia data del 25 aprile tutti i democratici, i degenerati, le destre reazionarie, e accozzaglie simili.
ridicolo è invece il festeggiamento delle sinistre, quelle che si spacciavano per comunisti: per loro il 25 aprile con l’arrivo delle truppe americane era la liberazione, un momento dopo gli americani diventarono gli imperialisti da combattere.
E questo fino a quando quel “mondo occidentale”, che loro stessi avevano contribuito ad affermare, non li ha totalmente fagocitati, trasformati in compagni al caviale, poi in neoradicali, quindi in liberal, e addio comunismo: svampito, imploso con tutta la sua utopia.
Ci sarebbe da chiede ai “compagni”: 25 aprile, ma che cazzo vi festeggiate?!

Maurizio Barozzi

lunedì 24 aprile 2023

Sapore di Fiele

 

Di tutta la storia d'Italia che ho cercato di ricostruire nei quindici precedenti volumi, questo che mi accingo a scrivere insieme a Cervi è di gran lunga il più amaro. Non per la disfatta. Ma per il modo in cui vi si giunse e per quello che produsse nella coscienza - o nell'incoscienza degl'italiani. Vorremmo raccontarlo senza pagar pedaggio a nessuna retorica.
Non c'è dubbio che la guerra portò a galla ed esaltò non le qualità, ma i difetti della nostra gente, primo fra tutti la totale mancanza di virtù militari. Non è questa la sede per ricercarne, nella Storia, le cause. Dovremmo risalire all'editto di Caracalla che esentava gl'italiani dalle armi affidandone la difesa ai « barbari », eppoi alla vittoria del Comune sul Castello e del Papato sull'Impero, che procurò l'aborto del feudalesimo, e con esso quello di una civiltà cavalleresca e militare.
Avevano ragione Machiavelli e Foscolo quando chiamavano gl'italiani alle armi dicendo che senza virtù militari non esistono nemmeno virtù civili. Ma il loro grido giungeva troppo tardi. Naturalmente anche fra gl'italiani ci sono ottimi soldati. Ma la massa è imbelle. E non per mancanza di coraggio, ma per mancanza di un'etica che gli faccia da supporto. Ho conosciuto dei disertori che, arruolatisi nella malavita, vi hanno fatto splendide carriere con la loro audacia e risolutezza.
Sarà sempre un mistero se Mussolini ne fosse conscio. Forse sì. Forse l'insistenza con cui esaltava «le virtù guerriere della stirpe» gli era suggerita dalla speranza che l'esaltazione bastasse a crearle. Qualcuno dice che l'impresa di Etiopia lo illuse di esserci riuscito. Ma è un fatto che in guerra si decise ad entrare solo quando credette che fosse già vinta. Anche se circondato da cortigiani, non poteva ignorare le pessime condizioni in cui versavano, come mezzi, le nostre Forze Armate, eccettuata la Marina, le cui lacune, peraltro gravi, erano le portaerei e il radar. Ma il nostro punto debole non era l'armamento, che i tedeschi potevano fornirci e in parte infatti ci fornirono. Il punto debole era la svogliatezza di un materiale umano che solo nell'entusiasmo - quando c'è e finché dura - trova un compenso alle proprie deficienze militari.
Ci furono, come al solito, bellissimi episodi isolati. Prima in Albania, poi in Russia, gli Alpini della Julia diedero prova di resistenza fisica, abnegazione, stoicismo. Ci furono anche episodi romantici come la carica della cavalleria di Betton a Isbušenskij, e quella dei dubat di Guillet a Cheren. Ci furono episodi veramente eroici come quello di de La Penne ad Alessandria. Ma la condotta di guerra fu nel suo insieme deplorevole: un cumulo di errori dovuti a inefficienza, faciloneria, meschinità e codardia.
E' giusto attribuirne la colpa agli Alti comandi. Ma è comodo attribuirla soltanto a loro. Gli Alti comandi della seconda guerra mondiale furono senza dubbio peggiori di quelli della prima, che
già erano stati meno che mediocri. La « carriera » non ha mai selezionato capacità. Si fondava caso mai sui « meriti », documentati in decorazioni, e soprattutto sull'anzianità. Lo « spirito d'iniziativa » - cioè la prontezza dei riflessi, l'inventiva, la fantasia - veniva esaltato solo nel « Regolamento » e nei pedestri e antiquati manuali di tattica. In realtà quella militare era una burocrazia resa ancora più rigida dall'uniforme, per la quale lo spirito d'iniziativa era sinonimo d'insubordinazione.
Ho conosciuto dei generali che avevano più paura delle responsabilità che del nemico. E Rommel, nei suoi ricordi di Caporetto, racconta di essere rimasto sbalordito dalla incapacità dei comandanti italiani, quando si videro presi da tergo, di adeguarsi alla nuova situazione. È noto che seicento cannoni rimasero puntati verso le alture, anche quando fu chiaro che gli austro-tedeschi attaccavano lungo i fondivalle, perché il comandante non voleva assumersi la responsabilità di cambiarne la postazione. Di questi episodi, nella seconda guerra mondiale, ce ne furono a centinaia.
Tuttavia i generali italiani della prima guerra mondiale, anche se poveri di strategia, di mente ottusa e d'idee antiquate, erano stati almeno selezionati in base al carattere. Cadorna non era di certo un fulmine di guerra; ma un uomo serio, duro e votato al « servizio » con zelo sacerdotale, sì. E altri come lui, nell'esercito del Piave e di Vittorio Veneto, ce ne furono. Nei loro successori del ventennio fascista anche le doti morali scaddero, il carrierismo non ebbe più freno e si giovò anche del clientelismo politico. Sia in Libia che in Albania e in Russia vidi generali impegnati più a difendere il « posto » che le posizioni. Qualcuno di essi seppe anche morir bene. Ma nell'insieme la dirigenza militare fu tale che non fu possibile trovare un sostituto del vecchio Badoglio che, come funzionario di caserma e artigiano di battaglie all'antica, era almeno il più serio ed esperto.
Sarebbe però ingeneroso e deviante far ricadere tutta la responsabilità della disfatta sugli Alti comandi. Essi non furono di certo all'altezza della situazione, ma furono a misura di una truppa, di una cittadinanza, insomma di un Paese che non offriva, né poteva fornire, niente di meglio. La tesi di certi storici di parte secondo i quali l'Italia perse la guerra per il tradimento dei suoi capi
militari, o almeno di alcuni di essi, non è degna nemmeno di essere confutata. Quelli che furono citati come casi di sabotaggio e boicottaggio erano in realtà casi di inefficienza, incompetenza e confusione, come l'invio in Albania di una grossa partita di scarpe tutte per il piede sinistro. La verità è che lo slancio patriottico che nella prima guerra mondiale aveva surrogato le deficienti qualità militari del soldato italiano, nella seconda non ei fu. Questo capitale morale Mussolini se lo era mangiato nella campagna di Abissinia, dove esso aveva toccato la sua acme contagiando tutto il
Paese. Poi l'inflazione ch'egli aveva fatto dei valori e degl'ideali a cui s'ispirava se li era mangiati e corrosi. L'Italia che il 10 Giugno del '40 scese in campo, convinta di restarci solo pochi giorni o poche settimane, era un'Italia non solo materialmente impreparata, ma anche psicologicamente « scaricata », stanca di retorica guerriera, e intimamente convinta che la vittoria sarebbe stata la vittoria dei tedeschi, più pericolosa di una sconfitta.
Fu in questo stato d'animo che le reclute partirono per il fronte, sorrette solo dalla speranza - che dapprincipio era quasi certezza - di starci poco. L'amara constatazione che il conflitto si allungava nel tempo e nello spazio abbatté completamente il loro già vacillante morale. Nelle varie zone di operazione in cui mi trovai a lavorare vidi arrivare soldati che, prima di schierarsi nei loro reparti, avevano già l'aria di prigionieri. Li vidi battersi, alcuni anche bene, ma solo per istinto di conservazione. Più spesso però li vidi sbandare e arrendersi e fuggire. Quasi mai mi capitò di vedere reparti bene impiegati, operanti disciplinatamente secondo piani ragionevoli. Quasi sempre tutto era affidato all'improvvisazione - nella quale ciascuno per conto suo si mostrava come al solito maestro -, al caso, a S. Gennaro, allo stellone. La cosa più grave era che nessuno sembrava sentirsi coinvolto nell'umiliazione delle disfatte che subivamo, anzi tutti o quasi tutti avevano l'aria di compiacersene, come contagiati da un'epidemia di masochismo, da cui nemmeno chi scrive rimase immune.
Ma il peggio del peggio venne al momento della capitolazione, festosamente accolta come una liberazione. Anzi, questa parola liberazione venne assunta come alibi della resa. Gli anglo-americani
che nel luglio del '43 sbarcarono in Sicilia non vi trovarono nessuno a difendere quello che il Duce si ostinava a chiamare « il sacro suolo della Patria » perché non erano già più il nemico, ma i liberatori. A Pantelleria l'unico morto italiano fu un soldato che si prese un calcio da un mulo. Non era nemmeno uno sbandamento. Fu uno sciopero militare. E da quel momento uno strano delirio di
autolesionismo sembrò impossessarsi di tutti, a cominciare dalla Monarchia.
Vittorio Emanuele non era più il Re di Peschiera, che nell'emergenza di Caporetto, quando tutto sembrava crollargli intorno, aveva incusso rispetto anche agli alleati anglo-francesi con la sua calma e risolutezza. Era stato lui, allora, ad assumersi la responsabilità delle più gravi decisioni, come il sacrificio di Cadorna, e il suo esempio era valso molto a rianimare la volontà di resistenza e di rivincita. Alla guerra del fascismo, ch'egli non aveva fatto nulla per evitare, aveva invece assistito come un estraneo. Anche dopo essersi lasciato strappare dal Duce la delega del Comando supremo, avrebbe avuto molti modi e pretesti per far sentire la sua presenza alle truppe combattenti. Alle notizie delle continue sconfitte che subivamo su tutti i fronti, non reagì mai con parole di dolore, o di speranza, o d'incoraggiamento. Fino alla vigilia del 25 Luglio la sua condotta fu guardinga e ambigua. Più sollecito del suo trono che dell'Italia, credette di salvarlo accollando ad altri la responsabilità di seppellire il Regime e di abbandonare l'alleato. Ma l'unica iniziativa che prese facendo arrestare il Duce all'uscita dell'ultima udienza e sulla soglia stessa della villa reale non fu un gesto da Re, come gli rinfacciò sua moglie che, per quanto figlia di un pastore montenegrino, si dimostrò più regina di lui.
Fu l'inizio di una serqua di errori che ci discreditarono agli occhi del mondo intero più di quanto ci discreditasse la disfatta. La scelta di Badoglio fu infelice. Gli approcci con gli alleati, malaccorti al punto da renderci sospetti di doppio giuoco. La fuga di Pescara, ignominiosa. E non è vero che il Re vi fu costretto dal dovere di assicurare la continuità dello Stato e la responsabilità del comando. Stato e comando non esistevano più, e comunque potevano essere affidati al Principe Umberto. Se il Re, proclamato l'armistizio, fosse rimasto al suo posto offrendosi ai tedeschi come capro espiatorio del « tradimento », quasi certamente avrebbe perso la vita, ma quasi certamente salvato la Monarchia e in un certo senso l'immagine dell'Italia.
Ma questa immagine contribuimmo tutti ad offuscarla. Se l'esempio del « Si salvi chi può » venne dall'alto, bisogna dire che tutto il Paese dimostrò la più favorevole disposizione a seguirlo. La segreta speranza di tutti gl'italiani, civili e militari, era di cavarsi fuori da quella tragedia senza pagare dazio né ai tedeschi né agli alleati. Il 25 Luglio un fascista, uno solo ci fu, che scelse, suicidandosi, di morire col Regime: Manlio Morgagni, presidente dell'agenzia di stampa « Stefani »: una carica che, dopo la Liberazione, non gli sarebbe forse costata nemmeno un mese di carcere.
L'8 Settembre non ci fu un solo colonnello che, per non consegnare la caserma ai tedeschi, si sparasse un colpo di rivoltella. Lo sfacelo fu totale.
Altrettanto la mancanza, in noi italiani, di ogni senso di tragedia per questo sfacelo.
L'Italia non aveva mai dato di sé uno spettacolo tanto miserando. Nessun capitolo della sua Storia è più umiliante, vergognoso e, specie per chi ne fu partecipe, più doloroso da rievocare.
Indro Montanelli
L'Italia della Disfatta, pagg. 5-12