domenica 21 febbraio 2010

Lucciole per lanterne

domenica, 21 febbraio 2010

"Italiani popolo di santi, poeti e di  navigatori..."
B.M.

Mussolini, in un discorso del 1935, all'inizio della conquista dell'Etiopia, parlando del popolo italiano, fece questa solenne affermazione. Oggi, dopo oltre dieci lustri, il detto andrebbe sicuramente aggiornato. E dire che esistono individui che osano accostare la figura immacolata del Duce, a quella dell'attuale capo del Governo. Una bestemmia vera e propria, che non conosce limiti alla decenza. Ora che la cloaca è stata nuovamente scoperchiata, il fetore aleggia su tutto lo stivale italico, una seria analisi si impone ad ogni onesto italiano (degli Italyoti me ne frego!!). La prima cosa che verrebbe da dire è questa: "Tangentopoli non è servita a nulla". In questa affermazione c'è sicuramente del vero poiché in quella operazione (scattata  sicuramente in ritardo e paradossalmente ad orologeria) venne escluso (o quasi) il più grande partito d'opposizione: il P.C.I. Negli anni successivi, Berlusconi ha fatto passare l'idea che le leggi andavano interpretate, la costituzione rivista e  che la corruzione fosse inevitabile. Sulla Costituzione sono ancora più drastico,  visto che essa ha visto la luce in un periodo storico dove l'obiettività non albergava più a Roma...Non è esattamente un film di cattivo gusto, ma quasi...E' un documentario della storia italiana, fatta d'intrallazzi, di poltrone, di corruzione e malversazioni. Prima, per molto di meno, si rischiava grosso. Ora, visto che il puzzo è diventato insopportabile (non a caso il MSI fece la sua campagna elettorale dopo mani pulite distribuendo "saponette"), si cerca di correre ai ripari. In realtà solo gli ingenui possono credere alla favoletta delle pene più severe per i corrotti.  La Corte dei Conti ha quantificato l'andazzo della corruzione  con numeri da capogiro:  ogni anno ci sarebbe stato un aumento esponenziale del fenomeno. Il guaio è che finanche due Giudici della Corte sono indagati, oltre ad un giudice Costituzionale e ad un Magistrato della Procura romana. Inoltre se prima si rubava per i partiti adesso, a causa di un individualismo esasperato,  si ruba per proprio conto.  Il guaio è che non esiste alcun freno morale a tale andazzo. Chi non segue la scia è un pirla, un buono a nulla. Ecco la triste verità!  Mussolini tentò di ridare dignità al Popolo italiano, senza perseguire politiche di interesse personale. Ecco la verità. Allora lo Stato era proprietario della moneta; adesso nemmeno l'Europa (altro ente creato ad hoc dalle banche) lo è!.  E chi fa indebiti paragoni fra il Duce, Benito Mussolini (Che Dio lo abbia in Gloria!) e Berlusconi scambia lucciole per lanterne!!
© Douglass

sabato 13 febbraio 2010

La lotta al comunismo


In seguito alla recente scomparsa (11 febbraio u.s.), alla veneranda età di ottantanove anni, a Roma, del Prof. Pio Filippani Ronconi, orientalista di chiara fama, pubblico, qui appresso, uno scritto illuminante a firma di Alfonso Piscitelli.

“…una guerra totale contro l’apparato
sovversivo marxista che rappresenta
l’incubo del mondo moderno e ne
impedisce il naturale sviluppo”.



Pio Filippani-Ronconi era reduce da una esperienza di guerra intensa e tuttavia scevra da furore ideologico. Il suo arruolamento nella Legione di Volontari delle SS italiane aveva avuto meno il significato di una dichiarazione di fede nazional-socialista che non di una testimonianza di fedeltà ghibellina agli ideali della alleanza tra i popoli tedesco e italiano, nel momento in cui a guerra in corso tale alleanza risultava sovvertita.

Nel corso di tutto il dopoguerra, coerentemente con tale premessa, il conte si sarebbe tenuto in disparte da quegli ambienti che lucravano (modeste) fortune elettorali sulla memoria del Duce, o sulla ripetizione degli slogan socialistici del fascismo della fine. Dal punto di vista del ragionamento politico Filippani esprimeva le sue perplessità riguardo al tentativo di perpetuare un partito-ghetto di nostalgici; dal punto di vista spirituale combatteva con vigore i tentativi di “politicizzare” la ricerca esoterica. Nell’ottica di Filippani, non era da un cambiamento di sistema politico che doveva attendersi l’impulso a un rinnovamento esistenziale (individuale, o collettivo), bensì da una autentica Scienza dello Spirito capace di orientare l’individuo verso le esperienze superiori dell’anima. D’altra parte, non essendo un anti-moderno egli non pativa quell’atteggiamento di terrore nei confronti dell’ “età del ferro” (l’età degli uomini abbandonati a se stessi dagli Dei, posti dunque di fronte alla prova dell’indipendenza) che tanti casi di auto-emarginazione aveva suscitato nell’ambiente del tradizionalismo integrale.

Il ritorno alla vita civile, dopo un breve periodo di prigionia militare, non coincise pertanto con il tempo della nostalgia e del ripiegamento su se stessi. Leggiamo da un sito internet, che in maniera sinistra ne ricostruisce la biografia a partire dal dopoguerra: “Ufficialmente è impiegato, con diversi gradi via via che passano gli anni, all’ufficio radiodiffusione per l’estero della presidenza del consiglio; ma lavora per i servizi segreti: fa il traduttore e, grazie alla sua conoscenza del sanscrito, diventa un grande esperto in decriptazione di messaggi intercettati dai servizi italiani. All’inizio degli anni Cinquanta compie una missione in Persia, con il compito di raccogliere informazioni politiche e militari nell’area. Collabora anche con i servizi di sicurezza dell’America Latina : intorno al 1950 produce ad esempio uno studio sulla situazione politico-militare della Bolivia, “prevedendo una rivoluzione che scoppiò di lì a pochi mesi”. Nel 1959 comincia una carriera accademica di tutto rispetto all’Istituto Orientale di Napoli. Ma continua a lavorare per i servizi segreti almeno fino alla metà degli anni Settanta (così ammette egli stesso nel 1995, in uno degli interrogatori a cui è sottoposto nel corso delle ultime indagini sulla strage di Piazza Fontana). La notizia biografica può essere integrata osservando:
  1. che già prima della guerra, giovanissimo studente universitario, per la sua padronanza delle lingue Filippani era stato impiegato alla filodiffusione per l’estero come lettore di radiogiornali in lingua straniera.
  2. che già durante la guerra una sua certa capacità di intuizione era stata messa a profitto per individuare postazioni nemiche ed eventuali movimenti.
  3. che la ragione dei ripetuti viaggi di Filippani in Persia non è forse del tutto estranea alla circostanza che egli sia stato uno dei più autorevoli studiosi dello zoroastrismo, delle correnti sciite ismailite, della civiltà iranica in generale.
  4. che gli interrogatori sulle stragi hanno escluso qualsiasi forma di coinvolgimento, come peraltro riconosce lo stesso sito internet citato (“Indagato no, non ha mai ricevuto alcun avviso di garanzia”).

Precisazioni a parte, dalla sintesi biografica emerge l’immagine di un uomo d’azione, dalle qualità non comuni, indifferente alle sirene della mobilitazione politica, ma deciso ad offrire il proprio contributo a quel fronte articolato che si opponeva alla marea del comunismo, sia detto per gli immemori: il sistema totalitario più brutale dell’età moderna.

Gli anni Sessanta si erano aperti con l’edificazione del Muro di Berlino, che poneva il sigillo sull’universo concentrazionario dell’Est. Già qualche anno prima gli Ungheresi, i Polacchi, i Tedeschi dell’Est erano insorti inutilmente contro il regime di Stalin, e Bertold Brecht, cantore della liberazione marxiana del mondo, aveva inneggiato alle mitragliate dei Vopos sulla classe operaia in rivolta. L’impero rosso copriva l’immensa distesa dell’Heartland: la roccaforte del mondo, ovvero la distesa eurasiatica individuata dai maestri della geopolitica come centro strategico del pianeta. Bandiere rosse sulla Romania, che tra le due guerre aveva vissuto una felice stagione culturale; sulla Ungheria dove ancora erano visibili le realizzazioni dell’amministrazione asburgica. Sull’Ucraina che per due volte aveva accolto i Tedeschi più come liberatori che come nemici. E mentre nell’Oriente asiatico il “grande balzo in avanti” di Mao spingeva nella fossa cinquanta milioni di cinesi, nell’Est europeo identità culturali venivano annullate, popoli smembrati, cancellati, stretti in catena. Sotto il tiro dei mitra risorgevano gli Stati fantoccio del 1919: la Cecoslovacchia – convivenza coatta tra Boemi e Slovacchi –, la Jugoslavia, mostruosa concentrazione di genti germanizzate (i Croati), mussulmani di Bosnia e Kosovo, di slavi delle montagne. L’esempio della Jugoslavia, pur riottosa al dominio di Mosca, suscitava una particolare impressione sugli Italiani onesti. Il comunismo slavo passava come un rullo compressore sulle coste e sulle isole che da Ragusa a Capodistria per secoli avevano goduto dell’azione civilizzatrice di Venezia. Nomi di città tutto a un tratto cambiavano, la terra inghiottiva i corpi senza riuscire a nascondere il sangue. E in fondo, le perdite imposte dalla immutata legge di Brenno furono contenute. I comunisti italiani nel 1945 avrebbero voluto che non solo Trieste ma la stessa Venezia fossero offerte all’ingordigia jugoslava-comunista. L’ideologia rendeva indifferenti di fronte alla eventualità che le madri di Venezia subissero il medesimo oltraggio delle donne di Berlino.

Il comunismo che era stato concepito da Marx alla metà dell’Ottocento ed era fallito come idea già alla fine dello stesso secolo, imposto a mezzo mondo da Lenin e da Stalin, radunava una umanità composita: il caudillo di Cuba, dedito alla gestione del turismo sessuale e del traffico di stupefacenti, il medico argentino Guevara de la Serna che proprio nelle carceri di Cuba sperimentava i propri metodi di tortura; la miriade di popoli, etnie, tribù che dalla pianura russa fino al fiume giallo accettavano in fondo il comunismo perché mai avevano sperimentato nella loro storia il clima delle libertà individuali.

Su popoli di consolidata civiltà l’ Uomo Nuovo di Stalin attecchiva come un fenomeno di corruzione antropologica. I Tedeschi dell’Est un tempo erano i Prussiani e sotto il loro tacco tremava la terra. Per qualche decennio la Repubblica Democratica Tedesca fu il più efficiente regime dell’Est: indubbiamente non per gli effetti della ideologia, ma per le doti della sua etnia. Il sangue però non può compensare la corruzione dello spirito. Quelli che un tempo erano i Prussiani in pochi decenni sarebbero divenuti gli “Ossi”, gli indolenti Orientali che oggi se ne stanno seduti sull’uscio di casa a stendere la mano in attesa di una elemosina da parte dello Stato sociale.

Chi è nato negli anni in cui Mister Gorbaciov era costretto a dichiarare bancarotta e la centrale di Cernobyl vomitava sul mondo gli ultimi veleni del socialismo realizzato stenta a capire il clima che si respirava negli Stati d’Europa del dopoguerra. Certo sul fuoco del pericolo comunista soffiava l’America e lucrava i vantaggi di una divisione del mondo che essa stessa aveva propiziato, ma il pericolo c’era. Una maggioranza di persone tutto sommato avvedute, operose, equilibrate (la cosiddetta “maggioranza silenziosa”) avvertiva in Europa il pericolo; una minoranza chiassosa lo esaltava, muovendosi nelle strade come un immenso serpentone ipnotizzato. Ancora oggi, dalla geenna della storia, la sirena comunista continua ad ammaliare le menti dei più offuscati.

L’ipnosi oscurava anche intelletti non banali: e se nel 1954 Scalfari pronosticava l’imminente sorpasso dell’URSS sugli USA nel campo della produzione industriale e del benessere, per Moravia le file davanti ai negozi alimentari a Mosca erano preziosi momenti di socializzazione e per Ingrao Mao-Tse-Tung non era un serial killer di milioni di compatrioti, ma semplicemente un poeta.

Il fatto che le bombe atomiche di USA, Inghilterra, Francia creassero un deterrente all’armata rossa non impediva all’arma non convenzionale dell’ideologia di infiltrarsi in tutte le vene della società civile. Il PCI affermava con orgoglio di essere la quinta colonna di Mosca. Del resto l’URSS pagava bene i propri dipendenti e concedeva anche qualche soddisfazione: l’onesto Berlinguer quando inventò l’“eurocomunismo” e quando dichiarò di accettare le rassicurazioni offerte dalla NATO chiese ed ottenne preventiva autorizzazione da Mosca. Intanto i sindacati nel 1969 candidamente confessavano che l’obiettivo delle loro lotte era la distruzione del sistema produttivo; i giudici politicizzati teorizzavano la “giustizia di classe”; i professori di storia negavano il più immenso genocidio di tutti i tempi perpetrato dall’Istria fino alla Cambogia di Polpot.

Al di là dei ristretti ambiti militari si poneva pertanto un duplice problema:
  1. Combattere all’interno della società civile la penetrazione della ideologia comunista.
  2. Valutare il caso estremo di una invasione da Est, o di un’insurrezione su larga scala promossa dall’Est, articolando i termini di una possibile difesa e risposta.
Parade e Reponse per dirla alla francese, ma si sarebbe anche potuto dire: resistenza e contrattacco. Edgardo Sogno, capo partigiano antifascista, fu tra i più attivi sostenitori di una nuova resistenza, per questo non mancò di diventare il bersaglio di certi ambienti che ramificavano la loro influenza nei settori della magistratura e del giornalismo.

I medesimi ambienti avrebbero utilizzato strumentalmente per anni gli atti del convegno tenuto all’Hotel Parco dei Principi nel 1965 dal centro studi strategici intitolato ad Alberto Pollio. Convegno che vide nella relazione di Pio Filippani-Ronconi uno dei momenti più significativi.

Indubbiamente in un paese in cui la connivenza col nemico, spesso pagata,a volte addirittura gratuita e l’alto tradimento nei confronti del proprio Stato vengono scusate, mentre al contrario i membri di uno struttura regolare della NATO dalle ovvie finalità vengono inquisiti è più facile capovolgere l’interpretazione storica. Ma se è vero che mandanti ed esecutori delle stragi dal 1969 al 1984 rimangono avvolti in una nube oscura, se è anche vero che è lecito ipotizzare responsabilità diverse – anche, forse soprattutto, internazionali – se è anche possibile pensare che alcuni fanatici neofascisti strumentalizzabili abbiano fatto in qualche caso da manovalanza è cento volte più vero che dopo ogni strage a partire dagli anni Settanta scattava un copione fisso come il rituale di una religione di stato: sciopero generale, mobilitazione antifascista, deputati democristiani e comunisti insieme sul palco. Si creava nel paese un’immensa “tensione”, una tensione elettrica che riduceva in cenere le aspirazioni politiche di ogni gruppo marcatamente o vagamente “nazionale”, mentre affermava l’imperativo categorico – come un “Vincere!” d’altri tempi – del compromesso storico, ovvero dell’assimilazione dei comunisti al governo. Con questo non si vuole affermare una pista dell’Est per le stragi: non ci sono le prove, mentre vi sono le prove di una regia dall’Est per le imprese delle Brigate Rosse fino all’assassinio di Moro e per l’attentato a Wojtila. Si vuole semplicemente fare una constatazione: in un paese in cui l’opinione pubblica era fortemente sollecitata dai mezzi di comunicazione (che erano strumenti nelle mani dei partiti e dei potentati economici), tale opinione – come in un rituale – veniva orientata dopo ogni strage in direzione della assimilazione al potere del partito eterodiretto da Mosca. Detto ciò si possono immaginare mandanti di ogni colore e nazionalità, ma al di là della immaginazione ipotetica rimane la percezione dei fatti storici. Dopo ogni strage si scatenava una tensione che salvava i democristiani al governo associandoli ai comunisti, con i risultati che ne venivano: il piccolo imprenditore, spina dorsale del sistema produttivo, inciampava in mille tagliole; il militare veniva umiliato e l’esercito privato di ogni reale efficienza; le stesse forze dell’ordine venivano ridicolizzate (si pensi a tutte commedie di serie B sui carabinieri) con effetti non trascurabili; il teorico della politica critico nei confronti della Costituzione del 1948 veniva denunciato come fascista; e i politici fascisti latu senso rinchiusi in un ghetto che si sarebbe riaperto solo nel 1993 con l’avvento di Silvio Berlusconi.

Chi oggi dicesse che tutti i mali della società italiana sono causati dagli immigrati, che tutti i mali dell’economia sono causati dagli ebrei, che tutti i problemi della cultura sono dovuti all’egemonia dei comunisti verrebbe facilmente accusato di essere un mistificatore che cerca un capro espiatorio. Il “blocco” fascista-militare è stato accusato di essere il mandante delle stragi e di ogni complotto da un ampio sistema di potere politico-giudiziario-giornalistico: quel blocco ha fatto da capro espiatorio mentre il fronte politico dell’arco antifascista prendeva ogni potere. È qui il caso di dire: chi agita la teoria del complotto, è proprio lui il cospiratore! Una piccola minoranza di anticomunisti-duri è stata accusata di ogni nefandezza per imporre a una maggioranza di italiani anticomunisti-moderati l’intesa di governo catto-comunista. In questo contesto l’Istituto Pollio e il suo convegno sulla lotta al comunismo è divenuto il fulcro della demonizzazione. È passata l’idea che combattere il comunismo e volere le strage fossero i due termini di una equazione. Come se non fosse stato il comunismo essenzialmente una strage di dimensioni planetarie. L’anarchico Valpreda teorizzava apertamente la guerriglia stragista a base di bombe (“bombe, sangue e anarchia!”), ma viene oggi considerato un innocuo ballerino; invece, attraverso interpretazioni “metaforiche” dell’intervento di Pio Filippani-Ronconi si è voluto leggere in esso il manifesto della strategia della tensione.

Filippani intervenne l’ultimo giorno dei lavori all’Hotel Parco dei Principi e solo in seguito scrisse il testo del suo intervento, poi raccolto negli atti del convegno.

Sosteneva Filippani che “l’errore fondamentale delle cosiddette controrivoluzioni” è quello di aver schierato le forze “su una sola linea ideale e pratica – quindi individuale”, una linea destinata in caso di sconfitta alla distruzione totale. Bisognava pertanto operare per “preparare sin da ora uno schieramento differenziato, su scala nazionale ed europea delle forze disponibili per la difesa e l’offesa”.

A tal scopo si proponeva un sistema basato su tre livelli di organizzazione: il primo formato da individui disposti a “un’azione passiva, che non si impegni in situazioni rischiose” in grado di fungere da “schermo di sicurezza per i livelli successivi”; un secondo livello che – parole testuali dell’autore – “potrà essere costituito da quelle persone naturalmente inclini o adatte a compiti che impegnino azioni di pressione, come manifestazioni sul piano ufficiale, nell’ambito della legalità, anzi in difesa dello Stato e della Legge conculcati dagli avversari. Queste persone che suppongo , potrebbero provenire da associazioni di Arma, nazionalistiche, irredentistiche, ginnastiche, di militari in congedo ecc… dovrebbero essere pronte ad affiancare, come difesa civile, le Forze dell’Ordine (Esercito, Carabinieri, Pubblica Sicurezza ecc.) nel caso che fossero costrette ad intervenire per stroncare una rivolta di piazza”.

“A un terzo livello – aggiungeva Filippani-Ronconi – molto più qualificato e professionalmente specializzato, dovrebbero costituirsi – in pieno anonimato sin da adesso – nuclei scelti di pochissime unità addestrati a compiti di controterrore e di “rotture” eventuali dei punti di precario equilibrio, in modo da determinare una diversa costellazione di forze al potere. Questi nuclei, possibilmente l’un l’altro ignoti, ma ben coordinati da un comitato direttivo potrebbero essere composti in parte da quei giovani che attualmente esauriscono sterilmente le loro energie in nobili imprese dimostrative…

Di là da questi livelli dovrebbe costituirsi, con funzioni “verticali”, un Consiglio che coordini le attività in funzione di una guerra totale contro l’apparato sovversivo comunista e dei suoi alleati, che rappresenta l’incubo che sovrasta il mondo moderno e ne impedisce il naturale sviluppo.”

Il giudice istruttore di Milano Guido Salvini scrive nella sua sentenza-ordinanza su Piazza Fontana che nelle parole di Filippani-Ronconi si trova “una vera e propria sintesi teorico-operativa della strategia della tensione”.

Chiunque abbia frequentato un modesto corso allievi ufficiali può accorgersi invece che il discorso di Filippani-Ronconi è squisitamente militare e si riferisce a tipiche operazioni che avvengono in presenza di una insurrezione su larga scala spalleggiata da potenza nemica (e all’epoca ne avveniva una ogni anno…). Le riflessioni si inserivano in un contesto che è difficile dimenticare: la presenza dei paesi comunisti sovietici ai confini di Trieste, alle porte di Bayreuth. L’azione di un partito di massa assolutamente subordinato a Mosca. L’eventualità che per effetto di una crisi sociale, se non di una guerra guerreggiata, si potesse rompere il fragile equilibrio della coesistenza pacifica. In tale eventualità l’URSS avrebbe avuto i suoi volenterosi ascari in Italia e l’Italia un suo governo collaborazionista, di tipo bulgaro o cecoslovacco.

In questo scenario che non si è verificato (perché il sistema comunista – ben fronteggiato – è imploso all’interno prima di poter provocare una ulteriore esplosione esterna) ma che indubbiamente era ipotizzabile, si inserisce la strategia della guerra controrivoluzionaria. Qui l’ex ufficiale delle SS delinea paradossalmente un sistema di “resistenza” per una guerra di liberazione: il primo livello che deve portare soccorso e rifugio ai combattenti d’élite si concepisce in un territorio sottoposto a violazioni della propria sovranità. I nuclei scelti di controterrore si inseriscono nello scenario di una insurrezione interna (appoggiata dall’estero o addirittura concomitante ad una invasione) che paralizzi il tessuto delle forze armate regolari. Il fatto che le unità combattenti d’élite agiscano separatamente senza sapere l’una delle altre è un classico accorgimento per evitare che una rete che agisce in territorio insidiato venga smantellata come una maglia che si sfila tutta tirando un solo filo. Infine che le unità debbano essere coordinate da una centrale è cosa troppo stravagante o la magistratura democratica ritiene che il coordinamento sia il principio della dittatura? Si potrebbe continuare a disquisire di tattica e di logistica, ma il livello della esegesi che ha voluto collegare il Parco dei Principi a Piazza Fontana è più prosaico ed è anche più ridicolo. È possibile che fascisti e militari rivelino in un convegno la preparazione di un orrendo crimine? Ed è concepibile che un ex ufficiale decorato dichiari che c’è bisogno di una armata divisa in quattro livelli per mettere una bomba da attribuire all’avversario? I servizi segreti talvolta compiono operazioni che in gergo si definiscono “dirty flag”, con bandiera sporca, attribuendo una azione al nemico per provocare una reazione. Ma cose del genere somigliano al sesso: chi le fa non ne parla.

Checchè se ne dica, il pericolo russo per tutti gli anni del lungo dopoguerra era reale. Reale anche il pericolo di un’infiltrazione a tutti i livelli di emissari comunisti. A ben vedere il primo pericolo – più evidente – è stato sventato, grazie all’energia produttiva dell’Occidente, alla efficienza militare dei paesi NATO, grazie anche a quella coscienza della libertà che nonostante tutto caratterizza le nazioni di origine latino-germanica. Il secondo pericolo, più sottile, è stato avvertito da pochi, combattuto per quanto era possibile, non del tutto sventato. Lo scenario apocalittico che aleggiava sulle considerazioni dei relatori del Convegno del C.S. Pollio non si è verificato, ma indubbiamente quel deterioramento della situazione nazionale che Filippani notava in gran parte è avvenuto.

Non vi è stato fortunatamente bisogno di corpi d’élite per organizzare la Parade e la Reponse al comunismo, ma è pur vero che la volontà reattiva dell’Occidente secondo una strategia che si snoda dal Piano Marshall fino agli Euromissili ha contribuito ad annientare un regime che destinava alle spese militari una percentuale massiccia del proprio prodotto interno. D’altra parte il dilettantismo dei movimenti di destra, il loro muoversi in attività di mera dissipazione di energia, il deprecabile teppismo di talune frange (fino a giungere all’aberrante terrorismo di altre) hanno prodotto per la destra politica un esito autolesionistico che Filippani aveva previsto quando esortava a dedicarsi ad attività più pratiche o più spirituali. Il comunismo è crollato – perché questo era per dirla con gli Indiani il suo inevitabile karma – ma la destra che il comunismo “nobilmente” fronteggiava spesso è caduta trappola delle criminalizzazioni o delle strumentalizzazioni.

Va detto, per onestà, che Almirate propose la pena capitale per i terroristi di destra; la sinistra propone ancora oggi per i suoi terroristi una “comprensione intellettuale” che in taluni casi sfiora la giustificazione.

lunedì 8 febbraio 2010

E Garibaldi sformò l’Italia

Quel che non si dice del mitico generale. Il caso più famoso fu il massacro di Bronte. Ma non ci fu solo quello. La storia del Mille e del loro capo è piena di tante ombre. Ecco quel che dovreste sapere e che non vi è mai stato raccontato...

[Da «il Sabato», 31 gennaio-6 febbraio 1987, p. 19]

Carlo Alberto, il re tentenna. Mazzini, l’apostolo della Patria. Garibaldi l’eroe dei due mondi. Cavour, il gran tessitore. E poi il «grido di dolore», «Obbedisco»!, «Ci siamo e ci resteremo», «Qui si fa l’Italia o si muore», «Roma o morte»! e così via. Abbiamo una storia da operetta: bisogna avere proprio un cuore di pietra per non scoppiare a ridere. Qualche storico ha cominciato a dissipar le nebbie su quel colossale falso storico (e dove era leggenda appaiono spesso grottesche pagliacciate e talvolta imprese criminali). Ma gli eroi del risorgimento restano. Il Mazzini ad esempio. Che dire della descrizione che ne dà il Farini fuori dei canoni ufficiali: «Mediocre uomo in tutto, orgoglio stragrande in sembianza d’umiltà», astratte vacuità...? Garibaldi poi è marmo e bronzo.

Lo sceneggiato TV Il Generale di Magni fa di tutto per sfuggire all’enfasi e alla retorica. Ed era ora. Ma la scelta di Franco Nero ha dato un tocco di edulcorata classe holliwoodiana ad un personaggio, il Garibaldi storico, piuttosto rozzo e un tantinello esaltato. Sentiamolo: «Papa e clero disgrazia e cancro d’Italia». Ed ancora: «Il grido d’ogni italiano, dalle fasce alla vecchiezza deve essere: guerra al prete»!. Tale fu la scienza e la ‘classe’ del nizzardo. Appena sbarca in Sicilia si proclama Dittatore, svuota conventi e monasteri, li saccheggia, confisca, scioglie a forza i Gesuiti, imprigiona, stabilisce bivacchi militari nelle splendide chiese meridionali. Garibaldi era stato iniziato alla Massoneria nel 1842 a Montevideo. A Palermo fonda una quantità di Logge. Nel 1864 viene eletto primo Gran Maestro della massoneria italiana e poi Gran Maestro onorario a vita. (Massoni erano pure Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele, Crispi, Ricasoli e così via). Con lui la massoneria italiana vara una virulenta tradizione anticattolica.

Il nostro eroe che mise al suo asino il nome del Papa, che chiamava Pio IX «un metro cubo di letame» (nel 1881 i massoni dettero addirittura l’assalto al funerale del Papa per scaraventarne la salma nel Tevere) fu il caposcuola su cui si formarono quelle generazioni di liberi-pensatori. Fra questi, qualche anno dopo, il mangiapreti romagnolo Mussolini Benito. Siamo appena nel 1904 quando il giovane rivoluzionario di Predappio attacca Papa Sarto «in nome dell’Anticristo che è la ragione, che si ribella al dogma e abbatte Dio». Pochi anni dopo salirà agli onori della cronaca per un libello blasfemo scritto per celebrare l’anniversario della morte di Garibaldi. Ma ancora nel 1918, direttore de Il Popolo d’Italia, sarà a Milano, sotto il monumento a Garibaldi a celebrare la vittoria. «Fin da giovane Mussolini era stato un esponente tipico, quasi caricaturale dell’ideologia massonica» (Vannoni). La pacata e lucida mente di Jemolo vedrà nel Mussolini, ormai Duce d’Italia, «il più diretto erede del garibaldinismo».

Del resto il «segreto iniziatico» della dottrina massonica non è proprio l’autodivinizzazione dell’uomo e l’idolatria del Capo/Stato? (Nei catechismi patriottici si celebrava in Garibaldi la Trinità: «Il Padre della patria, il Figlio del popolo, lo Spirito della libertà»).

Si potrebbero poi sorprendere i legami del garibaldinismo col fascismo anche attraverso curiosi canali secondari. Il massone, mazziniano, Eduardo Frosini ad esempio, che sedette alla presidenza del I congresso fascista di Firenze (1919), che nel suo giornale La Questione morale (già allora!) per primo propugnò la vocazione imperiale di Roma. Del resto proprio il garibaldino-massone Crispi aveva varato in grande quella politica coloniale imperialista che il Duce si sentirà in dovere di portare a compimento, con la fondazione dell’Impero. Altri generali garibaldini (e massoni) come Nino Bixio, dai massacri di contadini calabresi finiranno i loro anni a mercanteggiare in schiavi cinesi con il Perù. È la singolare epopea dei ‘liberatori’...

La conquista del Sud. Lo sceneggiato televisivo di Magni racconta dunque soltanto il biennio ‘60-’61 del nizzardo. Quello sceneggiato dice e non dice: troppo lontana è la verità dalla leggenda. Proviamo allora a oltrepassare il fronte, per capire finalmente come fu visto Garibaldi, in quei due anni, dalle popolazioni ‘liberate’. Spigolature di un documento eccezionale davvero da antologia, e oggi quasi introvabile. È un libello appassionato e infuocato di un intellettuale napoletano, Giacinto de Sivo, pubblicato quasi un secolo fa clandestinamente e anonimo, e nel 1965 ristampato in copia anastatica da un piccolo editore: I Napolitani al cospetto delle nazioni civili. È la stessa storia, ma stavolta scritta dai vinti: il grido di ribellione di un popolo non solo colonizzato e umiliato dai sedicenti ‘liberatori’ ma per di più coperto di menzogne nella storia ufficiale, quella scritta dai vincitori. «Ell’è una trista ironia lo appellar risorgimento questo subissamento del bel paese».

L’altrastoria. Il Regno delle due Sicilie è libero e indipendente fin dal 1734, con un re italianissimo, napoletano. Non è una terra ricca solo di passato (da Cicerone a Orazio, a S. Tommaso a Vico a Tasso...): ha una grande tradizione giuridica, enormi ricchezze artistiche e — si direbbe oggi — ambientali. La statistiche dicono: in proporzione meno poveri che a Parigi e Londra, le tasse più lievi d’Europa, la prima flotta d’Italia, una popolazione cresciuta di 1/3 dal 1800 al 1860, un debito pubblico di appena 500 milioni di Lire per 9 milioni di abitanti, contro il Piemonte che ha più di mille milioni di debito per quattro milioni di abitanti (il sud in sostanza dovrà pagare i debiti del Piemonte, anche. quelli fatti per conquistarlo). Inoltre «erano in cassa 33 milioni di ducati quando il liberatore Garibaldi vi mise su le mani e li fe’ disparire».

Il re di Torino, di origini e lingua francese aveva spedito un nizzardo a «liberare dagli stranieri» una terra governata da un re ben più italiano di lui (per di più Napoli era, in confronto a Torino quel che oggi sarebbe Firenze in confronto ad Aosta). Ma il re di Napoli, cattolico e sostenitore del Papa, negli equilibri internazionali era sostanzialmente isolato.

Dunque come possono 1000 uomini male armati e peggio vestiti distruggere così un Regno con un esercito di 100.000 uomini? I vincitori rispondono (e hanno scritto): per il gran valore dei garibaldini e l’appoggio delle popolazioni. In realtà Garibaldi poteva esser rigettato in mare fin dallo sbarco. La vera arma vincente che spianò la strada al nostro fu quella della massoneria piemontese e francese che fra burocrati, ufficiali e ministri si era comprato tutto il Palazzo di Francesco II: «La setta corrompe e inventa la storia» scrive De Sivo, «sospinge l’umanità a subire la tirannide o ad esser tiranna». Qualche esempio. A Calatafimi il generate Landi (al prezzo di 18.000 ducati) impedisce ai suoi di sbaragliare i garibaldini già in rotta. Senza alcuna ragione 20.000 soldati vengono fatti uscire da Palermo senza colpo ferire. E poi Milazzo, Messina: migliaia di soldati di Francesco spediti sulle montagne lontane. Il generale Ghio ne disciolse 10.000. Altrettanti il generale Briganti che però viene fucilato sul posto, per alto tradimento dai suoi stessi soldati. E poi altri ufficiali leali al re costretti a disarmare le proprie truppe e a consegnare migliaia di soldati a qualche decina di garibaldini che avevano loro stessi sbaragliato e ridotto alla resa. E infine le sconfitte di Garibaldi sul Volturno e l’incredibile comportamento degli ufficiali di Francesco che avevano ormai Napoli e la vittoria definitiva a portata di mano.

Un generale Cialdini, ad esempio che passò con Garibaldi mitragliando le popolazioni insorte contro il suo tradimento (come, anni prima, erano insorte contro Pisacane). Decine dl città «reazionarie», che avevano organizzato la resistenza (da Isernia, a Venosa, a Barile, Monteverde, Cotronei, S. Marco e così via) furono distrutte e bruciate dai Garibaldini. Villaggi, cascine, molini, saccheggiati, contadini massacrati (non solo a Bronte). «Purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava del prete» scriveva il traditore generale Pianelli nel febbraio ‘61, passato coi ‘liberatori’.

«Napoli non avversa l’Italia» scriveva appassionatamente il nostro De Sivo, «ma combatte la setta, che è anti-italica, com’è anticristiana e anti-sociale, atea e ladra». Da questa ribellione nasce il brigantaggio contro l’occupante piemontese. «Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni; e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui?».

Il De Sivo si appella ad un’Europa complice e connivente dell’invasore: «La setta» scrive «deruba, distrugge e poi ci impone i suoi maestri piemontesi, le sue leggi, i suoi debiti, il suo vocabolario e gli esempi di laidezze e rapine e irreligione e ferocia». Si ha un bel deprecare, oggi, la proverbiale diffidenza dei popoli del meridione d’Italia verso le istituzioni e lo Stato; e condannar la mafia e cosi via. Del resto proprio gli espropri dei beni della Chiesa nel Sud, con cui a Torino si costituirono te finanze del nascente Stato massonico, sono fra le cause del futuro sottosviluppo del sud, del suo ritardo nei confronti del nord, che ha esportato i debiti e importato le ricchezze. «Il primo frutto dell’unità è l’aumento dei balzelli pubblici... Oh le promesse dei settari! A voi basta il gridar popolo e civiltà per saccheggiare i popoli civili».

Ma il parlamento piemontese non ci pensa due volte ad annettersi le provincie meridionali: era un Parlamento eletto da 100 mila persone per 24 milioni di abitanti (al 95% contadini e cattolici). Un parlamento ‘liberale’: «Codesti sedicenti deputati, ignoti al popolo, corifei della setta, eletti da se stessi…». Per salvar la faccia Garibaldi, ad annessione già avvenuta organizzò un plebiscito: era il 21 ottobre 1860. I risultati ufficiali furono proclamati su piazze e strade deserte: 1.313.376 per l’annessione e 10.312 contro. Anche a prender per buone cifre tanto balorde, si deve comunque pensare ad una minoranza sui 9 milioni di abitanti.

Ma quel che era accaduto in quei giorni, sui libri dei vincitori non sta scritto. Aggressioni, uccisioni, arresti, intimidazioni. Grandi cartelli dichiaravano «Nemico» chi votava No; il voto peraltro non fu segreto: furono poste due urne palesi e quelle del No «coperte da bande di camorristi». Anche astenersi era colpa di Stato: «Salvar la vita, in quei giorni era pensiero universale». E poi garibaldini — anche stranieri — che votavano anche 10, 20 volte: perfino Garibaldi, Bixio e Sirtori non si vergognarono di votare. E per chi si ribellava era dura. Ad esempio si può ricordare il rapporto del governatore garibaldino della Capitanata: «Insurrezioni nel giorno del plebiscito: si son fatti sforzi eccezionali perche l’insurrezione non sia generale». (segue la richiesta di armi e soldati). O il suo collega di Teramo che proclamava lo stato d’assedio nei comuni della provincia ancora 9 giorni dopo il plebiscito: «I reazionari presi con le armi saran fucilati»!.

Agli stati d’assedio, i brogli, le violenze, vanno aggiunte le galere piene di «reazionari», gli esiliati, i fucilati... «Ma alla setta bastava mostrare all’Europa una maggioranza di cifre». Sarà un testimone d’eccezione, Lord Russel in un dispaccio del 24 ottobre a testimoniare che «i voti che ebber luogo in quelle province non han grande valore...». Ma la scuola dei vincitori racconta ben altro: dice che la gran capitale di un Regno, la bellissima Napoli fu entusiasta di diventare una prefettura di Torino. «Lasciate dal vantar plebisciti. Dite che son fatti compiuti; e sì che son compiuti, ma per restar monumenti eterni di vostra nequizia. Voi, gretta minoranza, volete imporre il vostro pensiero ad una nazione, e col pensiero i ceppi... un pugno di tristi vuol comandare a milioni; perciò destituisce, disarma, condanna, pugnala, carcera, esilia, fucila ed incendia.
Siete atroci perche pochi; siete costretti a dar terrore, perché vi manca il numero; dovete far seguaci con la corruzione perché non avete il concorso della virtù».(De Sivo). Questa fu l’epopea del ‘liberatore’ Garibaldi raccontata dal popolo ‘liberato’. Sui libri di scuola (la scuola dei vincitori) si trova al capitolo: Risorgimento.

Antonio Socci

domenica 7 febbraio 2010

Il Big Bang del denaro

Pubblichiamo questo scritto illuminante di Massimo Fini, il quale, in tempi non sospetti, presagiva l'attuale sfascio.
I peggiori mali dell'umanità cominciano con i quattrini

“Mai un oggetto il quale debba il suo valore esclusivamente alla propria qualità di mezzo, alla sua convertibilità in valori più definitivi, ha raggiunto così radicalmente e senza riserve una simile assolutezza psicologica di valore diventando un fine” (G.Simmel, Filosofia del denaro.)

La capacità del denaro di crescere come un tumore sul corpo che gli ha dato vita sino ad invaderlo completamente, soffocarlo e distruggerlo, deriva dalla sua natura tautologica dalla sua attitudine ad autoalimentarsi. (...)
Il caso del Messico è solo il più conosciuto, ma rappresenta una frazione risibile dell'immenso circuito deficitario internazionale. Il cosiddetto "circuito del Pacifico", che coinvolge Est asiatico e Stati Uniti, è molto più cospicuo. Il Giappone presta quattrini ai Paesi asiatici a lui vicini perché questi possano comprare beni in Giappone. È vero che poi alcuni di questi Paesi (le cosiddette "piccole tigri") esportano a più non posso soprattutto negli Stati Uniti i quali però a loro volta, per sostenere il proprio enorme surplus di importazioni, si fanno prestare denaro dal Giappone da cui pure acquistano una quota rilevante dei beni.
Ma anche in Europa esiste un circuito deficitario. Tutti i Paesi dell'Unione Europea hanno, chi più chi meno, un deficit commerciale con la Germania, cioè importano dai tedeschi molto più di quanto esportino. Come fanno allora? Elementare: per poter comprare beni in surplus dalla Germania si fanno prestare i soldi dalla Germania.
Ci sono poi i 1800 miliardi (in dollari) di debiti dei Paesi del Terzo Mondo verso il quale ci si comporta su per giù come nel Messico: gli si presta denaro perché possano pagare gli interessi e poiché questi, di conseguenza, aumentano, gliene si presta ogni volta di più.
In generale, si può dire che quasi tutti i Paesi, industrializzati e del Terzo Mondo, non pagano le eccedenze delle importazioni con risparmi interni, cioè con denaro proprio, ma con soldi prestati da altri paesi. Tutti sono indebitati con tutti. Inoltre il sistema dei debiti che vengono pagati facendo altri debiti riguarda anche, in buona misura, la massa globale dei crediti alle imprese e al consumo (…)
Oggi, nonostante si sia in possesso di una tecnologia capace di forgiare materiali quasi indistruttibili, i prodotti d’uso comune hanno una resistenza e un’esistenza molto brevi. Ciò è deciso a freddo. Se la “Gillette”, per fare un esempio, fabbricasse, come potrebbe benissimo, una lama che rade per un mese andrebbe in malora. Lo stesso accadrebbe, in grande stile, all'intero sistema industriale se producesse beni di massa resistenti invece che facilmente, e programmaticamente, deperibili.
Un altro metodo è quello di introdurre su beni già esistenti continue varianti tecniche, quasi sempre superflue se non peggiorative (la Cinquecento venne ritirata dal mercato era fatta troppo bene e durava a oltranza). Un terzo sistema è creare nuovi bisogni, da soddisfare con nuovi beni. È la pazzesca legge di Say: “L'offerta crea la domanda" resa possibile, si dice, dal fatto che mentre i bisogni primari sono limitati, e oltre a una certa misura saziano, quelli voluttuari sarebbero invece illimitati. Nella realtà si tratta di bisogni eterodiretti, drogati, cui l'uomo contemporaneo, orientato o piuttosto disorientato dalla logica del denaro, viene sapientemente educato e anche costretto (...).
Ma anche il grande produttore, l'imprenditore, il finanziere, colui che già il denaro professionalmente, che dal denaro, proprio per la quantità che ne possiede, potrebbe ricevere la libertà, è stretto in una morsa analoga. Già alla fine del secolo scorso Andrew Carnegie, magnate del trust americano dell'acciaio, notava: "Speriamo sempre di non avere più bisogno di ingrandirci e sempre ci accorgiamo che rinunciarvi significherebbe per noi un passo indietro". Sottolinea Max Weber: “Il guadagno di denaro e di sempre più denaro è così spoglio di ogni fine eudemonistico o semplicemente edonistico, è pensato con tanta purezza come scopo a se stesso, che di fronte alla felicità e alla utilità del singolo individuo appare come qualche cosa di interamente trascendente e perfino di irrazionale".
Lo psicologo Franz Brentano parla a questo proposito di "razionalizzazione di una condanna di vita irrazionale". E un finanziere acuto e sensibile, oltre che straordinariamente abile, come George Soros, creatore del supermiliardario (in dollari) Quantum Fund, confessa in un suo libro-intervista: "Sentivo il Fondo come una sorta di organismo, di parassita, che mi stava succhiando il sangue e prosciugando energie. Mi chiesi, sono più importante io o il Fondo? Il Fondo serve per il mio successo o sono io lo schiavo del Fondo? In che cosa consisteva la mia ricompensa? Più denaro, più responsabilità, più lavoro, più angoscia... Il Fondo raggiunse i 100 milioni di dollari, la mia ricchezza personale doveva ammontare più o meno a 25 milioni di dollari e io mi sentivo sull'orlo di un crollo. Tutto questo non aveva alcun senso".
Ma il meccanismo della coazione a ripetere non si sfugge. Anche perché preme su un elemento psiche umana che, per quanto in passato contrastato in vari modi, è indubbiamente presente in noi: la pulsione acquisitiva. Il possesso chiama possesso e lo facilita. E il processo è esaltato dal massimo del denaro (gia l’Ecclesiaste affermava: “Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro”). E si capisce agevolmente perché: il denaro appaga in pieno questa sete di infinito poiché, in quanto entità astratta, il suo accumulo, a differenza dei beni materiali, non conosce limiti fisici. Né psicologici. Scrive Von Mises: “Qualsiasi cosa possa un uomo aver guadagnato, ciò rappresenta per lo più una mera frazione di quel che la sua ambizione lo spingeva a conquistare. Davanti ai suoi occhi c’è sempre gente che ha avuto successo dove lui ha fallito del vagabondo verso l'uomo con un lavoro regolare, dell'operaio verso il capo-officina, del dirigente verso il vice-presidente, dell’Uomo che vale trecentomila dollari verso il milionario.
Così in virtù della combinazione di un elemento oggettivo, il denaro, e di uno soggettivo, la pulsione acquisitiva, che si potenziano a vicenda nel loro tendere all'infinito, ci siamo creati il perfetto marchingegno dell'infelicità. Perché, con un processo ben noto in psichiatria, il livello di soddisfazione viene spostato sempre più in là diventando, di fatto, irraggiungibile. Salito un gradino ce ne sempre un altro da fare. Come al cinodromo i cani levrieri, fra le bestie più stupide del Creato, inseguono inutilmente la lepre di stoffa che fugge tre metri avanti al loro muso spinta da un meccanismo, cosi noi corriamo trafelati verso una meta che, per definizione, non possiamo raggiungere. A meno di non rompere il meccanismo.
Come il levriere è agganciato alla lepre da un filo invisibile di cui non si rende conto, cosi I'uomo lo è al denaro. Il quale, al termine del suo lungo cammino, si è dunque definitivamente emancipato dalla propria condizione servile, di mezzo. Svincolato dalla materia, depurato delle funzioni originane, ormai tutte interne al processo tautologico del suo accrescimento, sfuggito di mano ai suo creatore, il denaro è diventato conclusivamente, per la società e per il singolo, un fine.Il fine.
Almeno in questo Karl Marx era stato preveggente quando scriveva: "L’ingordigia di denaro, la smania di ricchezza porta necessariamente con sé il declino e poi la fine delle antiche comunità delle quali è l'antitesi. Esso stesso, il denaro, è la comunità e non può tollerare nient'altro al di sopra di sé". A questo punto il denaro è diventato la sostanza materiale dell'esistenza, è diventato la vera comunità". È diventato tutto. (...)
La velocità di circolazione e la moltiplicazione del denaro, diventate parossistiche, sono state favorite dalla sua progressiva smaterializzazione e dalla fine dell’aggancio all’oro. E’ vero che anche l’oro, in quanto denaro, era una convenzione basata sulla fiducia, non diversamente dagli impulsi elettronici rimandati dai computer che oggi tengono moneta. Ma, a differenza di questi, la sua produzione fisica era limitata. Sganciandosi dall’oro “il sistema ha disattivato il proprio dispositivo di sicurezza”. E’ come una mongolfiera che, liberata dall’intera zavorra, sale a velocità vertiginosa verso l’alto ormai fuori da ogni controllo. Ma in questa stratosferica ascesa del denaro c’è anche il presupposto della sua fine. Come aveva intuito Werner Sombart quasi un secolo fa è proprio “la spinta verso l’infinito”, l’illimitatezza delle mete, la forza che va al di là di ogni misura organica che porta il denaro, e il sistema che su di esso è stato costruito, all’autodistruzione(…)
Infatti, anche qualora il futuro non sia un tempo inesistente ”non durerà in eterno” come ammette lo stesso Mathieu. E ancor meno durerà il denaro. Il fatto che ci sia necessariamente una fine del denaro è, secondo Mathieu, “La ragione per cui esiste ed esisterà sempre l’inflazione, e il denaro perderà sempre, mediamente, valore nel tempo; l’inflazione non è altro che il valore denaro scontato al giorno del giudizio”.
Se ciò è vero si avvertono, da tempo, sinistri scricchiolii. La stragrande maggioranza dell’umanità, soprattutto in America latina, in Africa e in ampie zone dell’Asia, deve già oggi convivere con un’inflazione a due o tre cifre o con un’iperinflazione a tassi dal mille per cento in su. Mediamente, secondo Robert Kurz, il tasso globale d’inflazione è a tre cifre. Se i paesi industrializzati riescono a tenerla bassa è perché sono ancora in grado di scaricarla altrove(…)
Il giorno che il colossale volume del denaro in circolazione, o una parte consistente di esso, si presenterà all’incasso per essere convertito in beni, servizi e lavoro che non rappresenta più da tempo, forse da sempre, il sistema crollerà.
Ciò avverrà quando, venute alla fine meno le condizioni per il suo mantenimento, sarà caduta l’illusione che il denaro sia un valore invece di simularlo.
Ad ogni modo il giorno del Big bang non è lontano.

Massimo Fini da “il Giornale” di venerdì 11 settembre ’98.

giovedì 4 febbraio 2010

Dal Medioevo ad oggi

Nel Tardo Medio Evo, l'Inghilterra aveva un grande commercio con le grandi repubbliche marinare italiane di Genova, di Pisa e di Venezia e con i porti del Levante, ai quali facevano capo le linee terrestri da e per l'Oriente; Alessandria, Damasco, Aleppo. Ma, nel secolo XVI, il commercio italiano cominciò a declinare, mentre quello col Levante continuò a essere importante. Senconchè mentre il commercio col Mediterraneo andava diminuendo d'importanza in confronto con la totalità del commercio britannico, lo sviluppo della politica europea di potenza creò all'Inghilterra nuove relazioni politiche con gli stati mediterranei e la condussero a stabilire la sua potenza navale nel Mediterraneo e ad aquistarvi basi navali.

"Queste considerazioni di potenza riguardo alla politica europea diventarono l'interesse principale della Gran Bretagna nel Mediterraneo. La sua supremazia navale nel detto mare fece raddoppiare il suo peso nella politica europea, in quanto estese la sua potenza dalle coste nord-occidentali a quelle meridionali del Continente. Essa non poteva far sentire la sua potenza direttamente nell'interno dell'Europa; ma la sua flotta controllava il Mediterraneo, come il mare del Nord; e attaccò Tolone come Brest, sbarcò corpi di spedizione in Catalogna e a Gallipoli, come nelle Fiandre, costrinse ad obbedire la Grecia, come costrinse la Danimarca".

Questo cenno introduttivo non ha bisogno di commento. Da esso risulta che, come ho detto al principio, l'interesse principale dell'Inghilterra nel Mediterraneo è militare o strategico; piantarsi nel Mediteraneo per poter fare, occorrendo una politica di forza contro i poteri rivieraschi di esso, attaccare Tolone, sbarcare in Catalogna, sbarcare a Gallipoli, costringere la Grecia ad obbedire alla politica inglese, ecc.
La scoperta del nuovo mondo e delle vie marittime per le Indie verso la fine del secolo XV trasferirono il centro commerciale dell'Europa delle città italiane a quelle spagnole, olandesi e inglesi dell'Atlantico. La Spagna strappò il dominio del Mediterraneo all'impero Ottomano nel 1571 alla battaglia di Lepanto e lo tenne fino alla disfata dell'Armada nel 1588. Conseguentemente, nella lunga guerra fra Spagna e Inghilterra, la flotta inglese non passò per gli stretti di Gibilterra. Ma i mercanti della Compagnia del Levante trafficavano con Venezia e col suo Impero e col mondo musulmano, dove erano bene accolti, perchè nemici della Spagna. Essi combatterono contro le galere spagnole e contro i pirati barbareschi. Nel 1623 Giacomo I mandò una spedizione contro i detti pirati, ma non ebbe successo. Le basi del dominio britannico del Mediterraneo furono poste da Cronwell. Blake condusse una squadra inglese nel Mediterraneo per inseguirvi la flotta di Rupert nel 1650. Vi tornò pochi anni dopo - nel 1654-1655 - per proteggere i mercanti inglesi e per dare autorità alla diplomazia di Cronwell.
"Ma l'estensione della potenza navale britannica al Mediterraneo non poteva stabilizzarsi senza basi navali. E difatti Cronwell discusse con Monk e con Montagu i vantaggi di occupare Tangeri o Gibiltera. Nel 1654, l'Inghilterra si alleò col Portogallo, assicurandosi così la protezione delle sue comunicazioni col Mediterraneo e una testa di ponte contro la Spagna, paragonabile all'altra ancora più importante dei Paesi Bassi contro la Francia".
Vi sarebbe molto da dire circa questo sistema britannico di costituire "teste di ponte" contro gli Stati del Continente. Esso è stato uno dei principali fattori di divisione dell'Europa continentale. Alla fine, il sistema si è ritorto contro chi lo aveva praticato. I piccoli Stati, lungi dal costituire altrettanti punti d'appoggio della potenza britannica, sono diventati altrettanti punti vulnerabili di essa. Ma questo discorso mi condurrebbe lontano dal tema.
Uno dei grandi meriti di Guglielmo III e di Marlorough fu quello di capire l'importanza del Mediterraneo per la politica britannica; e le loro guerre vi stabilirono la preponderanza britannica. Nel 1690, la flotta francese era superiore alla olandese e all'inglese, ma, dopo la battaglia di La Hogue del 1692, l'Inghilterra ottenne la supremazia tanto nell'Atlantico, quanto nel Mediterraneo occidentale; e questo fu la base della sua strategia europea in quanto, rese possibile, come dice Trevelyan (History of England, p.488) che la flotta britannica premesse sugli Stati esitanti nei momenti di crisi diplomatica. Sotto il regno di Guglielmo, la flotta alleata salvò Barcellona e prolungò la resistenza della Spagna contro Luigi. Durante le guerre di Marlborough, l'alleanza inglese col Portogallo e con la Catalogna ribelle e tutta la politica di guerra dell'Inghilterra nel Mediterraneo e in Ispagna dipesero dalla sua supremazia in quelle acque: supremazia della quale Gibilterra e Minorca furono i pegni.
Gibilterra fu occupata nel 1704, ma per se stessa, in principio, ebbe importanza solo come stazione per la protezione del commercio. Essa, finchè non poteva accogliere più di una squadra, era inutile per il dominio del Mediterraneo, a meno che non fosse stata completata da un porto navale vero e proprio, dove avesse potuto stazionare l'intera flotta: con l'acquisto di Port Mahon
nel 1708, questo problema fu interamente risolto: l'Inghilterra si trovò a disporre di un porto, in cui poteva mantenere una forza superiore a quella che la Francia teneva a Tolone. Il trattato di Utrecht del 1713 le riconobbe il possesso di quelle basi e il dominio dell'Europa occidentale.
Negli anni immediatamente successivi, il dominio britannico del Mediterraeneo fu minacciato dalla Spagna, la cui potenza il genio del Cardinale Alberoni fece per un istante rivivere; ma nel 1718, Byng distrusse la flotta spagnola a Capo Passero; e questa fu la prima impresa navale dell'Inghilterra nel Mediterraneo, e dimostrò che la sua potenza navale si estendeva anche nel Mediterraneo orientale.
"Durante il secolo XVIII, l'Inghilterra conservò la sua posizione nel Mediterraneo, senza rafforzarla: da Gibilterra e da Minorca, essa poteva dominare le coste della Spagna, della Francia e dell'Italia; e questo era il suo principale proposito".
Si noti quest'ultimo periodo. In esso lo scopo della Politica Mediterranea della Gran Bretagna è apertamente dichiarato: "dominare le coste della Spagna, della Francia, dell'Italia". Gli storici del Chatham House restringono la portata della loro affermazione al secolo XVIII. La restrizione non ha ragion d'essere. Più tardi, l'Inghilterra dirà di voler difendere la via delle comunicazioni imperiali. Sarà una formula nuova, ma la sostanza sarà la stessa. Una formula nuova, che avrà il pregio di dare un'apparenza difensiva ad una politica nettamente offensiva.
L'inghilterra perdette Minorca nel 1756. Ma, nello stesso tempo, faceva grandi conquiste in America e in India. E conservò Gibilterra anche durante i disastri della guerra d'America. Ma alla fine del secolo, il dominio del Mediterraneo le fu strappato dalla Francia rivoluzionaria, che era alleata della Spagna e aveva conquistato l'Italia. Quell'alleanza, per impedire la quale Marlborough aveva combattutto, si realizzò nel 1796, e per più di un anno il Mediterraneo fu un lago francese.
La Flotta britannica rientrò nel Mediterraneo nel 1798. Non riuscì a impedire a Bonaparte di occupare Malta e di sbarcare in Egitto, ma alla battaglia di Abukir rovesciò completamente la situazione. Nelson non solo riconquiistò all'Inghilterra la supremazia che essa aveva perduta, ma la estese a tutto il Mediterraneo orientale. La sua vittoria fu confermata nel 1800 dall'occupazione di Malta. E, per il resto delle guerre napoleoniche, il dominio inglese del Mediterraneo non fu più minacciato, sicchè l'Inghilterra rese possibile ai Savoia e ai Borboni di Napoli di cercare rifugio sicuro rispettivamente in Sardegna e in Sicilia. Alla pace di Vienna, essa conservò Malta e le isole del Mar Jonio.
Fino al 1869, la principale via per le Indie fu quella del Capo di Buona Speranza, che era controllata dall'Inghilterra. Ma c'era anche una via per terra attraverso la Siria e la Mesopotamia dino al Golfo Persico, e questa era controllata dalla Turchia. Diventò perciò principio fondamentale della politica britannica di impedire a qualiasi altra potenza di controllare questa via.
Due potenze minacciavano di pretendere di esercitare un siffatto controllo: la Francia e la Russia.
La Francia aveva delle pretese sulla Siria, in quanto riteneva di essere l'erede del Regno Franco di Gerusalemme e la protettrice della Cristianità in Oriente; oltre che, essa era alleata della Turchia contro gli Asburgo ed era rivale della Gran Bretagna in India.
La Russia cominciò a esercitare una potente pressione sulla Turchia fin dai tempi di Pietro Il Grande. La guerra russo-turca del 1763-1769 fu il principio della lotta, e il trattato di Kuciuk-Kainagi del 1774 segnò la fine della Turchia come grande potenza. Quando la Gran Bretagna diventò potenza asiatica, nella seconda metà del secolo XVIII, le ambizioni della Francia e l'espansione della Russia diventarono i due principali fattori esterni determinanti della sua politica.
RICCIARDETTO
2- continua.

martedì 2 febbraio 2010

Breve storia della politica mediterranea

Incomincia, con questo post, la pubblicazione di un interessante e lungo articolo (Tempo Perduto) apparso per la prima volta sul settimanale illustrato a colori, "TEMPO" del 25 luglio 1940, A. XVIII, E.F. - Anno IV - n. 61 - ROMA -


Gerard Fiennes , in un libro che pubblicò nel 1917 Potenza navale e libertà” (Sea power and freedom), fece alcune considerazioni sulla posizione dell’Inghilterra nel Mediterraneo e sulle ragioni per cui essa tanto teneva al dominio di quel mare.

“Qualche altra ragione – egli scriveva – è necessaria per spiegare l’istinto profondamente radicato in noi, per cui ci attacchiamo con tanta tenacia al Mediterraneo. La vera risposta sembra paradossale. Fu nel Mediterraneo che noi
difendemmo il nostro secolare interesse; la libertà dei Paesi Bassi. Il punto vitale della strategia nell’Europa Centrale è sul Medio Danubio. Là fu combattuta la contesa fra la casa D’Asburgo e la Casa di Borbone, e, per la Francia, la via più facile per accedervi è quella attraverso l’Italia; e gran parte dell’Italia, a quel tempo, era un dominio dei Borboni. Ma l’Italia è una penisola, e per la Francia la via attraverso l’Italia non è mai sicura, se essa non ha il dominio del mare. Fu, dunque, per impedire alla Francia di godere del dominio del mediterraneo e di assicurarsi, così, le comunicazioni col Medio Danubio, che noi tenemmo, si può dire, ad ogni costo ad una posizione così lontana dalle basi di casa nostra”.


C’è qualche imprecisione storica in queste considerazioni. Non è esatto che la secolare contesa fra la casa D'Asburgo e quella di Borbone si combattè solo sul medio Danubio. Si combattè da per tuitto, In europa a Rocroy come a Saint Quentin, in Francia come nel palatinato. Ma lasciamo da parte la Storia, la quale è così varia che può sempre fornire elementi per qualsiasi teoria. Il fatto è che, secondo il Fiennes, l'Inghilterra teneva tanto alla sua posizione nel Mediterraneo, unicamente per difendere l'Italia dalla cupidigia francese o per lo meno che la Francia potesse attaccare gli Asburgo passando per l'Italia.
Vi è molta fantasia in questa interpretazione della politica europea. E in ogni omodo essa non spiega affatto perchè l'Inghilterra, pure avendo il dominio del Mediteraneo, non impedì a Napoleone di venire in Italia o di passarvi per combattere la casa d'Austria; come non spiega perchè, quando un attacco francese all'Austria attraverso l'Italia diventò impossibile, l'Inghilterra continuòa tenere al dominio del Mediterraneo esattamente come vi teneva prima, anzi più di quanto vi teneva prima.
Le ragioni per cui l'Inghiltera si impiantò nel Mediterraneo e poi volle rimanervi a tutti i costi furono esaminate cento e cento volte soprattutto da scrittori e da uomini politici inglesi, e, anzi, raramente è capitato che un paese, avendo il dominio di un mare e di alcuni territori, , sentisse così spesso il bisogno di procedere a esami di coscienza e di domandarsi per quali ragioni o per quali scopi avesse quel dominio e se valesse la pena di conservarlo. I risultati di queste indagini sono abbastanza concordi. I vari studiosi riconoscono che l'Inghilterra è nel Mediterraneo e ha interesse a rimanervi per tre ordini di ragioni: commerciali (alcuni preferiscono chiamarle economiche), politiche (o diplomatiche), militari (o strategiche). Alcuni inglesi aggiungevano un quarto ordine di ragioni, che si potrebbero dire umanitarie o educative. Ma l'aggiunta suscitava vari dubbi anche in Inghilterra. Molti inglesi - diceva la signora Monroe - amano aggiungere che la Gran Bretagna è vincolata dai doveri verso i popoli che abitano intorno al Mediterraneo. ma l'esame dimostra che questa teoria non si applica da per tutto. Se la Gran Bretagna abbandonase il Mediterraneo, gli arabi della Palestina la vedrebbero andar via con delizia. Anche i greci di Cipro voterebbero con gioia per l'uione con la Grecia. ecc, Tutto si ridurrebbe dunque alla protezione degli ebrei di Palestina. Ma è facile rispondere che prima dell'immigrazione sionistica l'Inghilterra teneva al dominio del Mediterraneo esattamente quanto vi ha tenuto dopo.
Mettiamo, dunque, da parte i cosiddetti obblighi morali dell'impero Britannico, e veniamo al sodo: ragioni politiche, commerciali e militari. Io semplificherei e ridurrei tutto alle ultime: alle ragioni militari. L'Inghilterra teneva alla sua posizione nel Mediterraneo per controllare il Continente Europeo. Il suo sistema di "supremazia invisibile" reggeva su alcuni postulati: il dominio del mare, il "balance of power" in Europa - (ossia la divisione dell'Europa in due gruppi di forze quasi eguali) - l'indipendenza dei Paesi Bassi, ecc. E uno di questi postulati era il controllo del Mediterraneo.
Procedimamo con ordine.
Sul mediterraneo, in genere, e sulla posiione dell'Inghilterra nel Mediterraneo, in ispecie, esiste un'immensa bibliografia: italiana, tedesca, inglese, francese. A voler fare un rapido schizzo della storia della posizione dell'Inghilterra e dei suoi interessi nel Mediterraneo, si è imbarazzati nella scelta del libro da prendere per guida. Ottime pubblicazioni italiane e tedesche non mancano. Ma, poichè la semplice narrazione storica è la migliore condanna della politica mediterranea della Gran Bretagna, preferisco seguire una esposizione inglese e, per giunta, di carattere semiufficioso; Political and strategie interests of the United Kingdom di un gruppo di studiosi del Royal Institute of International Affairs. Così, ex ore tuo te judico.
RICCIARDETTO.
1-continua