Oggi ricorre il genetliaco di Ernst Jünger, nato in Germania a Heidelberg, il 29 marzo 1895. Il suo nome è sconosciuto ai più; compare, per converso, nei blog di gruppi identitari e nazionalpopolari, più per una sorta di equivoco che per reale conoscenza. La sua vita, estremamente lunga e prolifica, meriterebbe uno studio più attento, soprattutto riguardo alle numerose opere pubblicate. Qui mi fermerò alle mie conoscenze, limitando lo sguardo ad un’opera in particolare, rimandando chi fosse interessato ad approfondire il personaggio in altre sedi.
Le opere più famose sono: “il Trattato del ribelle“, edito da Adelphi e “l’Operaio” (1932), Guanda. E tuttavia la sua importanza trascende il suo impegno politico. Fra l’altro egli prese parte attivamente nel primo conflitto mondiale e venne alla ribalta delle cronache come portavoce di una filosofia nata sul campo di battaglia. Infatti le sue idee non discendevano da uno studio astratto, fatto a tavolino, bensì da una lucida esperienza eroica, vissuta fra le trincee. Una volta terminata la “Grande Guerra“, divenne un esponente di spicco di quella che venne definita come “rivoluzione conservatrice”. Più tardi partecipò all’esperienza paramilitare dei Freikorps, e dopo essere convolato a nozze (3 agosto 1925) con Gretha de Jeinsen, l’anno succesivo ebbe il suo primogenito. Così, interruppe l’università e si dedicò completamente all’attività letteraria. E, nonostante fosse adulato da Joseph Goebbels in persona, mai volle aderire al partito nazionalsocialista. Gli venne persino offerto il ruolo di guida dell’unione nazista degli scrittori che rifiutò senza remora alcuna. Partecipò anche alla seconda guerra mondiale come ufficiale. A Parigi incontrò molti intelettuali francesi, tra cui L.F.Céline, con il quale ebbe diverse lit. Verso la fine della guerra fu sospettato di aver congiurato contro Hitler ma, in mancanza di riscontri, fu assolto e però congedato dall’esercito. Alla fine della guerra venne accusato ingiustamente di connivenza con il regime, nonostante nei suoi scritti, la sua ostilità verso Adolf Hitler sia conclamata. Si leggano a tal proposito “Strahlungen” (in italiano Irradiazioni. Diario 1941-1945 ).
Nel 1953 scrive “il Nodo Gordiano“. Il titolo mi ha subito incuriosito. Qui vi si tratta delle relazioni fra Oriente e Occidente che rappresentano, a ben vedere, un tema storico basilare. Vi sono numerosissime osservazioni di alto pregio culturale. In effetti, parlando dell’apparente dicotomia, fra Oriente e Occidente, fra Europa ed Asia, bisogna ammettere che non si sta parlando tanto di due concetti geografici e politici diversi e contrapposti, quanto di due possibilità metastoriche a cui ogni uomo, dotato di intelletto e buona volontà, può accedere.Ma veniamo al titolo: “Il nodo gordiano”. Questo, a mio modesto avviso, rappresenterebbe un problema insormontabile quando questi due mondi (oriente e occidente) si incontrano e, soprattutto, quando la questione fondamentale è il dominio del mondo stesso.
Dal mondo islamico sappiamo dell’esistenza delle ” sette torri del diavolo“; in altre parole di quei punti strategici, geopolitici e geomantici, che non debbono mai essere travalicati.Su questo aspetto, René Guénon ci ha fornito preziose informazioni, approfondite da alcuni suoi seguaci che adesso, per brevità, eviterò di citare. E comunque, in estrema sintesi, il nodo gordiano rappresenterebbe l’Asia; la spada di Alessandro, l’Europa. L’Asia rappresenterebbe un coacervo di forze elementari, soggette al potere divino, la spada di Alessandro rapprenterebbe invece, l’ordine, la legge, la libertà, il rispetto umano. In realtà, questo mito antagonista viene elevato a carattere universale. Esso si trova in tutte le mitologie dualistiche. Un Oriente da cui non ci separano più le migliaia e migliaia di chilometri evocati in una “Via della seta”, con buona pace degli amanti di una certa letteratura sentimentale, alla Edmondo De Amicis. Questo è tanto più vero oggi, in un mondo sempre più reso limitrofo dal progresso tecnico-scientifico, che dal racconto che ne fa l’autore.
Egli, esaltando la lotta e la prova di forza dell’uomo, elaborò, successivamente una sorta di “titanismo antiborghese“, con influenze spiccatamente nietzschiane. La sua opera è caratterizzata da uno stile elevato e ricercato, spesso volutamente cifrato, che richiedono alacre impegno e decodificazione attenta.
Naturalmente questa posizione non può venir accettata da studiosi come il Guénon o come Evola che invece collocavano il loro filosofare nell’ambito del monismo. Metafisicamente, per Evola, come per Guénon, le cose stanno assai diversamente. Ma Junger rimane in ambito segnatamente profano, estremamente condizionato dal dato politico. In questo senso, sarebbe fortemente auspicabile, che ognuna delle due culture si sforzasse di ripensare se stessa, magari in una nuova e più lucida sintesi, che eviti, però, il pericolo sincretistico e disumanizzante. Oriente, dunque, non più evocato come l”incognita tellus” dei geografi di medievale memoria, ma come estrema Lux, “ex Oriente Lux” in grado di aprire quel “terzo occhio”, di cui difetta l’Occidente. Il suo riconoscimento più grande, però, arrivò più tardi negli anni ’80, attraverso l’autorevole “Premio Goethe”, che lo elevò tra i massimi scrittori e pensatori tedeschi del Novecento; il merito stava soprattutto nell’analisi (e nella critica) della modernità; motivo di attualità e di profondo interesse ancora oggi.

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