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lunedì 19 agosto 2024

DE GASPERI: UN ALFIERE DELL’ANTICRISTIANESIMO


di Carlo Francesco D’Agostino

La ostentata esaltazione che certa stampa ha fatto della figura dell’on. Degasperi come preteso statista cattolico, ci obbliga a ristabilire la verità, con precise e documentate contestazioni. Con questo non intendiamo indagare se e quanto Degasperi sia stato in buona fede, nella sua maschera – poiché tale e non altro era – di uomo politico cristiano: non usiamo mai affermare la buona o la mala fede di alcuno. Possiamo solo, e lo facciamo ben volentieri, riconoscere che grandissima parte di coloro che hanno appoggiato l’azione politica del Degasperi e del suo Partito sono stati presumibilmente in buona fede. Noi abbiamo sempre criticato, su questo giornale [“L’Alleanza Italiana”] e su altre pubblicazioni, alcune delle quali di una certa mole, l’opera del defunto capo della Democrazia Cristiana. Ci limitiamo dunque, per documentarla realtà agli ormai numerosi lettori, a riassumere i motivi principali delle passate nostre critiche.

Lo faremo con una certa schematicità cronologica, e con concisi commenti che servano ad illuminare quale sola poteva e può essere una posizione politica basata sul Cattolicesimo.

 

Fu prima solidale con il Fascismo 

1922: Degasperi alla Camera diede, a nome di oltre cento Deputati del Partito Popolare Italiano, pieno appoggio al Governo Fascista (di cui faceva parte anche l’on. Gronchi con altri Deputati del P.P.I.). Egli gli riconobbe: «volontà fattiva di governo ed il proposito e la forza di ristabilire la legge e la disciplina nel Paese… scopo che va assolutamente raggiunto se la boccheggiante Nazione deve essere salva»: questo disse dopo che Mussolini aveva ben precisato essere suo intendimento: «difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle Camicie Nere, inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione» (Atti del Parlamento, vol. IX, 1922, pag. 8390 ss.). Al lume dei principî cristiani era ben chiaro che un regime arrivato al potere con una serie di violenze delittuose, e che la sua impostazione confermava con l’arroganza del discorso presidenziale tenuto da Mussolini, non poteva presentare garanzie di sorta. Quel regime tendeva, in sostanza, a rinsaldare le posizioni dell’egemonia capitalistica di fronte al rivoluzionarismo socialistoide, da un lato, ed alla inefficienza degli uomini che, col Degasperi, avrebbero dovuto rappresentare la scuola politica Cattolica. Degasperi, accodando i Cattolici alla duplice sopraffazione, capitalistica e fascista, pose le chiare premesse di tutto il nefasto seguito della sua opera politica.


Sull’Aventino poi si pose contro la legalità

1924-25: Degasperi ed i Deputati del P.P.I. in significativa unione con i social comunisti abbandonarono il Parlamento, tentando di impostare una «questione morale» sul delitto Matteotti. Questo non era stato che uno dei tanti episodi di violenza dell’illegalismo fascista, che dal Degasperi aveva avuto il premio del voto favorevole al Governo Fascista ed all’amnistia.

Dopo aver vantato, nel 1922: «liberi da ogni viltà – oggi, come ieri, come domani – per la sollecitudine delle nostre persone che sono poca cosa, forti dell’assenso che ci viene da chi liberamente ci diede il mandato, lo eserciteremo con serenità ed equilibrio, con la sola preoccupazione dei supremi interessi del paese» (loc. cit., pag. 8143). Degasperi ed i suoi compirono la viltà di astenersi dal loro dovere di parlamentari, con l’aggravante di non rinunciare al mandato, ed ordirono quella campagna di stampa sul delitto Matteotti che ebbe il chiaro carattere di un tentativo di violenza morale, sul terreno extraparlamentare, per vincere una battaglia politica condotta e perduta sull’unico terreno legittimo, quello parlamentare. Essi ricorsero ad un metodo strettamente anticostituzionale, tentando di ottenere da Sua Maestà il Re lo scioglimento della Camera appena eletta ed in cui si rifiutavano di combattere (ciò che invece continuò a fare l’on. Giolitti con pochi altri Deputati demoliberali). E questo mentre era in corso l’inchiesta giudiziaria, e mentre le responsabilità in ordine al delitto Matteotti non erano ancora chiarite. Uomini come Filippo Meda, Cavazzoni, Martire, Mattei Gentili, Carapelle ed altri, non vollero condividere la faziosità aventinistica del Degasperi, il quale poi, dopo il 1945, quando era universalmente riconosciuto esser stato un errore l’abbandono del Parlamento, ebbe ancora la temerarietà di qualificare «roccaforte della libertà» quell’aventinismo che aveva invece rappresentato l’abbandono della difesa della libertà stessa!

 

Ordì una rivolta anticristiana

1942: fallitogli il tentativo di espatriare ed estraniatosi, nei momenti più ardui, dal servizio del Paese, Degasperi rimase agganciato a quel Comitato Centrale Fascista che rappresentò una organizzazione illegale ed immorale, intima unione di massoni, marxisti, materialisti, atei, settari e …democristiani, e che fu strumento tremendamente nefasto per sollevare l’opinione pubblica mondiale contro l’Italia cattolica, col pretesto del Fascismo. Degasperi ha confessato: «La Liberazione dal fascismo appariva ancora molto remota, e nessun partito, vecchio o nuovo, si era ancora costituito, quando nel Comitato Centrale Antifascista sorse l’idea di chiamarsi Democrazie Unite: democrazia liberale, democrazia socialista e…che cosa potevamo essere noi se non la democrazia cristiana?» (ved. Tradizione ed ideologia della D.C., ed. 1944 e ristampe, presso la D.C., Roma). Con questo dimostrava la mancanza di un pensiero Cristiano, il quale non si qualifica certo come una sottospecie dell’utopia democratica, condannata dalla Chiesa, che per di più per bocca di Leone XIII, nella Graves de communi, ha ingiunto: «non sia poi lecito dare un senso politico alla Democrazia Cristiana»!!
Fattone, invece, proprio un Partito, il Degasperi, con l’animo pieno di «legittimo orgoglio» – come scrisse – mettendosi tra «coloro che erano passati attraverso il lungo periodo senza inflessioni e senza contaminazioni »…«ora che la vittoria contro il Fascismo appariva probabile» (e questa «vittoria» era la catastrofe politico-militare e morale della Patria!) partecipò alla firma del Patto da cui sorse il Comitato di Liberazione Nazionale. Ivanoe Bonomi, che lo promosse, così si esprime (Diario di un anno, ed. Garzanti): «L’antifascismo (era) un movimento sotterraneo a cui il declino militare dell’Asse dette nuovo vigore». Esso, a dire del Bonomi: «già da anni minava lo Stato totalitario e sentì che si avvicinava la sua ora e che era urgente stringere i contatti e cominciare l’azione. I tempi stringevano ed occorreva precisare le intese con convegni cui partecipò ugualmente fervido ed operoso Alcide Degasperi». Ebbene, prosegue Bonomi: «Fu in quelle riunioni che si tracciò un piano d’intesa, tradotto poi in un patto scritto, firmato da me, dal Casati, dal Ruini, dal Degasperi, dal Romita e anche da un comunista di nome oscuro ma interprete autorizzato dalla sua corrente. Quel patto impegnava i partiti ad una tregua politica nell’ora del trapasso e nel periodo successivo della ricostruzione, indicando come meta comune un regime democratico nel quale «tutti i poteri, e anche il più alto, derivassero dalla volontà popolare». La stampa filodemocristiana, anche quella che pretende avere carattere ufficiale «cattolico»,si è ben guardata dal mettere in luce questa sostanza vergognosa di tutta l’opera del Degasperi e del suo gruppo di dittatori del Partito Democristiano.

Noi lo facemmo invece innumerevoli volte su questo giornale [“L’Alleanza Italiana”] –  dagli esordi clandestini del 1944 – e nel volume «La illusione democristiana » scritto nel 1949, oltre che in precedenti pubblicazioni. Il «patto» firmato dal Degasperi era un patto di rivoluzione, impostato su principî mille volte solennemente condannati dalla Chiesa oltreché dalla ragione umana: ed era un patto che legalizzava e potenziava i Partiti più notoriamente anticattolici – dal comunista al Liberale – impegnando le forze cristiane ad una lunga tregua nei loro confronti fino a quando non si fosse realizzato un ideale anticristiano, quale è quello della rivoluzione demoliberale!

Quale prova più evidente della mancanza assoluta di direttiva Cristiana nell’opera del Degasperi e del tragicissimo inganno da lui teso a quelli, per primi, che ignari di tutto questo hanno accettato la D.C. come il «partito dei Cattolici»?.

 

Firmò leggi che comportano la Scomunica

1946-47-53: perfettamente coerente alla impostazione demo liberale e laicista della Politica, Degasperi firma le varie Leggi elettorali (fatte e rifatte alla vigilia di ogni elezione per tentare di assicurar meglio il predominio democristiano), in cui è quell’art. 66, poi 71, che pone i limiti al Clero che «abusando della proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adoperi a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati od a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli alla astensione», istituendo per tali ipotesi un reato, con gravi pene. Il Santo Padre, nel discorso ai Quaresimalisti di Roma del 17 marzo 1946 palesemente protestò per tale violazione della libertà della Chiesa inferta dal Governo democristiano: «Il sacerdote cattolico – disse il Papa – non può essere semplicemente equiparato ai pubblici ufficiali o agli investiti di un pubblico potere o funzione civile o militare»; la legge elettorale, infatti, con una medesima norma colpiva tali categorie ed il Clero: «Il Sacerdote è ministro della Chiesa ed ha una missione che si estende a tutta la cerchia dei doveri religiosi e morali dei fedeli…e può quindi essere obbligato a dare, sotto quell’aspetto, consigli o istruzioni riguardanti anche la vita pubblica.

Ora è evidente che gli eventuali abusi di tale missione non possono per sé essere lasciati al giudizio dei poteri civili…».

Degasperi accusò il colpo, e nel discorso di Torino del 25 marzo 1946 replicò ampiamente, e concluse col comodo ed ipocrita ripiego: «…so che se il Santo Padre ha in nome della Chiesa il diritto di stabilire le sue tesi ed Egli ha questo diritto per ragione che supera i partiti ed i momenti…saprà anche comprendere le difficoltà in cui gli uomini cattolici si battono e vincono e possono vincere solo fino ad un certo punto.

È rimasta una piccola pizzicatura per il Clero. Ma credo che i sacerdoti non ne abbiano molta paura» (Il Popolo, 26-3-1946). Comodo ripiego, perché significava ammettere in partenza che le norme della Chiesa (nella specie sanzionate perfino nel Codice di Diritto Canonico), che al canone 1334 commina la scomunica automatica contro coloro che varano leggi che offendono la libertà ed i diritti della Chiesa) varrebbero solo nei limiti in cui i «fedeli» hanno voglia di combattere per rispettarle. Ipocrita ripiego, perché invece il Degasperi fin dal 1944, combattendo contro il Centro Politico Italiano con l’opuscolo più sopra citato, si proclamava difensore della concezione dello «Stato moderno» assertore di una assoluta «uguaglianza giuridica» e lo faceva espressamente contro l’esigenza da noi posta di una impostazione Cristiana dello Stato.

Non era dunque questione che gli uomini politici Cattolici possano combattere e vincere «solo fino ad un certo punto»: a parte che si è sempre saputo che il Cattolico, piuttosto che piegarsi a compromessi, resiste fino a cadere sotto i colpi del martirio, consapevole che il sangue dei Martiri è semenza di Cristiani, a parte questo stava in fatto che il Degasperi volendo servire la cosiddetta concezione «moderna» dello Stato, non era un combattente per il Cristianesimo, ma un alfiere dell’anticristianesimo, per la cui realizzazione politica si era impegnato ad unità d’azione coi più classici nemici del nome Cristiano.

 

Rese ateo lo Stato Italiano

1947: alla Costituente il Gruppo democristiano respinse la proposta dell’on. Lucifero di iniziare il testo della Costituzione con le parole: «Il Popolo Italiano, invocando l’assistenza di DIO, nel libero esercizio della propria sovranità… »: così la Costituzione rinnegò la sacra autorità di DIO; respinse la proposta dell’on. Patricolo, che un articolo precisasse: «La Religione Cattolica è la Religione ufficiale dello Stato Italiano» e così il nostro Stato rigettò ogni impostazione Cristiana; Degasperi sanzionò il tutto ricordando le assicurazioni da lui date «ai protestanti d’America» circa una «piena libertà, piena uguaglianza» che la Costituzione democristiana infatti accorda al Protestantesimo, cui ha concesso perfino l’uso della Radio per le trasmissioni di culto (pag. 2456 Atti della Costituente). Ed in realtà è libero e protetto in Italia ogni altro culto, e vi si diffondono. Così la concezione dello «Stato moderno» da Degasperi tenacemente perseguita era realizzata nella Legge fondamentale della Repubblica, e le conseguenze tutti le tocchiamo con mano.

Lo sbandieramento di un Cristianesimo soltanto ipocrita doveva portarci rapidamente nel doloroso clima del putridume di «Capocotta» e della apologia dei traviamenti di Coppi fatta su quotidiani di proprietà di uomini della Democrazia Cristiana (ved. Voce della giustizia, n. 36 del 4-9-1954)! Una politica tutta legata all’affarismo e che, in nome di questo, chiude gli occhi ad ogni esigenza Morale: un rinunciatarismo impressionante che dopo aver elargito una Costituzione secondo il gusto del Protestantesimo anglosassone premia solennemente registi, come il Rossellini, la cui scandalosa condotta di profanatore del sacro tempio della unità famigliare aveva riempito le cronache di una stampa lasciata libera di corrompere, per cui si stan creando tutte le premesse per la introduzione del divorzio in Italia, già largamente reso possibile da tristi accomodamenti dei nostri Trattati internazionali e della nostra giurisprudenza.


L’abominio di un malgoverno 

Questa, in sintesi, è stata l’opera di Degasperi. Dinanzi a tanti frutti di distruzione morale par quasi secondario ricordare le ingiustizie perpetrate con la legislazione di persecuzione contro gli ex fascisti; le immoralità compiute con le leggi di espropriazione terriera, fraudolentemente denominate «riforma agraria»; la distruzione progressiva del patrimonio immobiliare urbano come conseguenza del delittuoso regime delle locazioni; il danno recato all’agricoltura e le profonde violazioni di giustizia, conseguenti alla legislazione sui contratti agrari; il disordine e la somma di ingiustizie e sperequazioni, oltreché di corruzione, immensamente aggravatosi nel sistema tributario, in cui la legislazione degasperiana ha di gran lunga peggiorato i malanni da tempo esistenti; la mancata difesa del patrimonio boschivo, col conseguente continuo accrescersi dei disastri che produce; l’aggravamento della situazione nel campo della cultura con un regime scolastico, ora poi affidato ad un Ministro liberale, che, in uno al regime di stampa, sta riducendo la intellettualità italiana al bassissimo livello che ogni giorno paurosamente constatiamo.

 

Il rigetto dei principi del Toniolo 

Tutto questo era e doveva essere il frutto dell’abbandono delle posizioni cui la scuola del Toniolo aveva tenuto ancorati – sulla scia degli Insegnamenti dei Papi – i Cattolici italiani. Degasperi, in quella che viene considerata la sua ultima lettera, e quasi un testamento spirituale (lettera a Fanfani del 9 agosto 1954, ved. co di Bergamo, n. 200), ha lasciato scritto: «Perché il Toniolo, nazionalmente parlando, ebbe efficacia così inadeguata? Perché i tempi e gli uomini non gli permisero di sfuggire alla alternativa guelfa – ghibellina, e così non uscì dallo storico steccato politico, benché ne fosse uscito da quello sociale. Il nostro sforzo più tardi, fu quello di sfuggire alla stretta. Non siamo riusciti spesso, ma ad un certo punto la D.C. divenne un movimento, un partito italiano, al disopra dello storico conflitto. Teniamolo a mente: non bisogna lasciarsi avvinghiare dalle spire dell’alternativa tradizionale». Fino all’ultimo, dunque, Degasperi ha giuocato all’ inganno, e speriamo che non se ne sia reso pieno conto. Giuseppe Toniolo non rimase affatto ancorato ad una «superata» alternativa. Egli semplicemente non volle piegarsi a quella concezione dello Stato che definì «disordine legale permanente delle democrazie cosiddette liberali». (Toniolo, Concetto Cristiano di democrazia, ed. Coletti). Degasperi mostra di bellamente dimenticare questa profonda differenza tra l’indirizzo del Toniolo ed il suo. Ha dimenticato di aver scritto, come abbiamo ricordato, in polemica col Centro Politico Italiano: «Bisogna respingere qualsiasi tentazione di leggi eccezionali, di provvedimenti che escludano dal diritto comune o precludano da certe pubbliche funzioni chi sia alieno dal tradizionale spirito cattolico del Popolo Italiano. Nello Stato moderno l’uguaglianza giuridica e la ammissibilità agli impieghi è divenuta ormai una premessa indispensabile alla libera convivenza civile» (loc. cit.). Pertanto lo Stato democristiano deve lasciar aperto l’adito ai professori materialisti sulle cattedre di Filosofia, ai docenti liberali su quelle di Diritto, agli atei su quelle di Storia del Cristianesimo o delle religioni. Così di seguito. Non solo il Toniolo, ma il Papa e la Chiesa non si piegano a questo, come non ci si può piegare ogni cultore di filosofia naturale. Tardò solo di un anno, infatti, la risposta del Santo Padre: « Ben riflettendo alle conseguenze deleterie che una Costituzione la quale, abbandonando la pietra angolare della concezione cristiana della vita, tentasse di fondarsi sull’agnosticismo morale e religioso, porterebbe in seno alla Società, e nella sua labile storia, ogni Cattolico comprenderà facilmente come ora la questione che, a preferenza di ogni altra, deve attirare la sua attenzione e spronare la sua attività consiste nell’assicurare alla generazione presente ed alle future il bene di una Legge fondamentale dello Stato che non si opponga a sani principi religiosi, e morali, ma ne tragga piuttosto vigorosa ispirazione, e ne proclami e ne persegua sapientemente le finalità. Giovi a questo riguardo ricordare che non sempre la novità delle Leggi è fonte di salute per il Popolo: sovente invece la precipitosa ricerca di radicali innovazioni è indice di oblio della propria dignità e di facile resa ad estranei influssi e non a meditate idee. SAPPIANO DUNQUE I CATTOLICI ITALIANI CHE IL RIMANERE FEDELI ALLE MIGLIORI E PROVATE TRADIZIONI SPIRITUALI E GIURIDICHE NON VUOL DIRE ESSERE OSTILI ALLE TRASFORMAZIONI SOCIALI CHE MEGLIO RISPONDANO AL BENE COMUNE: e dicano alto al loro grande ed infelice Paese che il patto onde esso vuol essere condotto ad unità e stabilità, non può cementarsi né con odî né con egoismi di classi, sì bene con la mutua e cristiana carità che  tutti i cittadini affratelli in reciproco aiuto, collaborazione e rispetto».

fonte: https://www.radiospada.org/2014/08/degasperi-un-alfiere-dellanticristianesimo-prima-parte/?fbclid=IwY2xjawMRBJ1leHRuA2FlbQIxMABicmlkETB4VnZBYkVBdTJkNHhqUEZrAR5AkwzkBQyFEWKlWtJtbwfMrSGIRnEP6U1OA-zz9yZtHUkxwZ3K9GfwMzHlGQ_aem_zTqd6F_fZBpOlABCqk8NHg


domenica 3 agosto 2014

LA STRANA STORIA DELLA SOCIALIZZAZIONE

 

Durante la Repubblica Sociale, Mussolini pensò di coronare il progetto - tenuto a bagnomaria durante il Regime - di rivoluzionare il tessuto sociale ed economico italiano attraverso la cogestione delle aziende. Nella RSI la socializzazione avanzò però a fatica, osteggiata da ambienti dello stesso Fascismo, dagli industriali, dai tedeschi, dagli antifascisti. Tuttavia alcuni passi vennero fatti creando precedenti clamorosi - confinati nell’obblio nel dopoguerra - di collaborazione tra fascisti, comunisti e socialisti. Esperienze che le stesse sinistre - ufficialmente ostili alla socializzazione - cercarono di riproporre nel dopoguerra. Ma il vento era ormai cambiato per sempre. –
di Stefano Fabei

Il caos assoluto in cui l'8 settembre 1943 si ritrovo l'Italia costituì l'evento fondamentale di un processo storico che vide sciogliersi i legami della società politica con la società civile, dello Stato con la Nazione, determinando non solo la successiva divisione del Paese in due parti, ma anche l'esplosione della guerra civile. Il tragico momento costituì tuttavia per il Fascismo l'occasione per rilanciare con maggior forza,nel territorio della Repubblica Sociale Italiana, il progetto di rappresentare una (terza via> tra capitalismo e Comunismo: un ritorno alle origini rivoluzionarie. Nel mondo del lavoro la parola d’ordine fu <socializzazione>. Il termine, emerso già nei primi mesi della RSI e nel programma del Partito fascista repubblicano che nel novembre del ry43 aveva tenuto a Verona il suo primo, e ultimo, congresso, fu in modo ufficiale adottato, anche su sollecitazione di Nicola Bombacci, il 13 gennaio 1944, quando il Consiglio dei ministri di Salo approvi una  <Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell'economia italiana>. La repubblica del Duce prevedeva la partecipazione integrale del popolo in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e il suo contributo <alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione con il suo lavoro, con la sua attività politica e sociale>. Secondo il 12°punto del Manifesto di Verona, in ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai avrebbero dovuto cooperare - attraverso una  conoscenza diretta della gestione - alla fissazione dei salari, nonché <all'equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori. In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali Commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo i Consigli di amministrazione con Consigli di gestione composti da tecnici e da operai con un rappresentante dello Stato. In altre ancora, in forme di cooperativa parasindacale.
  
  A pavolini
Era riconosciuta non solo l'importanza del capitale <produttivo>, che investiva moneta per creare l'impresa, ma anche quella di chi con il braccio e con la mente forniva elementi altrettanto fondamentali per l'attività economica e sociale.
In sintesi: né dominio della moneta, né espropri statali, bensì armonizzazione degli elementi in un rapporto di condivisione delle responsabilità, e degli utili, affinché nessuno si sentisse tanto superiore da ritenersi depositario del destino dell'impresa e, di conseguenza, della Nazione. Dopo aver dichiarato che la RSI assumeva la gestione diretta di aziende che controllavano i settori essenziali per l'indipendenza economica e politica del Paese, nonché di imprese fornitrici di materia prima o di energia e di altri servizi indispensabili al regolare svolgimento della vita economica nazionale, la sopra citata Premessa> affermava senza possibilità di equivoco che la gestione dell'azienda era socializzata. Tutti i lavoratori avrebbero preso parte all'amministrazione delle imprese a capitale pubblico tramite consigli di gestione, eletti da loro stessi e avrebbero deliberato sia sulle questioni riguardanti la produzione nel quadro del <piano unitario nazionale> sia sulla stessa <congrua> ripartizione degli utili. Per quanto riguardava le aziende a capitale privato, gli organi di amministrazione sarebbero stati integrati da rappresentanti dei lavoratori in un numero almeno pari a quello dei rappresentanti eletti dall'assemblea degli azionisti.

   Il 12 febbraio 1944 fu emanato il decreto sulla socializzazione delle imprese (pubblicato in seguito, il 3o giugno, sulla Gazzetta Ufficiale>) che limitava le aziende private da socializzare a quelle con almeno un milione di capitale o almeno cento operai. In merito agli utili da ripartire, dopo Ie assegnazioni di legge alla riserva e la costituzione di eventuali riserve speciali, era approvata una remunerazione del capitale conferito all'impresa in una misura non superiore a un massimo fissato ogni anno per i singoli settori produttivi dal Comitato dei ministri per la tutela del risparmio e I 'esercizio del credito. Gli utili,, detratte queste assegnazioni, sarebbero stati ripartiti fra i lavoratori in rapporto all'entità delle remunerazioni percepite durante I 'anno: questo compenso non doveva comunque superare il 3o per cento del complesso delle retribuzioni nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell'esercizio. Con il decreto suddetto era disposto inoltre il primato in materia del ministro dell'Economia corporativa - il cui  titolare, Angelo Tarchi, era espressione della componente tecnocratica e mediatrice nei confronti degli ambienti industriali, e quindi oppositore di coloro che auspicavano sia l'immediata instaurazione dello <Stato del lavoro, sia il pieno superamento del sistema corporativo - tanto nell'immediato, con la supervisione dei nuovi statuti delle diverse categorie di imprese, quanto, in prospettiva, mediante la facoltà di procedere allo scioglimento dei consigli di gestione, di sostituire i vertici aziendali, di controllare la fase di passaggio dalla gestione privatistica a quella socializzata, e di commissariare le aziende di cui lo Stato ritenesse opportuno assumere la proprietà.

Angelo Tarchi
Angelo Tarchi (1897-1974) Ministro dell'Economia Corporativa

Con il decreto del 12 febbraio 1944,  la Repubblica Sociale Italiana si proponeva di <stare con il popolo, superando quell'andare verso il popolo> che era stato tipico del Regime. Se alla socializzazione guardarono con simpatia alcuni ambienti sindacalisti, sospetti e timori circa i suoi esiti e la sua rapida applicazione furono, più o meno tacitamente espressi, dagli ambienti conservatori. Ciò spiega il ritardo con cui il decreto fu pubblicato sulla <<Gazzetta Ufficiale>, in contemporanea con il decreto che
ne fissava al 3o giugno l’entrata in vigore. Un terzo decreto, datato 3o agosto 1944, dettò norme per una sua più sollecita attuazione. Malgrado il ro luglio e il 13 settembre fosse stata disposta la socializzazione delle aziende dell'IRI e del settore dei giornali e dell'editoria, i primi effettivi cambiamenti si  ebbero solo alla fine del ry44 Una settimana dopo l'ultimo bagno di folla ricevuto dal Duce a Milano e il discorso al Lirico, fu pubblicato il 22 dicembre il decreto con le norme attuative e integrative della socializzazione. Il documento, accogliendo le ragioni dei sindacalisti,
attribuiva maggiori poteri al sindacato, cui spettava il compito di soprintendere alle elezioni interne alle aziende; ai consigli di gestione, che potevano nominare il capo dell'impresa, convocare riunioni del consiglio e presiederle in mancanza del capo dell'impresa; ai rappresentanti dei lavoratori, nell'assemblea, non licenziabili né trasferibili in dipendenza dell'attività svolta nell’esercizio della loro carica, Il r9 gennaio 1945 fu istituito il ministero del Lavoro, retto da Giuseppe Spinelli, che prevedeva una Direzione generale per la socializzazione e assorbiva i poteri del ministero dell'Economia corporativa.  Soppresso quest'ultimo, Tarchi passò a reggere il nuovo ministero della Produzione industriale. La Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 1945 pubblicò il decreto sull’ordinamento della Confederazione generale del lavoro, della tecnica e delle arti, creata il 20 dicembre 1943. Questa doveva riunire le precedenti confederazioni per superare lo sbloccamento del 1928, mentre a fine dicembre del 1944 si era disposta la liquidazione delle confederazioni padronali.
Mussolini a milanoDall'inizio dell'ultimo anno di guerra presso il ministero del Lavoro si assistette a una frenetica attività socializzatrice. Le aziende socializzate sarebbero state 76, con rz9 mila dipendenti e 4.fl9 milioni di lire di capitale. Ancora oggi poco si conosce  in merito all'effettiva applicazione dei provvedimenti.  Ciononostante è possibile affermare, perlomeno nel caso della FIAT della maggioranza delle imprese socializzate, che la  fine del Fascismo giunse prima che le misure disposte per decreto dalle autorità repubblicane avessero un concreto impatto sulle realtà aziendali sul piano della predisposizione di statuti e decreti relativi alle singole imprese. Il progetto di  socializzazione della RSI naufragò per vari motivi, oltre che per il momento tardivo della sua messa in atto: determinanti furono le divergenze interne allo Stato fascista repubblicano riguardo a misure che rimasero inerti per molti mesi, in una situazione definita <rivoluzionaria>, ma tale più sul piano delle parole che su quello dei fatti. Decisive furono sia l’ostilità dei tedeschi, preoccupati per le possibili conseguenze nel campo della produzione bellica, e desiderosi di appropriarsi di macchine e materiali dell'industria italiana, sia la contrarietà degli esponenti di quest’ultima, i quali boicottarono, anche grazie ai legami con la grande industria germanica, i provvedimenti che pure fecero finta di approvare, cercando di rinviarli quanto più possibile. Se molti operai disertarono le elezioni delle Commissioni interne, è anche vero che a esse guardarono con interesse e per vari motivi certi ambienti della sinistra antifascista. Alcuni esponenti di quest'ultima in esilio all'estero erano rientrati in Italia, convinti che, liberato dai vincoli reazionari imposti dal regime, il Fascismo potesse realizzare finalmente le sue pagine di politica sociale più avanzata. Era il momento della <politica dei ponti> che vedeva alcuni antifascisti guardare con interesse alla repubblica del Duce; potremmo, fra i tanti, citare a proposito i fratelli Bergamo, rientrati dalla Francia in nome dei vecchi ideali sociali, repubblicani e antiborghesi. Alcuni rivoluzionari di sinistra ritennero che la politica delle <mine sociali> potesse qualificare agli occhi dei lavoratori l’ultimo Fascismo. A Terni nell'ultimo periodo della RSI, si assistette all'elezione delle commissioni di fabbrica, da cui nel dopoguerra sarebbero sorti i consigli di gestione, presi a modello dal più importante e rappresentativo sindacato italiano, la CGIL. Nella
città umbra il Fascismo volle giocare la carta delle commissioni interne abolite con il patto di Palazzo Vidoni (con il quale il 2 ottobre 1925 1l Regime aveva avocato a sé la rappresentanza sindacale con il consenso di Confindustria, che da quel  momento avrebbe avuto come referenti sindacali le Corporazioni fasciste e non più i liberi sindacati) e in questo capitolo della storia del sindacalismo entrarono in gioco anche i partiti di estrema sinistra. In principio la loro posizione ufficiale fu di <combattere in tutte le forme i sindacati fascisti e le loro organizzazioni anche facendo dimettere dalle commissioni interne legali i propri iscritti che esercitassero ancora tali funzioni>. Tuttavia questo non fu possibile per la mancanza in Umbria di organizzazione sistematica dell'antifascismo, come attesta la documentazione conservata nell'archivio del PCI. il fronte antifascista in questa regione, debole anche per le diffidenze esistenti al suo interno, accettò quindi che, accanto ai fascisti, e con il consenso delle autorità repubblicane, fossero eletti suoi elementi, comunisti, socialisti e anarchici.  Questa scelta finora occultata, perché imbarazzante, può essere spiegata con la disorganizzazione dei comunisti, con lo scarso numero dei componenti le loro cellule nelle acciaierie, con la diffidenza esistente tra le forze di sinistra, con la volontà - comune anche ai fascisti - di opporsi al prelevamento operato dai tedeschi dei macchinari e dei materiali industriali. Ci furono, soprattutto tra i comunisti, iniziali opposizioni e titubanze circa la presenza di loro uomini nelle liste dei candidati; poi, però, ai <compagni> occupati negli stabilimenti e nei cantieri giunse dal vertice del PCI la direttiva di nominare e far riconoscere dalla direzione le
Acciaierie terni
Le Acciaierie di Terni nel 1930
commissioni elette, di cui qualche loro elemento doveva far parte, per tentare accordi con gli organi direttivi degli stabilimenti <su un terreno antitedesco>, e collegarle al <comitato di partito dell’officina". Pertanto, quando il 1° marzo 1944, alla <Terni si svolsero le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nelle liste sia della categoria operai, sia della categoria impiegati, furono inclusi, con l'assenso dei sindacati fascisti, elementi comunisti, socialisti e anarchici. Loro obiettivi erano opporsi all'asportazione dei macchinari industriali da parte dei nazisti e inserirsi nel mondo delle rappresentanze sindacali da cui per anni erano stati esclusi.
Come avrebbe scritto in seguito Luigi Longo a Palmiro Togliatti, in vista dell'imminente liberazione, occorreva ricordare ai compagni che, appena fosse stato possibile alle masse controllare e dirigere le varie istituzioni operaie in questione,
essi ne avrebbero rivendicato il diritto: <Noi siamo contro oggi alle commissioni interne fasciste e ne boicottiamo con tutti i mezzi le elezioni, ma è evidente che domani, a liberazione avvenuta, procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie...u. Un implicito riconoscimento del fatto che anche l'odiata dittatura aveva compiuto qualcosa di buono per i lavoratori. Negli stabilimenti  siderurgici della <Terni>, accanto ai sindacalisti Maceo Carloni e Faliero
Rocchiccioli, firmatari nel r94o del contratto dei metalmeccanici e ad altri fascisti come l'operaio Bruno Marini e l'impiegato Alvaro Garzuglia, furono eletti il socialista
Giuseppe Scalzone per la categoria impiegati; per la categoria operai: Ettore Secci, già socialista, poi sindacalista fascista, quindi comunista; l’ex confinato socialista Umberto Bisci; l’anarchico Gioacchino Orientali e Luigi Campagna, futuro assessore comunista al Comune di Terni: tutti noti per il loro passato sovversivo. L'esperimento ternano fu attuato nonostante le disposizioni impartite, qualche giorno dopo, 717 marzo, dal commissario nazionale del lavoro, per impedire che fossero chiamati a rappresentare le maestranze lavoratori non iscritti. Il decreto proibiva a chiunque di assumere per qualsiasi motivo la rappresentanza di maestranze industriali, la cui tutela, è, a norma delle vigenti leggi, di esclusiva competenza delle organizzazioni
Manifesto antifascista
Manifesto Antifascista che bolla come truffa la socializzazione
sindacali legalmente riconosciute>. Ma nelle settimane precedenti la liberazione di Terni, preoccupati dalla tutela del lavoratore e dalla volontà di salvaguardare l'esistenza delle acciaierie, nelle commissioni di fabbrica lavorarono a stretto contatto fascisti e antifascisti. Cosa indusse molti di questi ultimi ad accettare tale politica di collaborazione?  Opportunismi a parte, forse il timore che i tedeschi riuscissero a rovesciare le sorti del conflitto in corso, sicuramente la debolezza di cui soffriva il fronte antifascista, escluso per 20 anni dal sindacato, nel quale aspirava a tornare con un ruolo di rilievo, la volontà di opporsi all'asportazione dei macchinari messa in atto dai tedeschi.  Ci fu forse anche chi si illuse che la socializzazione potesse segnare una svolta nei rapporti tra datori di lavoro e prestatori d'opera, permettendo una maggiore giustizia sociale.
Al di là di ciò che poterono fare, anche per ragioni di tempo, gli eletti nelle commissioni di fabbrica a Terni, va sottolineato come quanto qui avvenuto sia significativo e non a caso abbia costituito un capitolo imbarazzante per una certa storiografia che ha preferito sorvolare in merito. Tornando, più in generale, al progetto sulla socializzazione elaborato durante la RSI, va detto che esso non sarebbe
andato del tutto perduto, passando parzialmente in eredità ai partiti antifascisti. Preoccupato di fare salvo il principio della partecipazione operaia alla gestione delle aziende, pur abrogando la regolamentazione sociale fascista, il Comitato di liberazione nazionale per l'alta Italia, fin dal 17 aprile 1945 predispose un decreto che utilizzava lo schema tecnico dei consigli di gestione creati dalla nazionalizzazione di Mussolini. Il CLNAI, abrogando la legislazione della RSI in materia di socializzazione delle imprese, dichiaro decaduti gli organi da questa creati, sancendo il principio della partecipazione agli utili e alla gestione delle aziende attraverso <nuovi e democratici> consigli di gestione; condannò gli <obiettivi antinazionali> della socializzazione con cui il Fascismo aveva tentato di <aggiogare le masse lavoratrici dell'Italia occupata  al servizio e alla collaborazione con l’invasore tedesco>; riconobbe <l'alta sensibilità politica e nazionale delle maestranze dell'Italia occupata che, astenendosi in massa da ogni partecipazione alle elezioni dei rappresentanti nei consigli di gestione, hanno manifestato la loro chiara comprensione del carattere antinazionale e demagogico della pretesa " socializzazione" fascista>.
Intenzione del CLNAI era <assicurare, all'atto della liberazione dei territori ancora occupati dal nemico, la continuità e il potenziamento dell'attività produttiva, nello spirito di un'effettiva solidarietà nazionale>. Il decreto abrogo la socializzazione affidando a nuovi consigli di gestione, con poteri identici ai precedenti, l’amministrazione delle aziende, rimandando al governo nazionale il compito di regolamentare la materia. Il decreto del CLNAI, accettato a malincuore dagli operai, non ricevette tuttavia l'approvazione degli angloamericani.
Se il più importante sindacato, la comunista CGIL, il 23 settembre 1945 approvò un documento in cui si parlava di <diretta partecipazione delle maestranze alla gestione
dell'azienda, realizzabile ad opera dei consigli di gestione>, l'atteggiamento ostile degli imprenditori non permise di andare oltre le buone intenzioni e un progetto di legge Morandi-D’Aragona sui consigli di gestione non fu mai approvato, e la materia continuò a essere disciplinata attraverso accordi aziendali da cui la gestione vera e propria era esclusa. Nel novembre del ry47  fu decisa l'istituzione di una commissione
speciale con il compito di elaborare la <Carta> dei consigli di gestione, ma non fu nemmeno eletta. Laddove istituiti, i consigli sopravvissero fino all'inizio degli anni Cinquanta, solo come semplici organismi fiancheggiatori dei sindacati. Fu questo il caso delle acciaierie ternane dove già alla fine del ry44 era stato stipulato un patto
per la partecipazione diretta di operai, tecnici e impiegati alla gestione dell'impresa. Il z9 gennaio ry45, 1l leader sindacale comunista Giuseppe Di Vittorio, parlando di questo patto al congresso della CGIL, affermo che esso apriva ai lavoratori nuovi orizzonti, dal momento che affermava il principio  che il progresso produttivo non si
svolge come qualcosa di estraneo ai lavoratori, non è qualcosa che interessa esclusivamente il capitalista ed è in funzione soltanto del profitto, ma è qualche cosa cui è legato l’interesse della società, l’interesse del Paese, per cui i lavoratori stessi debbono partecipare alla gestione delle aziende>. Il patto di Terni divento, per il sindacato confederale del dopoguerra, il modello da imitare e da applicare alle altre
imprese italiane. Era tuttavia destinato a esaurire la propria carica innovativa per il sopraggiungere di circostanze sfavorevoli legate alla crisi della produzione, alla disoccupazione, alla ricostruzione del secondo dopoguerra.
Nell’Assemblea costituente Tito Oro Nobili, deputato socialista di Terni, ricordò l’esperienza dei consigli di gestione nella sua città, proponendo un emendamento al 43" articolo della Costituzione e chiedendo di inserire, laddove si parlava del diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle aziende, <per mezzo dei propri rappresentanti in un comitato paritetico con i rappresentanti dell'impresa>. Poi però lo ritiro dichiarando di votare il testo della Commissione per non causare divisioni. Con la vittoria alleata e l’ingresso dell'Italia nell'area sotto l'egemonia statunitense era ormai prevalsa una linea politica neoliberista con cui si torno alla situazione che il ventennio non era riuscito a modificare, alla divisione tra capitale e lavoro, tra economia ed etica. Il sindacato fu ricondotto nell'ambito dell'associazionismo <libero e volontario>, con funzioni di rivendicazione e contestazione nei confronti sia della classe imprenditoriale sia dello Stato. Il sogno di una confederazione unitaria del sindacalismo italiano era destinato a non realizzarsi mai più.
Stefano Fabei

Nota: articolo estrapolato dalla rivista Storia in rete, n.105-106, Lugio-Agosto 2014

mercoledì 10 aprile 2013

Il Fascismo tradito


Spesso sentiamo parlare di "Risorgimento tradito" oppure di "Resistenza tradita"... ma, mai e poi mai, sentiremo parlare (almeno nelle alte sfere accademiche) di "Fascismo tradito". Perché? A cosa dobbiamo questa deficienza? Le risposte sono parecchie ma la prima che ci viene in mente è quella legata alla guerra perduta e al lascito che i vincitori affibbiarono alla nostra Italia.
Eppure se dovessimo portare il nostro pensiero scevro da pregiudizi a ciò che il fascismo degli albori aveva nel suo programma si scoprirebbero tensioni ideali,  culturali, sociali e moti di giustizia, legate ad una profonda ansia di trasformazione totale della società e dei rapporti economici civili e politici. E allora ben si può affermare che questi nobili ideali, furono traditi nella prassi conciliatoria di un "fascismo-regime" che poco aveva a che fare con quello che i nostalgici della prima ora avevano in mente e nei cuori. 
Il risultato di questa profonda dicotomia che si venne a creare fra la prassi instaurata dalla diarchia Mussolini-Savoia è stata a lungo evidenziata dal fratello più amato dal Duce: Arnaldo Mussolini. Arnaldo Mussolini scrisse che: "le conseguenze non sono uguali alle premesse". Da questo punto di vista, in vero assai autorevole, la distinzione fra una teoria rivoluzionaria  e una prassi conciliatoria appare in tutta la sua essenza di "rivoluzione tradita". 

Infatti, c'è stata tutta una generazione che - per ovvi motivi anagrafici - non è nata affetta dal "morbo antifascista"... ma lo è diventata col passare del tempo ed in seguito agli effetti nefasti ingenerati dalla guerra perduta.  La perdita della guerra che fu anche e soprattutto una guerra del sangue contro l'oro influenzò notevolmente queste generazioni che non avevano fatto in tempo a combatterla attraverso delle riflessioni  su ciò che il fascismo aveva espresso sul piano pratico, dimenticando quello che invece esso aveva alacremente teorizzato.

Occorre qui fare qualche esempio per rendere più comprensibile quanto vado affermando.
Sarebbe  assai difficile - per uno studioso coi paraocchi - immaginare Elio Vittorini ospite ufficiale a un convegno del Ministero della Propaganda  nazista... più facile è collocare un Evola o un Preziosi al suo posto. E invece,  a Weimar , nel bel mezzo della guerra (1942), c'era proprio lui: Elio Vittorini. Questo è quanto emerge in "Mussolini Censore" - Laterza -  Bari, a firma di Guido Bonsaver, docente di storia della cultura italiana alla prestigiosa università di Oxford. E ancora.
"Gli Indifferenti" di Alberto Moravia fu accolto con favore dai fascisti più convinti proprio per la descrizione negativa che l'autore faceva della borghesia. Infatti il primo a pubblicare il romanzo a pagamento, per i tipi della Alpes, fu il fratello del Duce: Arnaldo Mussolini. Del resto lo scrittore romano oltre ad essere  cugino dei fratelli Rosselli era, altresì, nipote di Augusto De Marsanich, fascista di lunga data e futuro segretario del M.S.I. 
Sul piano teorico il fascismo si fece portatore di una concezione spirituale della vita, di una concezione profondamente anti-borghese. Nel fascismo regime tutto questa concezione si sciolse come neve al sole.  
Tale affermazione viene confermata dall'adesione di ampi strati della cultura dell'epoca. Artisti come Renato Guttuso, scrittori come  Elio VittoriniElsa Morante, e registi come Carlo Lizzani, ed altri furono letteramente calamitati dallo spirito anti-borghese e dalle istanze sociali che il fascismo delle origini affermò con forza. Tuttavia costoro rimasero assai delusi da quello che fu realizzato sul piano pratico. Bisogna anche dire, però, che Mussolini voleva fare le cose in modo graduale e che quindi sarebbe forse arrivato con il tempo dove non gli fu possibile arrivare con la guerra.  Sotto questo punto di vista l'accellerazione impostagli dalla guerra risultò fatale.

Per questo motivo criminalizzare il fascismo di un Eugenio Scalfari, di Guttuso, di Vittorini, Spadolini ecc. fu un errore grossolano. A dimostrazione del pressappochismo culturale di alcuni esegeti poco accorti, di quel fascismo ricco di significati, spesso eterodossi, ma pur sempre presenti nei futuri antifascisti.  Tale cosa venne frettolosamente liquidata come "voltagabbanismo", mentre chi potè lo rimosse in fretta e furia per costruirsi una grottesca patente di verginità antifascista. 

Viceversa se si fosse proceduto con la cautela del ricercatore anzichè con la scure del fanatismo sarebbe stato possibile decodificare, in termini obiettivi, il lungo viaggio dell'Italia durante il fascismo, distinguendo in esso il grano dal loglio. Il tutto senza le lenti colorate delle ideologie dominanti ma seguendo la logica e il buon senso, separando ciò che voleva essere il fascismo da quello che effettivamente fu.  Solo operando questa divisione è possibile rivalutare il fascismo nella sua pura essenza, privandolo di tutto quanto fu accessorio, complementare o dannoso. 
In questa ottica è possibile rivalutare tutte quelle esperienze che volens nolens aderirono al fascismo con assoluta onestà e che, poi a guerra persa, cambiarono schieramento con altrettanta onestà, poichè cercarono sempre di realizzare quegli immortali ideali di giustizia e libertà che li avevano animati prima. Un esempio eclatante è quello dello scrittore siciliano Andrea Camilleri. Costui cambiò casacca allorquando comprese come  "la realtà fosse lontana dagli ideali di trasformazione sociale che l'ideologia fascista asseriva portare con se".  La delusione, accompagnata alla considerazione fatta nella premessa, portò lo scrittore siciliano ad abbracciare il PCI. Del resto il programma fascista del 1919 piacque persino a Nenni. In quel fascismo non vi è alcuna traccia di antisemitismo o di razzismo e nemmeno, di un sincero sentimento antidemocratico. Quel programma infatti mantiene intatta una sua originalità e persino una certa attualità. In estrema sintesi possiamo dire che quel programma rappresento per intero il fascismo tradito dalla prassi. A quel tipo di fascismo si aggrapparono gli antifascisti del dopoguerra.
Ma non fu il solo. Prendiamo il caso di un altro esponente politico italiano del dopoguerra: Giulio Andreotti. 
 Andreotti da giovane fascista scrisse:
"L'ordine nuovo non segnerà una livellazione egualitaristica delle categorie sociali, segno ormai sconfessato dalla stessa esperienza storica... dovrà invece fare leva su una grande coscienza sociale, ridestata in ogni ceto con i potenti elevatori del nazionalismo..."
Costoro videro nel fascismo  un ordine nuovo sociale e nazionale, una rivoluzione insomma. E tale essa fu nella loro mente.  Purtroppo quanto si verificò nella prassi fu assai diverso.  Non vi fu alcun ordine nuovo anti-borghese.
Marcello Capurso in una lettera inviata alla rivista del Partito d'Azione  Realtà politica scrisse;

"Fu la crisi che la società moderna attraversava... l'elemento determinante che certamente ne provocò la mia accettazione come quella di tanti miei coetanei... oggi il fascismo si condanna in blocco e senza esitazioni, ma allora esso si presentò a noi come lo strumento  politico più a portata di mano per risolvre quella crisi... il fascismo portava con sé anche motivi innovatori, che aveva raccolto particolarmente dall'attivismo dei primi anni del novecento, dal socialismo e dal sorellismo, atti perciò a determinare a mantenere per molto tempo in noi quell'illusione".
Il fascismo dunque, ben lungi dal rappresentare il braccio armato del capitale, fu antesignano di speranze rivoluzionarie, che però non si concretizzarono in una rivoluzione vera e propria.  Ciò evidentemente non si traduce in un mero atto di accusa.
All'uopo è emblematico quanto scriveva Eugenio Scalfari  nel 1942, il quale forse più di tutti percepiva la forza della portata rivoluzionaria:
"Rivoluzione sociale ha un significato preciso: è la distruzione di un vecchio ordinamento di rapporti... e la sostituzione con uno nuovo e originale. Tale distruzione non avviene in via "meccanica"... noi crediamo che avvenga a ragione di una "volontà disciplinata" e auto determinatasi... Fino ad oggi è sempre stata una classe ad essere depositaria  di questa volontà... oggi una classe  del genere non esiste più... perché il Fascismo, chiusasi l'era individualistica di cui la classe è stato il prodotto tipico, mira all'instaurazione dell'era associativa il cui prodotto più genuino è il "popolo". Nel popolo i motivi sociali  si confondono e si amalgamano con quelli nazionali... un popolo che sia depositario di un'idea universale  può e deve compiere e concretare in una nuova organizzazione sociale la sua grande rivoluzione".
 Questo scritto offre - più di qualsiasi altro - il motivo verace dell'adesione della migliore gioventù dell'epoca.  Il fascismo - di là da come è stato indebitamente tratteggiato - non era incolto e aveva suscitato nelle giovani generazioni fervide speranze, animato bracci e rinvigorito  petti di quanti vollero abbracciare quella immensa fede.  Forse fu proprio quel fascismo a dissetare le menti degli antifascisti. I vari Scalfari, Pasolini, Nenni, ecc. si sono tenuti dentro il loro "fascismo" senza esplicitarlo, senza mai nominarlo, per non dover  ammettere - prima con loro stessi e poi con gli altri - che il fascismo -movimento aveva ragione, aveva trovato la giusta dimensione all'uomo e al suo essere nella storia. E fu solo la guerra perduta a decretarne l'ingiusta fine.

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