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martedì 14 ottobre 2014

MANI DI FANGO



Il fango di Genova è diventato una cartina di tornasole per il cosiddetto "Bel Paese". Esso rappresenta, in modo assai emblematico, il nostro governo: parolaio, inefficace, vergognoso e mendace. In particolare rappresenta anche la sconfitta del Nord "pragmatico", oltre che dell'intero centrosinistra.
Il giorno dopo l'ennesimo alluvione che ha fatto esondare i fiumi, rompendo tutti gli argini, ci si chiede ancora come sia stato possibile tutto ciò. La risposta non è una ma non è difficile a darsi: abusivismo edilizio, cattiva amministrazione, incuria, mancato rispetto dell'ambiente e del territorio. Tutte cose arcinote. Tutte cose che in altri tempi non sarebbero passate inosservate e che, invece, oggi, sono all'ordine del giorno. Prendersela dunque con il solito "destino cinico e baro" è un'impresa ardua che non regge alla prova dei fatti.
Il guaio è che la città di Genova non è la sola città ad essere interessata da questo increscioso fenomeno. Notizie simili ci arrivano da Parma e da altre zone limitrofe in Piemonte. Allora, se le cose stanno così, perché non prendersela con coloro i quali si sono resi responsabili di tutto questo? Presto detto.
Non è possibile. In vero, qui, non si tratta solo di denunciare chi aveva il dovere di sorvegliare ed avvertire in tempo utile cosa stava accadendo in questo stramaledetto paese... Qui si tratta di mettere la parola "FINE" a ciò che da tempo accade nella totale indifferenza di tutto e di tutti!
Basti pensare all'ex ministro Claudio Burlando, ora governatore della Liguria, nonché commissario ad hoc, guarda caso, proprio per le alluvioni. Poi c'è il sindaco Marco Doria, anche lui di centrosinistra, e anche lui in carica da moltissimo tempo (più d'un ventennio).  A ciò aggiungiamo che l'attuale presidente del Consiglio è, pure lui, di centro sinistra, si è tenuto per sé la delega alla Protezione civile, cercando maldestramente di emulare uno come Benito Mussolini.
Eppure, nominando, non impropriamente,  il vituperato "Ventennio", viene da dire che Mussolini fece cose assai egregie, in tal proposito.
Penso, per esempio, alla Tutela paesaggistica ed idrogeologica. Cose che adesso invece cozzano con la devastante, demenziale  cementificazione dei suoli agricoli e la cessione dei terreni demaniali ai privati, o all'inquinamento atmosferico, della terra e delle acque.
In questo stramaledetto paese, ci vorrà una persona che, oltre ad assumersi le responsabilità delle cariche che occupa,  sia anche e soprattutto veramente RESPONSABILE?

domenica 3 agosto 2014

LA STRANA STORIA DELLA SOCIALIZZAZIONE

 

Durante la Repubblica Sociale, Mussolini pensò di coronare il progetto - tenuto a bagnomaria durante il Regime - di rivoluzionare il tessuto sociale ed economico italiano attraverso la cogestione delle aziende. Nella RSI la socializzazione avanzò però a fatica, osteggiata da ambienti dello stesso Fascismo, dagli industriali, dai tedeschi, dagli antifascisti. Tuttavia alcuni passi vennero fatti creando precedenti clamorosi - confinati nell’obblio nel dopoguerra - di collaborazione tra fascisti, comunisti e socialisti. Esperienze che le stesse sinistre - ufficialmente ostili alla socializzazione - cercarono di riproporre nel dopoguerra. Ma il vento era ormai cambiato per sempre. –
di Stefano Fabei

Il caos assoluto in cui l'8 settembre 1943 si ritrovo l'Italia costituì l'evento fondamentale di un processo storico che vide sciogliersi i legami della società politica con la società civile, dello Stato con la Nazione, determinando non solo la successiva divisione del Paese in due parti, ma anche l'esplosione della guerra civile. Il tragico momento costituì tuttavia per il Fascismo l'occasione per rilanciare con maggior forza,nel territorio della Repubblica Sociale Italiana, il progetto di rappresentare una (terza via> tra capitalismo e Comunismo: un ritorno alle origini rivoluzionarie. Nel mondo del lavoro la parola d’ordine fu <socializzazione>. Il termine, emerso già nei primi mesi della RSI e nel programma del Partito fascista repubblicano che nel novembre del ry43 aveva tenuto a Verona il suo primo, e ultimo, congresso, fu in modo ufficiale adottato, anche su sollecitazione di Nicola Bombacci, il 13 gennaio 1944, quando il Consiglio dei ministri di Salo approvi una  <Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell'economia italiana>. La repubblica del Duce prevedeva la partecipazione integrale del popolo in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e il suo contributo <alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione con il suo lavoro, con la sua attività politica e sociale>. Secondo il 12°punto del Manifesto di Verona, in ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai avrebbero dovuto cooperare - attraverso una  conoscenza diretta della gestione - alla fissazione dei salari, nonché <all'equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori. In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali Commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo i Consigli di amministrazione con Consigli di gestione composti da tecnici e da operai con un rappresentante dello Stato. In altre ancora, in forme di cooperativa parasindacale.
  
  A pavolini
Era riconosciuta non solo l'importanza del capitale <produttivo>, che investiva moneta per creare l'impresa, ma anche quella di chi con il braccio e con la mente forniva elementi altrettanto fondamentali per l'attività economica e sociale.
In sintesi: né dominio della moneta, né espropri statali, bensì armonizzazione degli elementi in un rapporto di condivisione delle responsabilità, e degli utili, affinché nessuno si sentisse tanto superiore da ritenersi depositario del destino dell'impresa e, di conseguenza, della Nazione. Dopo aver dichiarato che la RSI assumeva la gestione diretta di aziende che controllavano i settori essenziali per l'indipendenza economica e politica del Paese, nonché di imprese fornitrici di materia prima o di energia e di altri servizi indispensabili al regolare svolgimento della vita economica nazionale, la sopra citata Premessa> affermava senza possibilità di equivoco che la gestione dell'azienda era socializzata. Tutti i lavoratori avrebbero preso parte all'amministrazione delle imprese a capitale pubblico tramite consigli di gestione, eletti da loro stessi e avrebbero deliberato sia sulle questioni riguardanti la produzione nel quadro del <piano unitario nazionale> sia sulla stessa <congrua> ripartizione degli utili. Per quanto riguardava le aziende a capitale privato, gli organi di amministrazione sarebbero stati integrati da rappresentanti dei lavoratori in un numero almeno pari a quello dei rappresentanti eletti dall'assemblea degli azionisti.

   Il 12 febbraio 1944 fu emanato il decreto sulla socializzazione delle imprese (pubblicato in seguito, il 3o giugno, sulla Gazzetta Ufficiale>) che limitava le aziende private da socializzare a quelle con almeno un milione di capitale o almeno cento operai. In merito agli utili da ripartire, dopo Ie assegnazioni di legge alla riserva e la costituzione di eventuali riserve speciali, era approvata una remunerazione del capitale conferito all'impresa in una misura non superiore a un massimo fissato ogni anno per i singoli settori produttivi dal Comitato dei ministri per la tutela del risparmio e I 'esercizio del credito. Gli utili,, detratte queste assegnazioni, sarebbero stati ripartiti fra i lavoratori in rapporto all'entità delle remunerazioni percepite durante I 'anno: questo compenso non doveva comunque superare il 3o per cento del complesso delle retribuzioni nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell'esercizio. Con il decreto suddetto era disposto inoltre il primato in materia del ministro dell'Economia corporativa - il cui  titolare, Angelo Tarchi, era espressione della componente tecnocratica e mediatrice nei confronti degli ambienti industriali, e quindi oppositore di coloro che auspicavano sia l'immediata instaurazione dello <Stato del lavoro, sia il pieno superamento del sistema corporativo - tanto nell'immediato, con la supervisione dei nuovi statuti delle diverse categorie di imprese, quanto, in prospettiva, mediante la facoltà di procedere allo scioglimento dei consigli di gestione, di sostituire i vertici aziendali, di controllare la fase di passaggio dalla gestione privatistica a quella socializzata, e di commissariare le aziende di cui lo Stato ritenesse opportuno assumere la proprietà.

Angelo Tarchi
Angelo Tarchi (1897-1974) Ministro dell'Economia Corporativa

Con il decreto del 12 febbraio 1944,  la Repubblica Sociale Italiana si proponeva di <stare con il popolo, superando quell'andare verso il popolo> che era stato tipico del Regime. Se alla socializzazione guardarono con simpatia alcuni ambienti sindacalisti, sospetti e timori circa i suoi esiti e la sua rapida applicazione furono, più o meno tacitamente espressi, dagli ambienti conservatori. Ciò spiega il ritardo con cui il decreto fu pubblicato sulla <<Gazzetta Ufficiale>, in contemporanea con il decreto che
ne fissava al 3o giugno l’entrata in vigore. Un terzo decreto, datato 3o agosto 1944, dettò norme per una sua più sollecita attuazione. Malgrado il ro luglio e il 13 settembre fosse stata disposta la socializzazione delle aziende dell'IRI e del settore dei giornali e dell'editoria, i primi effettivi cambiamenti si  ebbero solo alla fine del ry44 Una settimana dopo l'ultimo bagno di folla ricevuto dal Duce a Milano e il discorso al Lirico, fu pubblicato il 22 dicembre il decreto con le norme attuative e integrative della socializzazione. Il documento, accogliendo le ragioni dei sindacalisti,
attribuiva maggiori poteri al sindacato, cui spettava il compito di soprintendere alle elezioni interne alle aziende; ai consigli di gestione, che potevano nominare il capo dell'impresa, convocare riunioni del consiglio e presiederle in mancanza del capo dell'impresa; ai rappresentanti dei lavoratori, nell'assemblea, non licenziabili né trasferibili in dipendenza dell'attività svolta nell’esercizio della loro carica, Il r9 gennaio 1945 fu istituito il ministero del Lavoro, retto da Giuseppe Spinelli, che prevedeva una Direzione generale per la socializzazione e assorbiva i poteri del ministero dell'Economia corporativa.  Soppresso quest'ultimo, Tarchi passò a reggere il nuovo ministero della Produzione industriale. La Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 1945 pubblicò il decreto sull’ordinamento della Confederazione generale del lavoro, della tecnica e delle arti, creata il 20 dicembre 1943. Questa doveva riunire le precedenti confederazioni per superare lo sbloccamento del 1928, mentre a fine dicembre del 1944 si era disposta la liquidazione delle confederazioni padronali.
Mussolini a milanoDall'inizio dell'ultimo anno di guerra presso il ministero del Lavoro si assistette a una frenetica attività socializzatrice. Le aziende socializzate sarebbero state 76, con rz9 mila dipendenti e 4.fl9 milioni di lire di capitale. Ancora oggi poco si conosce  in merito all'effettiva applicazione dei provvedimenti.  Ciononostante è possibile affermare, perlomeno nel caso della FIAT della maggioranza delle imprese socializzate, che la  fine del Fascismo giunse prima che le misure disposte per decreto dalle autorità repubblicane avessero un concreto impatto sulle realtà aziendali sul piano della predisposizione di statuti e decreti relativi alle singole imprese. Il progetto di  socializzazione della RSI naufragò per vari motivi, oltre che per il momento tardivo della sua messa in atto: determinanti furono le divergenze interne allo Stato fascista repubblicano riguardo a misure che rimasero inerti per molti mesi, in una situazione definita <rivoluzionaria>, ma tale più sul piano delle parole che su quello dei fatti. Decisive furono sia l’ostilità dei tedeschi, preoccupati per le possibili conseguenze nel campo della produzione bellica, e desiderosi di appropriarsi di macchine e materiali dell'industria italiana, sia la contrarietà degli esponenti di quest’ultima, i quali boicottarono, anche grazie ai legami con la grande industria germanica, i provvedimenti che pure fecero finta di approvare, cercando di rinviarli quanto più possibile. Se molti operai disertarono le elezioni delle Commissioni interne, è anche vero che a esse guardarono con interesse e per vari motivi certi ambienti della sinistra antifascista. Alcuni esponenti di quest'ultima in esilio all'estero erano rientrati in Italia, convinti che, liberato dai vincoli reazionari imposti dal regime, il Fascismo potesse realizzare finalmente le sue pagine di politica sociale più avanzata. Era il momento della <politica dei ponti> che vedeva alcuni antifascisti guardare con interesse alla repubblica del Duce; potremmo, fra i tanti, citare a proposito i fratelli Bergamo, rientrati dalla Francia in nome dei vecchi ideali sociali, repubblicani e antiborghesi. Alcuni rivoluzionari di sinistra ritennero che la politica delle <mine sociali> potesse qualificare agli occhi dei lavoratori l’ultimo Fascismo. A Terni nell'ultimo periodo della RSI, si assistette all'elezione delle commissioni di fabbrica, da cui nel dopoguerra sarebbero sorti i consigli di gestione, presi a modello dal più importante e rappresentativo sindacato italiano, la CGIL. Nella
città umbra il Fascismo volle giocare la carta delle commissioni interne abolite con il patto di Palazzo Vidoni (con il quale il 2 ottobre 1925 1l Regime aveva avocato a sé la rappresentanza sindacale con il consenso di Confindustria, che da quel  momento avrebbe avuto come referenti sindacali le Corporazioni fasciste e non più i liberi sindacati) e in questo capitolo della storia del sindacalismo entrarono in gioco anche i partiti di estrema sinistra. In principio la loro posizione ufficiale fu di <combattere in tutte le forme i sindacati fascisti e le loro organizzazioni anche facendo dimettere dalle commissioni interne legali i propri iscritti che esercitassero ancora tali funzioni>. Tuttavia questo non fu possibile per la mancanza in Umbria di organizzazione sistematica dell'antifascismo, come attesta la documentazione conservata nell'archivio del PCI. il fronte antifascista in questa regione, debole anche per le diffidenze esistenti al suo interno, accettò quindi che, accanto ai fascisti, e con il consenso delle autorità repubblicane, fossero eletti suoi elementi, comunisti, socialisti e anarchici.  Questa scelta finora occultata, perché imbarazzante, può essere spiegata con la disorganizzazione dei comunisti, con lo scarso numero dei componenti le loro cellule nelle acciaierie, con la diffidenza esistente tra le forze di sinistra, con la volontà - comune anche ai fascisti - di opporsi al prelevamento operato dai tedeschi dei macchinari e dei materiali industriali. Ci furono, soprattutto tra i comunisti, iniziali opposizioni e titubanze circa la presenza di loro uomini nelle liste dei candidati; poi, però, ai <compagni> occupati negli stabilimenti e nei cantieri giunse dal vertice del PCI la direttiva di nominare e far riconoscere dalla direzione le
Acciaierie terni
Le Acciaierie di Terni nel 1930
commissioni elette, di cui qualche loro elemento doveva far parte, per tentare accordi con gli organi direttivi degli stabilimenti <su un terreno antitedesco>, e collegarle al <comitato di partito dell’officina". Pertanto, quando il 1° marzo 1944, alla <Terni si svolsero le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nelle liste sia della categoria operai, sia della categoria impiegati, furono inclusi, con l'assenso dei sindacati fascisti, elementi comunisti, socialisti e anarchici. Loro obiettivi erano opporsi all'asportazione dei macchinari industriali da parte dei nazisti e inserirsi nel mondo delle rappresentanze sindacali da cui per anni erano stati esclusi.
Come avrebbe scritto in seguito Luigi Longo a Palmiro Togliatti, in vista dell'imminente liberazione, occorreva ricordare ai compagni che, appena fosse stato possibile alle masse controllare e dirigere le varie istituzioni operaie in questione,
essi ne avrebbero rivendicato il diritto: <Noi siamo contro oggi alle commissioni interne fasciste e ne boicottiamo con tutti i mezzi le elezioni, ma è evidente che domani, a liberazione avvenuta, procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie...u. Un implicito riconoscimento del fatto che anche l'odiata dittatura aveva compiuto qualcosa di buono per i lavoratori. Negli stabilimenti  siderurgici della <Terni>, accanto ai sindacalisti Maceo Carloni e Faliero
Rocchiccioli, firmatari nel r94o del contratto dei metalmeccanici e ad altri fascisti come l'operaio Bruno Marini e l'impiegato Alvaro Garzuglia, furono eletti il socialista
Giuseppe Scalzone per la categoria impiegati; per la categoria operai: Ettore Secci, già socialista, poi sindacalista fascista, quindi comunista; l’ex confinato socialista Umberto Bisci; l’anarchico Gioacchino Orientali e Luigi Campagna, futuro assessore comunista al Comune di Terni: tutti noti per il loro passato sovversivo. L'esperimento ternano fu attuato nonostante le disposizioni impartite, qualche giorno dopo, 717 marzo, dal commissario nazionale del lavoro, per impedire che fossero chiamati a rappresentare le maestranze lavoratori non iscritti. Il decreto proibiva a chiunque di assumere per qualsiasi motivo la rappresentanza di maestranze industriali, la cui tutela, è, a norma delle vigenti leggi, di esclusiva competenza delle organizzazioni
Manifesto antifascista
Manifesto Antifascista che bolla come truffa la socializzazione
sindacali legalmente riconosciute>. Ma nelle settimane precedenti la liberazione di Terni, preoccupati dalla tutela del lavoratore e dalla volontà di salvaguardare l'esistenza delle acciaierie, nelle commissioni di fabbrica lavorarono a stretto contatto fascisti e antifascisti. Cosa indusse molti di questi ultimi ad accettare tale politica di collaborazione?  Opportunismi a parte, forse il timore che i tedeschi riuscissero a rovesciare le sorti del conflitto in corso, sicuramente la debolezza di cui soffriva il fronte antifascista, escluso per 20 anni dal sindacato, nel quale aspirava a tornare con un ruolo di rilievo, la volontà di opporsi all'asportazione dei macchinari messa in atto dai tedeschi.  Ci fu forse anche chi si illuse che la socializzazione potesse segnare una svolta nei rapporti tra datori di lavoro e prestatori d'opera, permettendo una maggiore giustizia sociale.
Al di là di ciò che poterono fare, anche per ragioni di tempo, gli eletti nelle commissioni di fabbrica a Terni, va sottolineato come quanto qui avvenuto sia significativo e non a caso abbia costituito un capitolo imbarazzante per una certa storiografia che ha preferito sorvolare in merito. Tornando, più in generale, al progetto sulla socializzazione elaborato durante la RSI, va detto che esso non sarebbe
andato del tutto perduto, passando parzialmente in eredità ai partiti antifascisti. Preoccupato di fare salvo il principio della partecipazione operaia alla gestione delle aziende, pur abrogando la regolamentazione sociale fascista, il Comitato di liberazione nazionale per l'alta Italia, fin dal 17 aprile 1945 predispose un decreto che utilizzava lo schema tecnico dei consigli di gestione creati dalla nazionalizzazione di Mussolini. Il CLNAI, abrogando la legislazione della RSI in materia di socializzazione delle imprese, dichiaro decaduti gli organi da questa creati, sancendo il principio della partecipazione agli utili e alla gestione delle aziende attraverso <nuovi e democratici> consigli di gestione; condannò gli <obiettivi antinazionali> della socializzazione con cui il Fascismo aveva tentato di <aggiogare le masse lavoratrici dell'Italia occupata  al servizio e alla collaborazione con l’invasore tedesco>; riconobbe <l'alta sensibilità politica e nazionale delle maestranze dell'Italia occupata che, astenendosi in massa da ogni partecipazione alle elezioni dei rappresentanti nei consigli di gestione, hanno manifestato la loro chiara comprensione del carattere antinazionale e demagogico della pretesa " socializzazione" fascista>.
Intenzione del CLNAI era <assicurare, all'atto della liberazione dei territori ancora occupati dal nemico, la continuità e il potenziamento dell'attività produttiva, nello spirito di un'effettiva solidarietà nazionale>. Il decreto abrogo la socializzazione affidando a nuovi consigli di gestione, con poteri identici ai precedenti, l’amministrazione delle aziende, rimandando al governo nazionale il compito di regolamentare la materia. Il decreto del CLNAI, accettato a malincuore dagli operai, non ricevette tuttavia l'approvazione degli angloamericani.
Se il più importante sindacato, la comunista CGIL, il 23 settembre 1945 approvò un documento in cui si parlava di <diretta partecipazione delle maestranze alla gestione
dell'azienda, realizzabile ad opera dei consigli di gestione>, l'atteggiamento ostile degli imprenditori non permise di andare oltre le buone intenzioni e un progetto di legge Morandi-D’Aragona sui consigli di gestione non fu mai approvato, e la materia continuò a essere disciplinata attraverso accordi aziendali da cui la gestione vera e propria era esclusa. Nel novembre del ry47  fu decisa l'istituzione di una commissione
speciale con il compito di elaborare la <Carta> dei consigli di gestione, ma non fu nemmeno eletta. Laddove istituiti, i consigli sopravvissero fino all'inizio degli anni Cinquanta, solo come semplici organismi fiancheggiatori dei sindacati. Fu questo il caso delle acciaierie ternane dove già alla fine del ry44 era stato stipulato un patto
per la partecipazione diretta di operai, tecnici e impiegati alla gestione dell'impresa. Il z9 gennaio ry45, 1l leader sindacale comunista Giuseppe Di Vittorio, parlando di questo patto al congresso della CGIL, affermo che esso apriva ai lavoratori nuovi orizzonti, dal momento che affermava il principio  che il progresso produttivo non si
svolge come qualcosa di estraneo ai lavoratori, non è qualcosa che interessa esclusivamente il capitalista ed è in funzione soltanto del profitto, ma è qualche cosa cui è legato l’interesse della società, l’interesse del Paese, per cui i lavoratori stessi debbono partecipare alla gestione delle aziende>. Il patto di Terni divento, per il sindacato confederale del dopoguerra, il modello da imitare e da applicare alle altre
imprese italiane. Era tuttavia destinato a esaurire la propria carica innovativa per il sopraggiungere di circostanze sfavorevoli legate alla crisi della produzione, alla disoccupazione, alla ricostruzione del secondo dopoguerra.
Nell’Assemblea costituente Tito Oro Nobili, deputato socialista di Terni, ricordò l’esperienza dei consigli di gestione nella sua città, proponendo un emendamento al 43" articolo della Costituzione e chiedendo di inserire, laddove si parlava del diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle aziende, <per mezzo dei propri rappresentanti in un comitato paritetico con i rappresentanti dell'impresa>. Poi però lo ritiro dichiarando di votare il testo della Commissione per non causare divisioni. Con la vittoria alleata e l’ingresso dell'Italia nell'area sotto l'egemonia statunitense era ormai prevalsa una linea politica neoliberista con cui si torno alla situazione che il ventennio non era riuscito a modificare, alla divisione tra capitale e lavoro, tra economia ed etica. Il sindacato fu ricondotto nell'ambito dell'associazionismo <libero e volontario>, con funzioni di rivendicazione e contestazione nei confronti sia della classe imprenditoriale sia dello Stato. Il sogno di una confederazione unitaria del sindacalismo italiano era destinato a non realizzarsi mai più.
Stefano Fabei

Nota: articolo estrapolato dalla rivista Storia in rete, n.105-106, Lugio-Agosto 2014

lunedì 16 giugno 2014

Delitto Matteotti: ecco il vero retroscena


becco-giallo-1924Con il noto discorso del 3 gennaio 1925 Benito Mussolini si era assunto la responsabilità del delitto Matteotti e, osserva Giorgio Galli, «questa assunzione di responsabilità fu, da allora, interpretata come un’ammissione di colpevolezza per l’assassinio di Matteotti». Attorno a questa interpretazione ruotano ancora oggi le principali ipotesi storiografiche tutte incentrate sulla vendetta politica e sul complotto affaristico ma tutte decontestualizzate dalla situazione politica del tempo. Novant’anni dopo è però possibile ricomprendere il delitto Matteotti calando la drammatica vicenda nel contesto storico e politico in cui essa maturò a cominciare dalle famose elezioni del 1924.

Alle elezioni del 6 aprile 1924 i partiti della sinistra avevano conseguito un notevole risultato, tenuto conto del nuovo sistema elettorale e delle violenze che avevano colpito la campagna per il voto. I socialisti unitari di Giacomo Matteotti avevano ottenuto ventiquattro seggi, ventidue i socialisti massimalisti, diciannove i comunisti, sette i repubblicani. Il voto complessivo conseguito dai partiti della sinistra segnava la sconfitta di Mussolini e del suo tentativo di "fascistizzare" le masse operaie e contadine; il risultato elettorale fascista, nonostante le lusinghe di Mussolini ai lavoratori, era decisamente sbilanciato a destra verso i datori di lavoro, gli agrari e gli industriali.

Aldo FinziMatteotti aveva vinto a sinistra, Mussolini aveva trionfato a destra; ma entrambi avevano adesso un problema. Mussolini intendeva sganciarsi dalla destra economica; Matteotti intendeva bloccare la concorrenza a sinistra dei comunisti che, peraltro, insieme ai massimalisti di Giacinto Menotti Serrati potevano contare una forza parlamentare che raddoppiava quella dei socialisti unitari. Il governo Mussolini, con l'avallo di economisti come Luigi Einaudi, stava orientando la sua politica economica verso una richiesta di consistenti prestiti agli Stati Uniti d’America. Mussolini intendeva trattare prestiti a lungo termine con finanziamenti erogati direttamente al governo o alle aziende senza il tramite delle banche, al fine di ricondurre l'economia nazionale al controllo politico sottraendola così al potere bancario. Giuseppe Toepliz, amministratore delegato della potente Banca Commerciale Italiana, insieme agli industriali gravitanti nella sua orbita e interessati agli appalti dello Stato, erano invece decisamente contrari che i prestiti fossero gestiti direttamente dal governo. Nel governo, il sottosegretario al ministero degli Interni Aldo Finzi, genero del potente banchiere romano Clementi e legato a Toeplitz, tutelava gli interessi della filiera bancario-industriale. Per Mussolini, dunque, sganciarsi dalla destra economica significava liberarsi dall'opposizione del sistema bancario alla sua politica economica, ma per fare questo era necessario spostare a sinistra l'asse del governo.

A questo punto il problema di Mussolini si aggroviglia con quel1o di Matteotti. A sinistra, infatti, i socialisti di Matteotti avevano dimostrato durante la campagna elettorale un certo vitalismo, riuscendo a intercettare il voto anche del ceto medio specie nel settentrione. Analizzando questo dato e ponendolo in relazione al diniego del PSU di aggregarsi al <fronte unico» proposto alla vigilia delle elezioni dai comunisti e respinto da Matteotti, il comunista Palmiro Togliatti affermava che <gli unitari vengono a costituire niente altro che una forza di riserva della borghesia, un'ala del Fascismo».

L'accusa di filofascismo formulata da Togliatti metteva in difficoltà il partito di Matteotti nella competizione con i comunisti e i massimalisti e di fronte al proletariato italiano. Matteotti doveva reagire. E lo fece con il famoso discorso del 30 maggio 1924 con il quale chiese I' invalidamento delle elezioni accusando i fascisti di violenze e brogli elettorali.  Quel discorso - ha scritto De Felice - intendeva dimostrare <<un nuovo modo di stare all’opposizione, più aggressivo, più intransigente, violento addirittura ma se si tiene conto del quadro politico complessivo, allora le parole di Matteotti non erano rivolte soltanto contro i fascisti ma anche contro i comunisti. Il nuovo modo di fare opposizione inaugurato da Matteotti con il suo discorso, insomma, aveva un duplice scopo: chiarire la posizione dei socialisti unitari di fronte al Fascismo e contemporaneamente svuotare di ogni significato l'accusa di filofascismo lanciata dai comunisti. Ancora De Felice sostiene che con il discorso del 3o maggio Matteotti bloccava L'ennesimo tentativo compiuto da Mussolini dopo il 6 aprile di aggregare i socialisti unitari e i confederali al suo nuovo governo. Tuttavia, rileggendo attentamente il testo, si nota che dopo un micidiale attacco al Partito Nazionale Fascista e alla sua condotta elettorale, quel discorso si conclude con un severo appello al governo; rivolgendosi direttamente a Mussolini, infatti, Matteotti afferma: «Noi sentiamo tutto il male che all'Italia apporta il sistema della violenza; abbiamo lungamente scontato anche noi pur minori e occasionali eccessi dei nostri. Ma appunto per ciò, noi domandiamo alla maggioranza che essa ritorni all’osservanza del diritto.  Voi che oggi avete in mano il potere e la forza, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio di tutti gli altri essere in grado di fare osservare la legge da parte di tutti. Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l ‘autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo, altrimenti voi, sì, veramente rovinate quella che è l'intima essenza, la ragione morale della Nazione». E' in questo brano il vero significato politico dell'intero discorso. Matteotti, infatti, realisticamente non chiede le dimissioni del governo bensì si appella a esso sfidandolo a ristabilire l’autorità dello Stato e a salvare la ragione morale della Nazione.

Mussolini E farinacci

Mussolini accetta la sfida e replica a Matteotti con il noto discorso del 7 giugno 1924 nel quale, dopo una formale difesa d'ufficio dello squadrismo, si rivolge direttamente ai socialisti unitari affermando: 
"non si può rimanere sempre estranei; qualche cosa, bene o male, bisogna dire o fare, una collaborazione positiva o negativa deve esserci (...) E' un quesito che pongo alla vostra coscienza; voi lo risolverete; non tocca a me risolverlo"
Questo è il momento culminante dell'intera vicenda. Le intenzioni di Mussolini di proseguire nella ricerca della collaborazione con i socialisti unitari anche nel 1924 sono state ricostruite da Renzo De Felice nella sua biografia del capo del Fascismo. Ovviamente le intenzioni di Mussolini erano state intercettate da quei settori interni al Fascismo legati al mondo finanziario e ostili alla collaborazione tra il governo e i socialisti unitari. Si tratta degli stessi settori che avevano tentato di sabotare nei primi del 1924 il riconoscimento della Russia bolscevica da parte dell'Italia, ratificato da Mussolini il z febbraio; tentativi falliti perché smascherati dal deputato comunista Nicola Bombacci il quale, documenta Petacco, li denunciò in aula intervenendo a favore del riconoscimento e del trattato commerciale con la Russia che - disse - avrebbero contribuito a <difendere la nostra economia e liberarla dalla schiavitù delle grandi compagnie petrolifere>. E' questo un elemento da tenere in considerazione nel contesto politico della vicenda: nel :-9z4le relazioni con la Russia consentivano a Mussolini di non impensierirsi più di tanto per i comunisti italiani i quali, semmai, insieme ai socialisti massimalisti, potevano costituire un problema per i socialisti unitari se avessero accettato la collaborazione col governo.  Ma quale atteggiamento avrebbero assunto i comunisti, i massimalisti e il proletariato italiano se questa collaborazione fosse nata in seguito ad un radicale mutamento di tutta la politica mussoliniana determinata da una clamorosa azione politica provocata dai socialisti unitari? Ecco un ipotesi che non è mai stata considerata dalla storiografia: cosa sarebbe accaduto se Matteotti, che già il 3o maggio aveva sfidato il governo a ristabilire I 'autorità dello Stato, avesse lir giugno denunciato al governo il coinvolgimento di settori identificati del Fascismo e dello Stato in un losco traffico di corruzione? Si sarebbe inevitabilmente creata una situazione d'emergenza. A quel punto il governo sarebbe stato costretto a intervenire chiedendo la collaborazione straordinaria di quelle personalità e di quelle forze che avevano contribuito a smascherare i corrotti all'interno del Fascismo e dello Stato. La collaborazione tra Matteotti e Mussolini, determinata così da una situazione emergenziale, sarebbe stata allora giustificata di fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale, davanti al proletariato e in faccia ai comunisti, ai massimalisti,'ai fascisti e agli antifascisti che sarebbero stati costretti a valutare il fatto nuovo e a prendere una posizione.

Matteotti alla Camera

Tutto questo presuppone una questione che la storiografia non ha mai osato affrontare: Matteotti e Mussolini potevano organizzare insieme il determinarsi di una situazione d'emergenza che avesse  giustificato la loro collaborazione al governo della Nazione? C'è da considerare, innanzitutto, su quali elementi storici dovrebbe reggersi tale nuova questione.
Il primo elemento è costituito dal rapporto politico tra i due protagonisti: Matteotti e Mussolini. Sul numero di gennaio di questa rivista (vedi <Matteotti e Mussolini, vite parallele,, su Storia In Rete> n. 99) si è già visto che i due uomini politici avevano alle spalle una comune militanza socialista segnata da divergenze pratiche ma da convergenze teoriche e che pur schierati su fronti avversi, avevano collaborato nei momenti straordinari della storia del Socialismo italiano; i due ex compagni, carissimi nemici, avrebbero potuto certamente ritrovarsi ancora una volta insieme di fronte ad una straordinaria emergenza che riguardava la Nazione.
Il secondo elemento è rappresentato dalla politica di collaborazione perseguita da Mussolini tra il 1922 e il 1924 e avversata da Matteotti.
Nel 1924, però, il quadro politico che faceva da sfondo era cambiato rispetto al t9zz. Mussolini adesso era presidente del Consiglio con una maggioranza ampia e che, grazie al sistema maggioritario, si estendeva ben oltre i confini del suo partito.
Alla Camera e al Senato c'era un’opposizione costituzionale che sovente collaborava con il governo. Matteotti, in quanto segretario del maggior partito della sinistra, era il nuovo Leader della minoranza. Matteotti però, avverte Mimmo Franzinelli, adesso era anche un uomo solo: <segretario di un partito i cui dirigenti propendono - tranne poche eccezioni - per una linea di compromesso>; una condizione rilevata anche da Mauro Canali il quale ha osservato che l'avversione alla collaborazione (<aveva finito per rendere politicamente precaria la sua carica alla segreteria del partito, perché gli aveva inimicato ampi settori di esso, urtando personaggi, come gli organizzatori sindacali, tutti collaborazionisti, che godevano d un indiscusso potere>. Lo stato d'animo in cui si trovava il deputato socialista in quel frangente, mai tenuto in considerazione dalla storiografia, non può non avere influito nelle sue riflessioni sulla situazione politica personale e complessiva. E' possibile che un uomo politico come Matteotti, nelle condizioni anche intime in cui si trovava dentro e fuori il suo partito, non abbia tenuto conto di tutte le possibili soluzioni tese a superare il suo isolamento e a definire I 'assetto politico italiano compreso la scelta della collaborazione, nel 1924 ancora circolante all'interno del suo partito e del sindacalismo confederale?
Avanti sul delitto matteottiIl terzo elemento riguarda la natura del delitto e si ricava dalla trama stessa dell'intera vicenda così com'è stata ricostruita dagli atti processuali e dalla storiografia: il delitto fu politico, ispirato dalla vendetta e dettato dall'esigenza di bloccare la denuncia di un colossale scandalo affaristico che coinvolgeva una parte del mondo politico e di quello finanziario. E' pero necessario riesaminare la natura del crimine da una prospettiva diversa da quella in cui fin qui è stata osservata. Il delitto fu politico ma non va collocato nell'ambito del conflitto tra Fascismo e Antifascismo bensì nel  più ampio contesto della lotta combattuta in quel momento tra quelle forze politiche ed economiche che auspicavano un radicale mutamento della scena politica nazionale, e quelle che invece intendevano lasciare immutato lo scenario italiano; e questi due schieramenti erano trasversali al Fascismo e all’Antifascismo. Il delitto fu ispirato dalla vendetta ma non del fascista Mussolini contro l'antifascista Matteotti bensì dalla vendetta dei gruppi fascisti contrari alla svolta, contro lo stesso Mussolini che quella svolta intendeva praticare. Erano gli stessi gruppi che nel 1922 avevano sequestrato il repubblicano Torquato Nanni, amico di Mussolini e di autorevoli esponenti socialisti, per eliminare, spiega De Felice, <un tramite tra Mussolini ed i riformisti> nello stesso momento in cui erano in corso le trattative per una collaborazione dei socialisti con il governo nato dalla marcia su Roma. Del resto, se nel caso della morte di Piero Gobetti per esempio, , esiste una prova documentale della responsabilità di Mussolini, che consiste nel telegramma da questo inviato al prefetto di Torino per rendere <impossibile la vita> all'intellettuale liberale, nel caso di Matteotti non esiste alcuna prova concreta né di un eventuale ordine scritto né di un eventuale ordine a voce. Le frasi incriminate attribuite a Mussolini dagli atti processuali e dalla storiografia provengono dai memoriali di alcuni imputati ma i memoriali, come insegnava Marc Bloch, non costituiscono una fonte storica attendibile.Sinclair Oil
Il delitto fu dettato quindi dalla necessità di impedire a Matteotti di rivelare i loschi affari di quella che è stata definita <la banda del Viminale>. Anche qui è stato chiamato in causa Benito Mussolini e addirittura il fratello Arnaldo, arruolati tra i mandanti sulla base dei soliti memoriali e di tutta una serie di congetture a cominciare dalle presunte tangenti che sarebbero state intascate dai fratelli Mussolini. Tuttavia, a oggi, non esiste una prova concreta del coinvolgimento dei fratelli Mussolini nel malaffare che intendeva svelare Matteotti. Lo stesso deputato socialista, del resto, né per iscritto né a voce ha mai potuto rivelare i nomi dei corrotti, mentre ha anticipato e indicato I 'identità del corruttore nella compagnia petrolifera americana Sinclair Oll. Che <Il Popolo d'Italia» e i fratelli Mussolini fossero sovvenzionati, è stato storiograficamente accertato e documentato; in proposito, però, analizzando le sovvenzioni ottenute dal giornale fascista tra il 1924 e il 1928, Marcello Staglieno ha evidenziato che non figura alcun finanziamento erogato o riconducibile alla Sinclair Oil. La vicenda dei rapporti tra Mussolini e la Sinclair Oil, del resto, mostra uno schema molto più articolato e complicato di quello adottato dalla storiografia. Al primo punto si trova la necessità dell'Italia di perseguire negli anni Venti una seria politica dei petroli attraverso un altrettanto necessario approvvigionamento dall’estero per coprire il fabbisogno nazionale. Al secondo punto compare la possibilità alternativa del trivellamento sul territorio nazionale il cui costo è pero stimato, in una relazione del 18 luglio 1923 presentata a Mussolini dal ministro dell’Agricoltura Giuseppe De Capitani, nella somma di 200 milioni. Al terzo punto la proposta De Capitani s'infrange sul macigno del deficit di bilancio dello Stato italiano. Al quarto punto compare finalmente la Sinclair OiI, venuta fuori dai contatti tra l’ambasciatore italiano in America Gelasio Caetani e il direttore dell'Ufficio delle Miniere americano Forster Bain. I contatti cominciano in America nel gennaio r9z3 e s'intensificano con il coinvolgimento di emissari della Sinclair. Con il successivo coinvolgimento del ministro De Capitani, i contatti mutano in vere e proprie trattative: incoraggiate dai comunicati stampa di Cesare Rossi, il responsabile della comunicazione della Presidenza del Consiglio, sostenute dal quotidiano <Il Corriere italiano> di Filippo Filippelli e perorate anche dal giornalista Filippo Naldi. E' a questo punto che entra in scena Mussolini il quale nel febbraio 1924, tanto inaspettatamente quanto energicamente, tronca ogni trattativa con la Sinclair Oil e decide, aggiunge Staglieno, di avocare <<a sé ogni decisione sulle concessioni petrolifere».
Ci sono due eventi che concorrono a spiegare la decisione presa dal Capo del governo. Il primo è costituito dal fatto che proprio nel febbraio t924, come già scritto, Mussolini riconosce de jure l'Unione Sovietica; e il riconoscimento segna una svolta non soltanto nella politica estera e commerciale ma anche nella politica italiana dei petroli. Come documenta Carlo Lozzi, infatti, nei primi quindici mesi in cui fu in vigore il trattato, l'Italia aveva importato dalla Russia <per 19 milioni di lire, principalmente petrolio e prodotti petroliferi>. Il secondo si svolge proprio in occasione della politica di avvicinamento all'Unione Sovietica, quando Mussolini scopre un difetto negli ingranaggi della sua macchina governativa. Il deputato comunista Bombacci, come già scritto, aveva denunciato in aula un complotto all'interno del governo per impedire il trattato; rivolgendosi a Mussolini, insinuo: <Lei sa, signor presidente, che proprio la settimana scorsa a Mosca sono state presentate delle precise condizioni per concludere il trattato? Io temo che non lo sappia. Io temo che lei non venga informato con soverchia sollecitudine. Io temo che l'Italia non abbia le mani libere per trattare!». Mussolini, scrive Petacco, avvio subito delle indagini e scoprì che i documenti inviati da Mosca, cui accennava Bombacci, erano stati effettivamente occultati; evidentemente, chi intendeva sabotare  la trattativa era in grado di manomettere la documentazione destinata al Capo del governo. L’intera vicenda fornisce una chiave di lettura - fin qui sottovalutata dalla storiografia - delle dinamiche politiche ed economiche che si svolgono nel 1924, e cioè che la politica mussoliniana verso la sinistra, nazionale e internazionale, era effettivamente tenuta sotto controllo e ostacolata attraverso un'infiltrazione operante persino all'interno di Palazzo Chigi.

Allo stato dei fatti non esiste una prova formale e definitiva che identifichi in Benito Mussolini il mandante dell'assassinio di Giacomo Matteotti. Che il <cerchio magico intorno a Mussolini fosse profondamente inserito in un vorticoso giro di tangenti non significa, fino a prova contraria, che Mussolini ne fosse coinvolto. Che il famigerato Dumini fosse stato arrestato a Trieste per traffico d'armi verso la Jugoslavia e Mussolini sia intervenuto in suo favore per chiudere la faccenda, nello stesso momento in cui egli era impegnato nelle trattative con la Jugoslavia per definire la questione di Fiume, non prova alcuna complicità ma dimostra l'esigenza di bloccare quello scandalo che poteva compromettere l'accordo tra i due Stati poi firmato a Roma nel gennaio 1924. Che dei faccendieri versino somme a quella presidenza del Consiglio infiltrata e sottoposta a controllo, non significa che il beneficiario fosse il Capo del governo e non chi, invece, agiva alle sue spalle. Ha ragione, dunque, lo storico Pierre Milza quando sull'intera vicenda scrive: <per quanto serie siano le presunzioni di colpevolezza avanzate da Mauro Canali, non mi pare che si possa decidere con certezza, in mancanza di una prova formale e definitiva». Se ancora oggi si è nel campo delle presunzioni e delle ipotesi, allora è possibile presumere e ipotizzare una diversa versione dei fatti non in contrasto con gli elementi che compongono la vicenda.

NIcola Bombacci CCCP

Alla luce di questa nuova prospettiva è possibile quindi ipotizzare che le cose siano andate così: è presumibile che Mussolini abbia pensato nel r94 di chiedere la collaborazione di Matteotti e che le carte dell'affare Sinclair, se rese pubbliche, avrebbero potuto giustificare davanti all’opinione pubblica la collaborazione tra i due ex compagni. Canali scrive che Matteotti comincio a interessarsi dell'affare Sinclair  durante il suo breve viaggio segreto in Inghilterra, nell'aprile 1924; il deputato socialista, dunque, ricavava le sue informazioni nello stesso momento in cui I'ex socialista Mussolini e il laburista Ramsay Macdonald, primo ministro britannico, dialogavano per dirimere la questione dell'Oltregiuba (la striscia di territorio fra Somalia e Kenya ceduta dagli inglesi alla colonia italiana NdR) e del Dodecaneso: è presumibile che in tale frangente si sia verificato un passaggio d'informazioni, se non di documentazioni, sulla questione petrolifera italiana che interessava anche agli inglesi (su questo punto si veda anche l'articolo successivo, alle pp. 24-35 NdR). Potrebbe sembrare  impossibile una collaborazione fra  Matteotti e Mussolini nel 1924, eppure un precedente esiste e risale al febbraio 1923 quando Gregorio Nofri, del comitato centrale del PSU e amministratore del giornale del partito <La Giustizia>, avviò trattative con Sandro Giuliani, capo redattore de (Il Popolo d'Italia> e uomo di fiducia di Mussolini, su una  possibile intesa tra il Duce e i socialisti unitari. Filippo Turati, come Mussolini era al corrente di tali contatti e, spiega De Felice, <il che non solo era vero, come dimostra la corrispondenza di quei giorni tra Turati e la Kuliscioff (dalla quale appare che lo stesso Matteotti aveva consentito all'incontro Nofri-Giuliani), ma era  ancora solo una parte della verità. Da una lettera della Kuliscioff del 13 febbraio 1923 si arguisce infatti che il contatto, sollecitato dai fascisti, doveva stare molto a cuore a Mussolini che pare si fosse dimostrato disposto a recarsi in segreto a Milano in aereo, probabilmente per trattare personalmente  e a piu alto livello». Quel dettaglio sul consenso di Matteotti alle trattative, posto tra parentesi da De Felice, rende presumibile che quei contatti, interrotti nel 1923, fossero ripresi nella primavera del rgz4, in un contesto politico cambiato nel quale, sulla base della questione morale, sarebbe stato possibile raggiungere l'intesa sulla collaborazione tra Matteotti e Mussolini.

E' presumibile anche che Velia Matteotti fosse al corrente della collaborazione tra il marito e Mussolini e questo giustificherebbe il suo comportamento dopo il crimine.
Velia rimase in Italia con i figli, non seguì gli antifascisti nell'esilio, e la famiglia Matteotti ricevette segretamente e costantemente da Mussolini un consistente sostegno economico. Mauro Canali ha documentato tali finanziamenti criticando il comportamento della vedova. Quelle somme, però, non servirono a pagare il silenzio di Velia Matteotti com'è stato affermato; dimostrano, semmai, che lei mai ritenne Mussolini responsabile del delitto perché probabilmente sapeva qualcosa che escludeva Mussolini da ogni responsabilità. Posto che questo straordinario <qualcosa» fosse la collaborazione tra Matteotti e Mussolini, e che Mussolini avrebbe ottenuto dalla collaborazione un risultato storico sul piano nazionale e internazionale, cosa sarebbe rimasto a Matteotti? Anch'egli avrebbe conseguito un eccezionale risultato storico, sul piano del Socialismo italiano e mondiale; 1o spiega lo stesso Mussolini quando dichiara, negli anni Trenta, al giornalista Yvonne De Begnac: <noi avevamo interesse a che l'onorevole Matteotti, il più solido fra gli anticomunisti italiani, proseguisse la lotta per l'autonomia e per la riunificazione del Socialismo italiano>. Un governo formato dalla collaborazione tra Matteotti e Mussolini e nato dalla questione morale, mentre I’Italia era in sintonia con l'Unione Sovietica così  come con la Gran Bretagna laburista, e mentre in Francia il Socialismo vinceva le elezioni e in Belgio si apprestava a vincerle, avrebbe consentito al Socialismo italiano riunificato di indicare una nuova via a quello europeo e una nuova relazione tra il Socialismo occidentale quello orientale della Russia. Matteotti sarebbe stato l'artefice del rinnovamento del Socialismo internazionale e colui che avrebbe costretto il Fascismo italiano a una svolta a sinistra mentre nascevano in Europa altri movimenti ispirati al Fascismo. Davvero, dunque, la collaborazione con i socialisti, come sosteneva Mussolini, avrebbe determinato una svolta storica nella politica italiana e nella politica internazionale.
Velia Titta
La mancata collaborazione tra Matteotti e Mussolini, resa possibile dall'eliminazione del deputato socialista, creò una situazione d'emergenza tanto straordinaria quanto quella che sarebbe stata determinata da una possibile collaborazione. Gli esiti, naturalmente, furono diversi e in un certo senso sciagurati per l'Italia. Turati, leader dell' Aventino, aveva in mano dei documenti ma non li utilizzò. E' certo, e anche inquietante, che Mussolini, a proposito di Turati, confiderà a De Begnac: <mi ha considerato mandante del delitto Matteotti, pur conoscendo la mia assoluta  estraneità a quel turpe episodio>. Nel 1934 molti di quei socialisti che dieci anni prima erano stati vicini a Matteotti e lo avevano pianto, da Caldara a Romita, ritentarono la carta della collaborazione con Mussolini ma furono ostacolati e respinti dai soliti ambienti fascisti e, tranne poche eccezioni, dal fuoriuscitismo antifascista. Ci fu, tra quei socialisti che nel 1934 chiesero la collaborazione a Mussolini, un ripensamento sui fatti terribili del 1924?

Michelangelo Ingrassia (Università di Palermo)

Articolo scannerizzato dalla rivista “Storia in Rete”, n°104, del mese di Giugno, 2014.

lunedì 21 maggio 2012

La FINANZA della R.S.I.

Premessa

Nel  perdurante clima di disinformazione - relativamente all'assetto economico-finanziario e alla crisi in atto - nessuno parla di sistemi alternativi per arginare ed abbattere la stretta creditizia e, soprattutto, cosa assai più importante, tutti si guardano bene dall' annoverare persone e fatti pregressi che invece risulterebbero assai utili per risolvere una volta per tutte il problema alla radice. Nessuno ricorda, per esempio, cosa accadde durante la repubblica di Weimar e, soprattutto, come e da chi fu risolta... Nessuno ricorda, altresì, come Benito Mussolini, appena nominato Presidente del Consiglio ad appena 39 anni, abbia assunto - ad interim - anche le cariche di Ministro degli Esteri e degli Interni, con una speciale delega all'economia; e come riuscì nei primi tre anni a dipanare ogni disavanzo primario e a raggiungere l'agognata parità di Bilancio, tanto che persino Luigi Einaudi lodò quanto fece l’allora presidente del Consiglio. Si ricordano viceversa gli incarichi recenti del Presidente Monti come commissario UE dimenticando, però, che egli fu già consulente durante il governo De Mita dell’ex ministro del Bilancio Paolo Cirino Pomicino che l’aveva nominato in tre commissioni, incaricate di ridurre la spesa e il debito. Purtroppo – sia detto per inciso – il debito pubblico aumentò del 44,5% in quei tre anni e la spesa pubblica del 45,9 % tant’è che nel ‘92 il nostro “eroe” se ne tornò con la coda fra le gambe all’università (forse per riprendere gli studi)  lasciando  l’Italia in balia di se stessa. L’elenco dei “guastatori economici” potrebbe continuare per ore, ma ritengo inutile andare avanti. In tempi bui, di mestissima crisi finanziaria, nessuno parla della vera origine del debito pubblico che non è dovuta esclusivamente a sprechi e ruberie . ma soprattutto al fatto che né lo stato nè tantomeno il popolo sono proprietari della moneta.
Pochi parlano dei casi attuali della Grecia e dell'Argentina... che non sono retti da regimi dittatoriali o autoritari che dir si voglia,  ma che rappresentano - soprattutto nel caso islandese - una prova lampante e inimitata di democrazia reale e sostanziale.
Le uniche parole che ci sentiamo ripetere sono quelle assimilabili alla strategia del ricatto, alla tattica dell'usuraio mascherato che con la bocca fa finta di concedere e poi arraffa tutto con ambedue le mani. Si afferma infatti: Se non seguirete la nostra "ricetta" faremo la fine della Grecia, i suicidi anziché diminuire aumenteranno in modo esponenziale ecc. 
E' chiaro che quando la situazione si fa critica ecco arrivare puntuale il ricatto: sia esso fiscale, oppure relativo alla politica economica da adottare.
Si tratta in effetti di una vera e propria strategia terroristica, per chiudere la bocca a chi non si allinea al mainstream, e vuole arginare l'ondata pervasiva di tasse e rincari che colpiscono tutti, in specie i ceti meno abbienti.

domenica 21 febbraio 2010

Lucciole per lanterne

domenica, 21 febbraio 2010

"Italiani popolo di santi, poeti e di  navigatori..."
B.M.

Mussolini, in un discorso del 1935, all'inizio della conquista dell'Etiopia, parlando del popolo italiano, fece questa solenne affermazione. Oggi, dopo oltre dieci lustri, il detto andrebbe sicuramente aggiornato. E dire che esistono individui che osano accostare la figura immacolata del Duce, a quella dell'attuale capo del Governo. Una bestemmia vera e propria, che non conosce limiti alla decenza. Ora che la cloaca è stata nuovamente scoperchiata, il fetore aleggia su tutto lo stivale italico, una seria analisi si impone ad ogni onesto italiano (degli Italyoti me ne frego!!). La prima cosa che verrebbe da dire è questa: "Tangentopoli non è servita a nulla". In questa affermazione c'è sicuramente del vero poiché in quella operazione (scattata  sicuramente in ritardo e paradossalmente ad orologeria) venne escluso (o quasi) il più grande partito d'opposizione: il P.C.I. Negli anni successivi, Berlusconi ha fatto passare l'idea che le leggi andavano interpretate, la costituzione rivista e  che la corruzione fosse inevitabile. Sulla Costituzione sono ancora più drastico,  visto che essa ha visto la luce in un periodo storico dove l'obiettività non albergava più a Roma...Non è esattamente un film di cattivo gusto, ma quasi...E' un documentario della storia italiana, fatta d'intrallazzi, di poltrone, di corruzione e malversazioni. Prima, per molto di meno, si rischiava grosso. Ora, visto che il puzzo è diventato insopportabile (non a caso il MSI fece la sua campagna elettorale dopo mani pulite distribuendo "saponette"), si cerca di correre ai ripari. In realtà solo gli ingenui possono credere alla favoletta delle pene più severe per i corrotti.  La Corte dei Conti ha quantificato l'andazzo della corruzione  con numeri da capogiro:  ogni anno ci sarebbe stato un aumento esponenziale del fenomeno. Il guaio è che finanche due Giudici della Corte sono indagati, oltre ad un giudice Costituzionale e ad un Magistrato della Procura romana. Inoltre se prima si rubava per i partiti adesso, a causa di un individualismo esasperato,  si ruba per proprio conto.  Il guaio è che non esiste alcun freno morale a tale andazzo. Chi non segue la scia è un pirla, un buono a nulla. Ecco la triste verità!  Mussolini tentò di ridare dignità al Popolo italiano, senza perseguire politiche di interesse personale. Ecco la verità. Allora lo Stato era proprietario della moneta; adesso nemmeno l'Europa (altro ente creato ad hoc dalle banche) lo è!.  E chi fa indebiti paragoni fra il Duce, Benito Mussolini (Che Dio lo abbia in Gloria!) e Berlusconi scambia lucciole per lanterne!!
© Douglass

lunedì 2 aprile 2007

MUSSOLINI : lumicino d’una stirpe ormai " al fondo della notte" di A.P.


2 Aprile 2007
Mussolini : lumicino d?una stirpe ormai ?au bou de la nuit?, di Antonio Pantano
Berlusconi – criniera tragicomica ritinta, in pallida imitazione di vecchie checche – è brodaglia scodellata dai telegiornali italioti (del medesimo, o di "regime", musica identica !). Piroetta, in sincronismo complementare al Prodi (veritiero insaccato di s.b.) e al Dalema (modesto talleyrand in collaudata linea di galleggiamento), dall'ombra dei patetici massoni che fanno i "repubblicani"! in regime di postriboli, fino alla corte dei "miracolati" che s"appanna alle scoppiettanti escandescenze puteolane della Scicolone, mancata al cinema come alla politica seria
(ammesso che in Italia ciò sia mai esistito da 62 anni !).
Locandine imbrattanti i muri romani.
In alto (pagò tutto lui ") il nome del plutocrate – "venuto dal mare" al ritmo di canzonette da crociera, poi (raccomandazioni siculo-americane di "liberatori" che s"avvalsero di Luciano "lucky", Vito Genovese e Frank Coppola "tre-dita" per governar Trinascria, Calabria, Campania, Roma e, dal 26 aprile 1945, Italyland tutta) posto-imposto al generone immobiliar-televisionario per assurgere – fiduciario d.o.c.g. – alla "politichetta" locale della penisola.
Sotto – auto-arrogato ruolo femminile ! – a caratteri minori, il nome d"arte (ereditato in via paterna) della partenopèa assurta alle cronache per aver distolto il marito dalla G.d.F. dirottandolo alla liberalizzata distruzione delle Ferrovie dello Stato, al suono di 300.000.000 di lire negli anni "90 ( ma quanto costano "balocchi e profumi" per la mogliera ! ).
Alternativa Sociale nella sigla, programmatica per piccoloborghesi frustrati, in cerca di cadreghe nel "potere consociativo" offerto a destra, ma sempre negato a chi "pensa in nero!".
Personaggi in cerca d"autore, ma proni al "verbo divino" dell"adoratore di "Remolo" e del "dio quattrino" in "libero mercato", purché sia quello dell"amico George dabliu Busch e dei consorti petrolieri saudiani o puttiniani di sempre.
"Verbo divino", briaco di libera droga in libero mercato : questi sono i "valori" anche spalleggiati dall"Amato del momento, che vede la neve anche a ferragosto, come i "cristiani-cretini" sull'Esquilino del quinto secolo. (Apro la parentesi : quando il mio rimpianto sodale Carmelo Bene coniò " Sono cretini che vedono la Madonna e cretini che non vedono la Madonna" diede lezione di alta filologìa: "cretino" è derivazione francese da "povero cristiano"). Berlusca, sedotto e abbandonato, per meri problemi di "centro", dai "casini" palazzinari che tengono a bada la sinistrerìa italiota, alliscia ora la frangia "nera" adulandola con diplomi di "destra", giocati sulla ignoranza dei molti destronzi, somari in storia per sessantennale digiuno di biada.
Il "vicario di Remolo" in terra d'Enotria ancora pontifica in vulgata istorica da "settimana enigmistica", ringraziando la "liberazione della penisola" iniziata dagli Alleati dal luglio 1943 – e mai conclusa – al suono di plotoni d'esecuzione che spazzarono "veri resistenti italiani", a migliaia, civili e militari, in spregio ad ogni "ginevrina convenzione". Connivente il "mezzo feto" (come onorevolmente appellò Ezra Pound il Vittorio tre, curtatone, sposato a Montanara), l"invasione della penisola fu scandita anche dalle liberal-liberiste professioni dei mercenari marocchini e nordafricani, scatenati"a tappeto" dal maggio all'ottobre 1944 dalla centro-merionale Ciociarìa alla centro-settentrionale Garfagnana : 16.000 donne stuprate in nome della "avanzante libertà sessuale" e poi – U.S.A.. e getta – poste in riposo tombale. "Affaruccio" addomesticato dal Moravia – scrivano di guardonesche frustrazioni sessuali – e dal De Sica Vittorio col solito peana cinematografico "sui liberatori brava gente", gratificato "dalli superiori" di "premio Oscar" per meriti artistico-delinquenziali.
Inutile dire che, tra gli antenati biologici, la puteolana in politica annovera anche un romagnolo vanitoso, reo di aver "voluto leggi antisemite" che il sovrano (il "mezzo feto" citato !)
legalizzò con la formale promulgazione, allegramente goduta anche dal coro clerical-romano, capeggiato dal monsignorino bresciano che, annotato tutto nel libro-mastro del "dare-avere", poi, su beneplacito del collega di New York, Spellman di turno, usò il killer dell"O.S.S. per toglier di mezzo "il testone", al solo fine di renderlo figurante sicuro e fisso, a testa in giù, nel baccanale
democratico-popolare di Piazzale Loreto, per le 12 cineprese pre-istallate di Combat film.
Antenato biologico, che una "sputatrice di storia in salsa viterbese", assurta per meriti "di segreteria" ad inutile ed insignificante scranno deputatesco, ha definitivamente bollato d"infamia per aver superato se stesso non con le innovazioni recate nell'Italia secolar serva di "preti-banchieri e sgherri" (Berto Ricci: All"Italia), ma con le sole "leggi razziali". Leggi che – sul piano umano e morale – scompaion nei più profondi abissi rispetto alle ruberìe legalizzate che i colleghi della "docente in saccenterìa" varano ogni giorno in danno dei cittadini (il milione d"euro annui ai "presidenti emeriti" per esempio, o lo sballo di 10.000 milioni d"euro sulla tassazione, non restituibili "in alcun modo" ai cittadini che lo subirono, per accennar ad altro "dettaglio" !), ma, ormai, da oltre 60 anni.
Importante è che la "storia" sia resa "storiella per gonzi" e si tenga a bada la patetica frangia di "nostalgici neri", da 62 anni costretti "a destra", come l"omologo testicolo nello scroto. Utile non sempre, ma necessario nelle "elettorali erezioni", in nome della pagliacciata che ormai si chiama "bipolarismo politico", non ultima fase della "libertà recata in dono" che Giuseppe Mazzini (braccato dalla genia dinastica del "mezzo feto") condannò perché inumana ed illiberale.
Come per Garibaldi, dopo il capostipite, in molte famiglie il resto è "buio, nel fondo della notte"