lunedì 24 aprile 2023

Sapore di Fiele

 

Di tutta la storia d'Italia che ho cercato di ricostruire nei quindici precedenti volumi, questo che mi accingo a scrivere insieme a Cervi è di gran lunga il più amaro. Non per la disfatta. Ma per il modo in cui vi si giunse e per quello che produsse nella coscienza - o nell'incoscienza degl'italiani. Vorremmo raccontarlo senza pagar pedaggio a nessuna retorica.
Non c'è dubbio che la guerra portò a galla ed esaltò non le qualità, ma i difetti della nostra gente, primo fra tutti la totale mancanza di virtù militari. Non è questa la sede per ricercarne, nella Storia, le cause. Dovremmo risalire all'editto di Caracalla che esentava gl'italiani dalle armi affidandone la difesa ai « barbari », eppoi alla vittoria del Comune sul Castello e del Papato sull'Impero, che procurò l'aborto del feudalesimo, e con esso quello di una civiltà cavalleresca e militare.
Avevano ragione Machiavelli e Foscolo quando chiamavano gl'italiani alle armi dicendo che senza virtù militari non esistono nemmeno virtù civili. Ma il loro grido giungeva troppo tardi. Naturalmente anche fra gl'italiani ci sono ottimi soldati. Ma la massa è imbelle. E non per mancanza di coraggio, ma per mancanza di un'etica che gli faccia da supporto. Ho conosciuto dei disertori che, arruolatisi nella malavita, vi hanno fatto splendide carriere con la loro audacia e risolutezza.
Sarà sempre un mistero se Mussolini ne fosse conscio. Forse sì. Forse l'insistenza con cui esaltava «le virtù guerriere della stirpe» gli era suggerita dalla speranza che l'esaltazione bastasse a crearle. Qualcuno dice che l'impresa di Etiopia lo illuse di esserci riuscito. Ma è un fatto che in guerra si decise ad entrare solo quando credette che fosse già vinta. Anche se circondato da cortigiani, non poteva ignorare le pessime condizioni in cui versavano, come mezzi, le nostre Forze Armate, eccettuata la Marina, le cui lacune, peraltro gravi, erano le portaerei e il radar. Ma il nostro punto debole non era l'armamento, che i tedeschi potevano fornirci e in parte infatti ci fornirono. Il punto debole era la svogliatezza di un materiale umano che solo nell'entusiasmo - quando c'è e finché dura - trova un compenso alle proprie deficienze militari.
Ci furono, come al solito, bellissimi episodi isolati. Prima in Albania, poi in Russia, gli Alpini della Julia diedero prova di resistenza fisica, abnegazione, stoicismo. Ci furono anche episodi romantici come la carica della cavalleria di Betton a Isbušenskij, e quella dei dubat di Guillet a Cheren. Ci furono episodi veramente eroici come quello di de La Penne ad Alessandria. Ma la condotta di guerra fu nel suo insieme deplorevole: un cumulo di errori dovuti a inefficienza, faciloneria, meschinità e codardia.
E' giusto attribuirne la colpa agli Alti comandi. Ma è comodo attribuirla soltanto a loro. Gli Alti comandi della seconda guerra mondiale furono senza dubbio peggiori di quelli della prima, che
già erano stati meno che mediocri. La « carriera » non ha mai selezionato capacità. Si fondava caso mai sui « meriti », documentati in decorazioni, e soprattutto sull'anzianità. Lo « spirito d'iniziativa » - cioè la prontezza dei riflessi, l'inventiva, la fantasia - veniva esaltato solo nel « Regolamento » e nei pedestri e antiquati manuali di tattica. In realtà quella militare era una burocrazia resa ancora più rigida dall'uniforme, per la quale lo spirito d'iniziativa era sinonimo d'insubordinazione.
Ho conosciuto dei generali che avevano più paura delle responsabilità che del nemico. E Rommel, nei suoi ricordi di Caporetto, racconta di essere rimasto sbalordito dalla incapacità dei comandanti italiani, quando si videro presi da tergo, di adeguarsi alla nuova situazione. È noto che seicento cannoni rimasero puntati verso le alture, anche quando fu chiaro che gli austro-tedeschi attaccavano lungo i fondivalle, perché il comandante non voleva assumersi la responsabilità di cambiarne la postazione. Di questi episodi, nella seconda guerra mondiale, ce ne furono a centinaia.
Tuttavia i generali italiani della prima guerra mondiale, anche se poveri di strategia, di mente ottusa e d'idee antiquate, erano stati almeno selezionati in base al carattere. Cadorna non era di certo un fulmine di guerra; ma un uomo serio, duro e votato al « servizio » con zelo sacerdotale, sì. E altri come lui, nell'esercito del Piave e di Vittorio Veneto, ce ne furono. Nei loro successori del ventennio fascista anche le doti morali scaddero, il carrierismo non ebbe più freno e si giovò anche del clientelismo politico. Sia in Libia che in Albania e in Russia vidi generali impegnati più a difendere il « posto » che le posizioni. Qualcuno di essi seppe anche morir bene. Ma nell'insieme la dirigenza militare fu tale che non fu possibile trovare un sostituto del vecchio Badoglio che, come funzionario di caserma e artigiano di battaglie all'antica, era almeno il più serio ed esperto.
Sarebbe però ingeneroso e deviante far ricadere tutta la responsabilità della disfatta sugli Alti comandi. Essi non furono di certo all'altezza della situazione, ma furono a misura di una truppa, di una cittadinanza, insomma di un Paese che non offriva, né poteva fornire, niente di meglio. La tesi di certi storici di parte secondo i quali l'Italia perse la guerra per il tradimento dei suoi capi
militari, o almeno di alcuni di essi, non è degna nemmeno di essere confutata. Quelli che furono citati come casi di sabotaggio e boicottaggio erano in realtà casi di inefficienza, incompetenza e confusione, come l'invio in Albania di una grossa partita di scarpe tutte per il piede sinistro. La verità è che lo slancio patriottico che nella prima guerra mondiale aveva surrogato le deficienti qualità militari del soldato italiano, nella seconda non ei fu. Questo capitale morale Mussolini se lo era mangiato nella campagna di Abissinia, dove esso aveva toccato la sua acme contagiando tutto il
Paese. Poi l'inflazione ch'egli aveva fatto dei valori e degl'ideali a cui s'ispirava se li era mangiati e corrosi. L'Italia che il 10 Giugno del '40 scese in campo, convinta di restarci solo pochi giorni o poche settimane, era un'Italia non solo materialmente impreparata, ma anche psicologicamente « scaricata », stanca di retorica guerriera, e intimamente convinta che la vittoria sarebbe stata la vittoria dei tedeschi, più pericolosa di una sconfitta.
Fu in questo stato d'animo che le reclute partirono per il fronte, sorrette solo dalla speranza - che dapprincipio era quasi certezza - di starci poco. L'amara constatazione che il conflitto si allungava nel tempo e nello spazio abbatté completamente il loro già vacillante morale. Nelle varie zone di operazione in cui mi trovai a lavorare vidi arrivare soldati che, prima di schierarsi nei loro reparti, avevano già l'aria di prigionieri. Li vidi battersi, alcuni anche bene, ma solo per istinto di conservazione. Più spesso però li vidi sbandare e arrendersi e fuggire. Quasi mai mi capitò di vedere reparti bene impiegati, operanti disciplinatamente secondo piani ragionevoli. Quasi sempre tutto era affidato all'improvvisazione - nella quale ciascuno per conto suo si mostrava come al solito maestro -, al caso, a S. Gennaro, allo stellone. La cosa più grave era che nessuno sembrava sentirsi coinvolto nell'umiliazione delle disfatte che subivamo, anzi tutti o quasi tutti avevano l'aria di compiacersene, come contagiati da un'epidemia di masochismo, da cui nemmeno chi scrive rimase immune.
Ma il peggio del peggio venne al momento della capitolazione, festosamente accolta come una liberazione. Anzi, questa parola liberazione venne assunta come alibi della resa. Gli anglo-americani
che nel luglio del '43 sbarcarono in Sicilia non vi trovarono nessuno a difendere quello che il Duce si ostinava a chiamare « il sacro suolo della Patria » perché non erano già più il nemico, ma i liberatori. A Pantelleria l'unico morto italiano fu un soldato che si prese un calcio da un mulo. Non era nemmeno uno sbandamento. Fu uno sciopero militare. E da quel momento uno strano delirio di
autolesionismo sembrò impossessarsi di tutti, a cominciare dalla Monarchia.
Vittorio Emanuele non era più il Re di Peschiera, che nell'emergenza di Caporetto, quando tutto sembrava crollargli intorno, aveva incusso rispetto anche agli alleati anglo-francesi con la sua calma e risolutezza. Era stato lui, allora, ad assumersi la responsabilità delle più gravi decisioni, come il sacrificio di Cadorna, e il suo esempio era valso molto a rianimare la volontà di resistenza e di rivincita. Alla guerra del fascismo, ch'egli non aveva fatto nulla per evitare, aveva invece assistito come un estraneo. Anche dopo essersi lasciato strappare dal Duce la delega del Comando supremo, avrebbe avuto molti modi e pretesti per far sentire la sua presenza alle truppe combattenti. Alle notizie delle continue sconfitte che subivamo su tutti i fronti, non reagì mai con parole di dolore, o di speranza, o d'incoraggiamento. Fino alla vigilia del 25 Luglio la sua condotta fu guardinga e ambigua. Più sollecito del suo trono che dell'Italia, credette di salvarlo accollando ad altri la responsabilità di seppellire il Regime e di abbandonare l'alleato. Ma l'unica iniziativa che prese facendo arrestare il Duce all'uscita dell'ultima udienza e sulla soglia stessa della villa reale non fu un gesto da Re, come gli rinfacciò sua moglie che, per quanto figlia di un pastore montenegrino, si dimostrò più regina di lui.
Fu l'inizio di una serqua di errori che ci discreditarono agli occhi del mondo intero più di quanto ci discreditasse la disfatta. La scelta di Badoglio fu infelice. Gli approcci con gli alleati, malaccorti al punto da renderci sospetti di doppio giuoco. La fuga di Pescara, ignominiosa. E non è vero che il Re vi fu costretto dal dovere di assicurare la continuità dello Stato e la responsabilità del comando. Stato e comando non esistevano più, e comunque potevano essere affidati al Principe Umberto. Se il Re, proclamato l'armistizio, fosse rimasto al suo posto offrendosi ai tedeschi come capro espiatorio del « tradimento », quasi certamente avrebbe perso la vita, ma quasi certamente salvato la Monarchia e in un certo senso l'immagine dell'Italia.
Ma questa immagine contribuimmo tutti ad offuscarla. Se l'esempio del « Si salvi chi può » venne dall'alto, bisogna dire che tutto il Paese dimostrò la più favorevole disposizione a seguirlo. La segreta speranza di tutti gl'italiani, civili e militari, era di cavarsi fuori da quella tragedia senza pagare dazio né ai tedeschi né agli alleati. Il 25 Luglio un fascista, uno solo ci fu, che scelse, suicidandosi, di morire col Regime: Manlio Morgagni, presidente dell'agenzia di stampa « Stefani »: una carica che, dopo la Liberazione, non gli sarebbe forse costata nemmeno un mese di carcere.
L'8 Settembre non ci fu un solo colonnello che, per non consegnare la caserma ai tedeschi, si sparasse un colpo di rivoltella. Lo sfacelo fu totale.
Altrettanto la mancanza, in noi italiani, di ogni senso di tragedia per questo sfacelo.
L'Italia non aveva mai dato di sé uno spettacolo tanto miserando. Nessun capitolo della sua Storia è più umiliante, vergognoso e, specie per chi ne fu partecipe, più doloroso da rievocare.
Indro Montanelli
L'Italia della Disfatta, pagg. 5-12

lunedì 4 ottobre 2021

La banca centrale - Banca d'Italia - nelle insignificanti salmerie di pensionati rimaste a Roma dopo il 23 settembre 1943

1.2.4.2.3.2 - La banca centrale - Banca d'Italia - nelle insignificanti salmerie di pensionati rimaste a Roma dopo il 23 settembre 1943 

di Antonio Pantano

Non ritenne di muoversi da Roma una esigua insignificante manciata di alcuni vecchi funzionari in pensione della Banca d'Italia, carenti di autorità, tra i quali emerse il vice direttore generale Niccolò Introna, settantaseienne [ Bari, 13 maggio 1868 - Roma, 10 maggio 1955 ], esperto e consumato nel mestiere e nel lungo servizio sempre zelante al regime fascista (secondo la forma e...la sostanza), che temette - nella avanzata anzianità fisica e nelle inveterate incrostate abitudini di vita non più adattabili e modificabili - di non più disporre (oltre vantaggiose minuzie pratiche) del godimento gratuito del prestigioso, assai vasto e sontuoso alloggio (oltre 10 ampi vani includenti due saloni, affreschi agli alti soffitti, dovizia di lussuosi servizi, gallonato guardaportone in livrea, ampio scalone monumentale in marmo) goduto da decenni, di proprietà della Banca d'Italia, sito nella centralissima via Torino, all'angolo con la importante via Cavour e con affaccio su piazza dell'Esquilino, sul retro della monumentale basilica di santa Maria Maggiore. Opzione opportunistica, legata agli enormi altri privilegi (le minuzie pratiche accennate) discendenti dallo alto ruolo burocratico sostenuto per decenni.

Ma, sulla base di deduzioni e dati di fatto successivi, emersi da testimonianze processuali e non solo, si ha ragione di ritenere che in quel vastissimo alloggio (confuso tra edifici altoborghesi ed alberghi prossimi alla centrale stazione Termini e dirimpettaio della extra territoriale basilica vaticana di Santa Maria Maggiore, che rappresentò garanzia di immunità dalle distruzioni per bombardamenti aerei recate dagli Alleati!) e negli ampi scantinati di pertinenza del vasto immobile "qualcosa di importante e di valore" sia stato "riparato e celato". E non solo in quello.

Introna, nella sua lunga esistenza, godette di privilegi e vantaggi determinati e tramandati da incrostate liturgie ed obbedienze massoniche. Privilegi originati, costituiti e consolidati da antichi criteri "di marca liberale" del regime giolittiano, e permanenti ancora oggi - in nome di un criterio gabbato per "democratico" dalla inossidabile oligarchia alto-burocratica - a distanza di 90 anni, riservati ai "particolari servitori di alto rango" degli organi pubblici o para pubblici. Tali particolari "servitori di alto rango" comunemente sono additati ed accreditati nelle supine abitudini degli italiani come "amministratori e dirigenti dello stato" o "managers" (come si ostinano ad usare, dire e scrivere, nn inutile e deviante anglismo servile, i politicanti sciocchi ed i loro emuli che impinguano la stampa e negetano nella burocrazia da parassiti!). Privilegi e vantaggi che, invocando mai rinnegate - e sostenute "copertamente" con scaltrezza - benemerenze massoniche, Introna fece valere con profitto ponendosi - dettami della "scuola liberale" di servilismo opportunista - immediatamente a disposizione delle nuove padrone autorità militari e dei "Governatori Militari" americani da esse insediati, appena invasa e sottomessa Roma dagli Alleati il 5 giugno 1944. E che tali privilegi siano stati goduti dal Niccolò Introna è innegabile, essendo io stato testimone, trenta anni dopo la di lui morte, della disponibilità del vasto prestigioso immobile avuto concesso dalla Banca d'Italia, goduto dagli eredi ancora fino al anno 1985, quando i beni mobili colà rimasti furono finalmente messi in vendita dagli occupanti!

Niccolò Introna - massone fin da giovane per educazione religiosa, in carriera con la quale raggiunse ruoli di rilievo confacenti al servizio bancario - fu influente eminenza militante nella setta religiosa cristiana "protestante-valdese", che, malgrado il Trattato connesso con i Patti Lateranensi del 11 febbraio 1929 tra lo Stato italiano con lo stato Vaticano della Santa Sede, mai subì limitazioni o fu angariata, ma fu favorita da molti "riguardi" persino edificatorii, maggiormente nel centro di Roma.

Introna godé di ruoli di altro grado nel novero massonico dominante; e quelle credenziali divennero poi, dal giugno 1944, condizione assoluta negli ingranaggi della sedicente "nuova politica democratica" imposta dai vincitori Alleati nuovi arrivati. L'alto grado massonico - collegato in subordine anche alle liturgie americane - fu determinante il 29 luglio 1944 per fargli ottenere dai "nuovi padroni occupanti vincitori militari" la nomina fiduciaria a "commissario straordinario della banca d'Italia per i territori occupati assoggettati e sottoposti a controllo Alleato". 


paragrafo estrapolato dal volume di Antonio Pantano, Ezra Pound & Pellegrini, Edizioni della Vita Nova di Giovanni Perez. pagg. 386-387

martedì 1 ottobre 2019

L'eroina di Rimini (Sangue italiano)

Il Radio-giornale del Partito ha trasmesso. Ieri sera, la seguente nota su un leggendario episodio della battaglia di Rimini. dal titolo: «L'eroina riminese».




La prima pattuglia nemica entra in Rimini da Porta Romana. Il lungo viale dei platani che immette nel sobborgo XX Settembre con sullo sfondo le macerie della bramantesca chiesa della Colonnella, taglia col suo rettilineo cumuli di rottami: tutto è diroccato, lo stadio civico, la chiesa dei Cappuccini, la chiesa di San Giovanni, le case, i palazzi, il convento dei Cappuccini, la chiesa di Santo Spirito. Sul quadrivio della via Flaminia, di dove si dipartono la via nazionale di San Marino, la via dei Trai e la via XX Settembre, dondola un semaforo sospeso lassù a mezz’aria non si sa come, tra le rovine di ogni cosa all’intorno. La pattuglia canadese esita incerta sulla direzione da prendere. Il cielo è solcato dal rombo dei velivoli e delle cannonate che vengono dal mare, dalle colline e dalla parte opposta della città; crepitano in distanza le mitragliatrici, l’aria acre velata di fumo e di polvere. All’intorno, in qualsiasi parte volgano lo sguardo, i Canadesi non scorgono se non calcinacci, non una casa in piedi; le macerie si stendono per chilometri; tutta la superficie di quella che era la vivace, elegante e ricca città adriatica è una sola, immensa, caotica distesa di pietre: a malapena si distinguono i tracciati di quelle che furono le vie principali. Mentre la pattuglia sta per imboccare a caso la via XX Settembre, un’ombra si muove dietro un cumulo di rovine: i Canadesi spianano le armi, pronti a sparare. Non è un’ombra, è una donna, una giovane donna. Ella alza le mani e i Canadesi la circondano. Una granata cade sui ruderi dello stadio sollevando un nugolo di rottami. Il terriccio e la polvere entrano nella bocca e negli occhi. Alla deflagrazione la ragazza è rimasta immobile a braccia levate. Un Canadese le rivolge la parola in un gergo a base di francese. La ragazza si sforza di comprendere e alla fine riesce a capire la domanda del soldato. Costui chiede da che parte si vada per raggiungere la via Emilia. L’interpellata, dopo un’impercettibile incertezza indica con la mano la via dei Trai. Il Canadese si consulta coi compagni e torna a guardare la ragazza. Costei gli fa cenno col braccio invitandolo a seguirla. Il gruppo allora s’incammina. La ragazza, una popolana sui 18 anni, bruna, dalle membra forti, e slanciate, lacera e sporca, cammina spedita. La lunga e diritta via dei Trai conduce in piazza Tripoli, al mare, non all’arco di Augusto e alla Via Emilia. La pattuglia, composta di una ventina di uomini, più due soldati tedeschi prigionieri, procede nel tragico scenario della città morta; i Canadesi tengono i fucili spianati, pronti a far fuoco; i due Tedeschi, al centro dei gruppo, mostrano i segni della lotta nei volti e sulle uniformi, ma camminano marzialmente. La popolana li sbircia, di sfuggita: pare ai Tedeschi che quello sguardo abbia un significato. Quale significato? La giovane riminese continua a camminare, gli alberi che fiancheggiano la via sono diverti, tronchi e fronde ingombrano il passaggio, giacciono sulle macerie delle case. La popolana si volge a guardare i due Tedeschi, i quali questa volta sono loro a sorridere. Ancora pochi passi, poi una tremenda esplosione lancia in aria macerie e persone, avvolgendole in una nube di terriccio, di calcinacci, di informi rottami. Una pausa tragica. Un attimo di terrificante silenzio. Poi il gemito dei feriti. Un uomo poi si raddrizza sulle natiche, si netta il sangue dal volto, si leva in piedi. E’ ferito ma salvo. I Canadesi morti in gran parte, sfracellati dallo scoppio. I rimanenti agonizzano. Agonizza anche la popolana, che ha avuto le gambe amputate e il volto ferito dalla formidabile esplosione. L’uomo che fra tutti si è salvato, uno dei soldati tedeschi, si accosta alla moribonda: ella gli sorride con una smorfia e riesce a dire penosamente: «Sapevo che qui esisteva un campo di mine… perché vi aveva lavorato mio fratello… vi ho condotto gli Inglesi perché sono stata violentata da due Australiani… in una casa colonica dove ci eravamo rifugiati… ho seguito questa pattuglia… volevo vendicarmi … non sapevo come … la sorte mi ha favorito … ». L’eroina sta dissanguandosi; il suo volto diventa cadaverico. Il soldato tedesco non può far nulla per lei se non raccoglierne l’ultima parola: «Ho vendicato il mio onore». Il soldato tedesco si china sulla morente e la bacia in fronte. Quando risolleva il capo la giovane eroina è spirata. Questo ci ha raccontato il soldato tedesco dopo aver raggiunto i propri camerati all’altra estremità della città morta. Il soldato, che dopo un anno di soggiorno in Italia si esprime abbastanza bene nella nostra lingua, così ha commentato il suo racconto: «La ragazza non aveva indosso alcuna carta o qualsiasi documento di riconoscimento. Non ho potuto quindi sapere il suo nome». E si è rammaricato, il soldato tedesco, di non averglielo chiesto prima che ella spirasse. Il nome dell’eroina rimarrà sconosciuto forse per sempre, e così la storia di questa guerra ricorderà il leggendario episodio come quello della eroina riminese. Dell’anonima ma fulgida eroina riminese.

Articolo apparso su il "Corriere della sera" del 1, Ottobre, 1944

lunedì 22 luglio 2019

Il SOLDATO POLITICO


𝗗𝗶 𝗳𝗿𝗼𝗻𝘁𝗲 𝗮𝗹 𝗱𝗶𝗹𝗮𝗴𝗮𝗿𝗲 𝗱𝗲𝗹 𝗰𝗶𝗻𝗶𝘀𝗺𝗼, 𝗱𝗲𝗹 𝗱𝗶𝘀𝗶𝗻𝗰𝗮𝗻𝘁𝗼 𝗲 𝗱𝗲𝗹 𝗱𝗶𝘀𝗶𝗺𝗽𝗲𝗴𝗻𝗼, 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼𝗿𝗮𝗻𝗲𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗮𝗹 𝗱𝗲𝗰𝗹𝗶𝗻𝗼 𝗱𝗶 𝗼𝗴𝗻𝗶 𝗽𝗿𝗼𝘀𝗽𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗮 𝗶𝗱𝗲𝗮𝗹𝗲 𝗲 𝘀𝗽𝗶𝗿𝗶𝘁𝘂𝗮𝗹𝗲, 𝗲𝗺𝗲𝗿𝗴𝗲 𝗰𝗼𝗻 𝗳𝗼𝗿𝘇𝗮 𝗹𝗮 𝗳𝗶𝗴𝘂𝗿𝗮 𝗱𝗲𝗹 "𝘀𝗼𝗹𝗱𝗮𝘁𝗼 𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗼", 𝗼𝘃𝘃𝗲𝗿𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝗹𝘂𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗮𝘃𝘃𝗲𝗿𝘁𝗲 𝗹𝗮 𝗻𝗲𝗰𝗲𝘀𝘀𝗶𝘁𝗮̀ 𝗱𝗶 𝗺𝗮𝗻𝘁𝗲𝗻𝗲𝗿𝗲 𝗹𝗮 𝘀𝗰𝗵𝗶𝗲𝗻𝗮 𝗱𝗿𝗶𝘁𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗳𝗿𝗼𝗻𝘁𝗲 𝗮𝗹𝗹'𝗼𝗽𝗽𝗼𝗿𝘁𝘂𝗻𝗶𝘀𝗺𝗼 𝗺𝗮𝘁𝗲𝗿𝗶𝗮𝗹𝗶𝘀𝘁𝗮-𝘂𝘁𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮𝗿𝗶𝘀𝘁𝗮. 𝗖𝗼𝘀𝘁𝘂𝗶 𝗿𝗶𝗺𝗮𝗻𝗲 𝘀𝗮𝗹𝗱𝗼 𝗻𝗲𝗶 𝗽𝗿𝗶𝗻𝗰𝗶𝗽𝗶 𝗶𝗻 𝗰𝘂𝗶 𝗰𝗿𝗲𝗱𝗲, 𝗰𝗼𝗺𝗯𝗮𝘁𝘁𝗲𝗻𝗱𝗼 𝗶𝗻𝗰𝗲𝘀𝘀𝗮𝗻𝘁𝗲𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗽𝗲𝗿 𝗲𝘀𝘀𝗶, 𝗶𝗻𝗱𝗶𝗽𝗲𝗻𝗱𝗲𝗻𝘁𝗲𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗱𝗮𝗹𝗹𝗮 𝗿𝗶𝘂𝘀𝗰𝗶𝘁𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹'𝗶𝗺𝗽𝗿𝗲𝘀𝗮. 𝗜𝗹 𝘀𝘂𝗼 "𝗮𝗴𝗶𝗿𝗲"(𝗼 𝗻𝗼𝗻 𝗮𝗴𝗶𝗿𝗲) 𝘀𝗮𝗿𝗮̀ 𝗽𝗲𝗿𝗰𝗶𝗼̀ 𝗱𝗶𝘀𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗲𝘀𝘀𝗮𝘁𝗼 𝗲𝗱 𝗶𝗺𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗮𝗹𝗲, 𝘀𝘃𝗼𝗹𝘁𝗼 𝗰𝗼𝗻 𝗰𝗼𝘀𝗰𝗶𝗲𝗻𝘇𝗮, 𝗱𝗶𝗹𝗶𝗴𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗲𝗱 𝘂𝗺𝗶𝗹𝘁𝗮̀, 𝗺𝗮𝗶 𝗽𝗲𝗿 𝗿𝗶𝗰𝗲𝘃𝗲𝗿𝗲 𝗲𝗹𝗼𝗴𝗶 𝗲𝗱 𝗲𝗺𝗼𝗹𝘂𝗺𝗲𝗻𝘁𝗶, 𝘀𝗲𝗺𝗽𝗿𝗲 𝗲 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝗮𝗹 𝘀𝗲𝗿𝘃𝗶𝘇𝗶𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗹'𝗜𝗗𝗘𝗔!

venerdì 5 aprile 2019

IL COMUNISMO D'AMORE DI SANT'AMBROGIO


Nel suo libro sulla vigna di Tabot S. Ambrogio ha scritto:
"Quousque extenditis, divites, insanas cupiditates? Numquid soli inhabitabitis super terram? Cur eiicitis consortem naturae? et vindicatis vobis possessionem naturae? In commune omnibus, divitibus atque pauperibus, terra fundata est, cur vobis ius proprium soli, divites, arrogatis? Nescit natura divites, quae omnes pauperes generat" (cap. I,2).

S.Ambrogio -tempera su tela, cm 109 × 75
Questa pericope inizia con una condanna della plutocrazia. La "cupiditas", la cupidigia o desiderio della ricchezza, viene considerata "insana", cioè una "aegritudo animi", sintagma latino che in italiano significa "malattia dell'animo" e che nel linguaggio patristico indica il peccato. Poco più avanti S. Ambrogio condanna la rivendicazione da parte dei ricchi del diritto alla proprietà privata ("cur...vindicatis vobis possessionem naturae?" e "cur vobis ius proprium soli, divites arrogatis?") e avanza il suo progetto di un comunismo agrario per l'Impero Romano (2) fondato sul comandamento dell'amore ("In commune omnibus [...] terra fundata est").

Questa esortazione patristica ci spinge a progettare spazi sempre maggiori di autogestione sociale nella nostra società.
Sant'Ambrogio continua il suo discorso prefigurando una società di uguali senza differenziazioni in ricchi e poveri, cioè oggi diremmo una società senza classi. Poco più avanti S'Ambrogio conclude dicendo che la natura "omnes similes creat", cioé che LA NATURA CREA TUTTI UGUALI (3). Nelle parole di S. Ambrogio troviamo la fonte del motto "liberté, egalité, fraternité" della Rivoluzione Francese...
Troviamo in questo testo anche la prima formulazione del sintagma "ius soli" come fonte di diritto: "cur vobis IUS proprium SOLI, divites arrogatis?". Il concetto di ius soli sarà applicato ai processi migratori poco tempo dopo da S. Agostino, allievo di S. Ambrogio.
Questo é il grande insegnamento del Santo di fronte a cui si inginocchiò l'imperatore Teodosio e che é alla base del Magistero Sociale di Papa Francesco.

Massimo Cogliandro
Note
(1) Il sintagma "comunismo d'amore" riferito ai Padri è di Troelsche. 
(2) La proprietà dei beni d'uso naturalmente è ammessa dalla Dottrina Sociale della Chiesa. S. Ambrogio fa riferimento ai mezzi di produzione della ricchezza sociale con particolare riferimento alla terra.
Oggi la Chiesa consente in certi casi la proprietà privata dei mezzi di produzione nel caso in cui sia orientata in senso sociale (il cosiddetto "privato sociale), altrimenti resta fermo il principio enunciato da S. Ambrogio.
(3) Ho tradotto "similes" con "uguali" dopo lunga riflessione. Sul piano antropologico siamo simili per gli accidenti legati alla nostra condizione attuale, ma sul piano ontologico la nostra "similitudo" va considerata in rapporto all'Ente Supremo increato, mentre propriamente sul piano antropologico la nostra "substantia" nella gerarchia degli enti è uguale. Certamente il "similes" ambrosiano va inteso in questo senso.

lunedì 21 maggio 2018

Ricordare Domenico Longo, quattro anni dopo. Quella querela contro Mario Monti

 


di Antonio Mazzella
La sera del 21 maggio 2014 andava oltre Domenico Longo, editore e direttore del periodico "L'altra voce", militante tradizionalista e sovranista, dirigente e candidato di Forza Nuova come presidente della provincia di Benevento. L'anno scorso l'abbiamo commemorato con un appassionato ricordo di Davide Scarinzi, che indicava i punti di fuoco del suo impegno:

 Ricordo le sue lotte durissime contro banche, usura, signoraggio. Sul suo giornale L' ALTRA VOCE Domenico scriveva del malaffare e del mondo che dal malaffare traeva ogni beneficio e vantaggio.E rischiava Domenico: come sempre rischiano gli Uomini Veri che mai si arrendono.

E a questa linea di intervento era legata sicuramente una delle sue iniziative più clamorose, la denuncia indirizzata contro l'allora presidente del Consiglio Mario Monti: nella querela il premier è accusato per alto tradimento, truffa e abuso di ruolo preminente. La querela del Sig. Domenico Longo è presentata il 2 gennaio 2012 e raccolta dal Procuratore della Repubblica di Benevento. Longo sottolinea che nella denuncia ha segnalato per gli stessi reati anche Corrado Passera, Piero Gnudi, Fabrizio Barca, Piero Giarda, Francesco Profumo, Paola Severino Di Benedetto ed Elsa Fornero. Anche il Sig. Domenico Longo – come anche il Sig. Orazio Fergnani precedentemente – ha invitato tutti i cittadini sensibili a replicare la stessa querela in tutta Italia. Un'iniziativa che ha una sua stringente attualità in questi giorni convulsi. 

venerdì 6 aprile 2018

La sacerdotessa dell'antivita

di Alessandro Meluzzi

 Una foto, ormai diventata virale, mostra un'immagine di una Emma Bonino che, negli anni '70, assai molto meno incartapecorita di ora — con una pompa di bicicletta, in una sorta di tinello, pratica su una povera donna a gambe aperte un aborto con il metodo di aspirazione. A parte I'orrore sanitario e medico della faccenda, credo che questa foto riassuma bene la natura del personaggio.

Una piccolo-borghese proveniente da Bra che sull'onda di Pannella ha costruito sempre un'immagine ingiustificatamente giganteggiante di sé, che l'ha portata qualche anno fa persino ad essere candidata alla presidenza della Repubblica, in un passaggio piuttosto ridicolo della nostra storia nazionale.

Questa tal Emma Bonino di Bra si è riciclata recentemente agli ordini del grande capitalista e globalista Soros come rappresentante italiana della sua Open Society, quella associazione benemerita che fomenta da molti anni in tutto il mondo occidentale rivoluzioni variamente colorate che hanno come esito guerre civili. Come quella, ad esempio, costruita in Ucraina attraverso la presenza di milizie che hanno prodotto una vera e propria secessione civile e militare nel Paese, registrando una quantità impressionante di morti di cui nessuno parla, perché non fanno parte del regime del politically correct e a causa del cattivissimo nazionalismo antiglobalista di Putin. La Bonino litigò duramente, principalmente per questa ragione, con un morente Pannella, che era un uomo di cui si potrebbe criticare molto, ma che aveva sicuramente più coerenza morale di questa donna.

Una signora che, avversaria della vita in quanto propagandista di ogni forma di eutanasia e di aborto, ha pensato che la crisi demografica dell'Europa andasse sostenuta con un forsennato migrazionismo dall'Africa. Ma non un migrazionismo di famiglie, bensì di giovanotti che vengono qui inesorabilmente come criminali, stupratori o schiavi. Insomma, a questa sinistra globalista i migranti piacciono quando sono raccoglitori di pomodori a I euro. Questa falsa coscienza di grandi ideali esibiti e di luridissimi comodi personali pare aver stufato, perché, nonostante la ricchissima campagna che ha popolato aereoporti, città e stazioni, non ha neanche totalizzato il 3%, consentendo comunque alla Bonino di essere eletta per un vergognoso ripescaggio. Insomma dovessimo scegliere un paradigma negativo di una donna che sfrutta persino il proprio cancro come elemento di elemento di propaganda, continuando a portare un buffo cappellino afgano in testa, ci fa rifletter e sull'orrore di un'incpacità critica di distinguere ciò che è bene da ciò che è male. Ideologia antivita, migrazionismo spinto, globalismo finanziario, attacco alla sovranità nazionale, odio per i popoli e tatatofilia sono le cifre di questo personaggio che mostrano come icona di tutto ciò che ci appare come male. Malgrado tutto ciò la Bonino sarà candidata ad un governo di grosse coalizioni in cui la fesseria colpevole e prezzolata dei 5 stelle e i residui di una sinistra morente faranno convergere il loro consenso. Uno scenario orrifico. Speriamo che non si realizzi ma, purtroppo, ci appare probabile.