mercoledì 14 luglio 2010

Insieme per una nuova etica politica (terza parte)



Le deviazioni ideali.
L’asservimento delle coscienze in funzione filo atlantica ed anticomunista.

La materia che sto per trattare è così vasta e intricata che non basterebbero mille pagine per volerla esaminare con puntualità, oggettività ed esaustività. Ad ogni buon conto, farò ricorso a tutte le risorse di sintesi e di buon discernimento che ho a disposizione. Questo restringimento deve esser tenuto ben presente. La ragione di tutto ciò va ricercata non solo nella necessità di una brevità e di una sintesi ma, soprattutto, nell’intenzione di fornire un quadro d’insieme che prescinda dalle inchieste giudiziarie e si soffermi invece sugli aspetti ideali, politici e strategici.

Molti sostengono che con la nascita del M.S.I. sia coincisa un’esigenza d’incanalare e distogliere quegli elementi rivoluzionari che, a causa dell’ultima incarnazione sociale della R.S.I., potevano simpatizzare e confluire nelle file del P.C.I. A riprova di quanto testé affermato, possiamo citare l’adesione di Stanis Ruinas e il gruppo de “il Pensiero nazionale”.


Gli anni ’70
In questi anni si è assistito alla più grande strumentalizzazione delle idee e d’uomini legati all’ambiente “cosidetto” neofascista.
In primis v’è stato da parte dei vertici missini un pressappochismo d’idee che, di volta in volta, assumeva le vesti più diverse secondo le esigenze operative da attuarsi sul campo. Il già citato generico anticomunismo veniva usato sempre più in funzione Atlantica e filoamericana. Quest’ultimo elemento insieme con una paccottiglia nostalgica, fatta di gagliardetti, distintivi e quant’altro, è stato il filo conduttore delle masse giovanili in quei burrascosi anni.

D’altra parte, in questo particolare ambiente, si cominciava a sentire l’esigenza di qualcosa di più vicino agli “immortali ideali”. Il MSI appariva, dopo la vicenda del ’68, troppo moderato, troppo borghese e perbenista.
Nasceva così “Ordine nuovo” che doveva restituire la volontà di combattere alle nuove generazioni.
Ecco uno stralcio di un documento programmatico del giornale di “Ordine Nuovo”:


"Se ci sentiamo legati al fascismo come al movimento politico autoritario e
gerarchico più vicino alle nostre esperienze dirette, più prossimo all'epoca
storica nella quale siamo vissuti, non per questo non potremmo non dire che
egualmente ci sentiamo vicini alla sostanza e ai valori, ai principi e alle idee
fondamentali che informarono l'essenza politica di ogni Stato autoritario o
aristocratico dei tempi andati [...]. Siamo vicini tanto alla Repubblica sociale
italiana che al III Reich, quanto all'lmpero napoleonico o al Sacro romano
impero [...]. Chi viene al nostro fianco avrà un’altra sensazione che è propria
del combattente quando a pie' fermo attende l'istante per balzare dalla trincea
e gettarsi nella mischia per colpire, colpire, colpire".


A questo punto, dalla penna di un esponente di O.N., Salvatore Francia, sul n°144 della rivista “Orion”, troviamo scritto:


“Gli anni 60 e 70 sono stati anni di duro impegno politico e spesso le posizioni assunte hanno risentito di artificiose posizioni imposte dall’ambiente politico esterno più che essere dettate da scelte effettuate liberamente”.
“Del fascismo, e non sarà mai ripetuto sufficientemente, sono state e continuano ad essere date definizioni le più diverse e stralunate, in nessuna delle quali credo di essermi mai identificato….”


Dallo stesso scritto si evince, per pacifica ammissione dell’autore, che:
“ci fu la tendenza a solidarizzare con la presenza europea in Africa, con i francesi dell’OAS, con i portoghesi dell’Angola e del Mozambico, con i bianchi del Sudafrica.”

Sempre per ammissione dell’autore si ignorava che:
“….l’OAS era sostenuta ed addestrata dagli israeliani dell’Irgun e dell’Haganah, avendo Israele tutto l’interesse a che non si realizzasse l’indipendenza di un altro stato arabo….”
• “…che il Sud Africa non era dominato da europei ma dalle multinazionali ebraiche dei diamanti e dell’oro ….”

Già da queste poche righe s’intravede la strumentalità dei propositi asservita ad ideali estranei alla tradizione fascista e nazionalsocialista. Tradizioni a cui ON asseriva d’ispirarsi.

Ed ancora, il soldato politico, Vincenzo Vinciguerra, nel libro “Ergastolo per la libertà - Ed. Arnaud ” scrive:

“Tanto rassicuranti erano l’atmosfera del MSI per i poliziotti e le vecchie
zie, tanto rivoluzionari erano in ON. …Tutto contribuiva a farlo credere: i discorsi, l’atmosfera cospirativa, i colori della bandiera, il motto delle SS:”Il nostro onore si chiama fedeltà”; solo l’aquila che volteggiava sul mondo, raffigurata sulla tessera di “Ordine Nuovo” aveva una somiglianza inquietante con quella americana, ma, a quel tempo, non si notava.”


Purtroppo, questo fu solamente fumo. Fumo che, in un certo senso, annebbio la vista a molti camerati in buona fede. A tutto ciò, chiaramente, bisognava dare una parvenza di “legalità” o, meglio, di base ideologica. Dopo avere inserito il fascismo nel “Solco della Tradizione”, si prefigurò, a tal guisa, una continuità ideale e morale che andava dai Legionari romani ai Cavalieri Templari, dalle Waffen SS alla Legione Straniera, finanche agli odiati “marines” americani. L’identificazione del comunismo quale “nemico comune” – anche se fatta in pieno clima di “guerra fredda” – non era accettabile per chi disponesse di un minimo di fierezza e di coerenza con le ideologie del passato. Questo, tuttavia, permise l’avvicinamento d’alcuni militanti neofascisti a strutture parallele che operavano all’interno dello stato.

Sempre Vinciguerra, scrive a pag. 5 del citato libro:


“La distinzione fra Stato e regime che tanti, o tutti, avevano
acriticamente accettato era una trappola che non aveva funzionato nel mio caso.
…Per me che sentivo quel passato come il mio passato e che mi collocavo
storicamente e idealmente al di qua della “linea Gotica” che segnava la via
divisoria non di due eserciti in guerra ma di due mondi e di due concezioni
antitetiche della vita, la sconfitta militare non aveva sancito la prevalenza
del migliore sul peggiore ma solo quella del numero e dei mezzi. Continuavo
quindi a restare al di qua di quella linea ideale e ad oppormi a tutto quello
che si trovava ad essa contrapposto: democrazie e comunismo, militari e
partigiani”.



Lungi dall’approfondire la materia delineata dal Vinciguerra, si può coerentemente affermare che, in quell’ambito, siano sorti non pochi equivoci.
La seguente parziale digressione potrà servire a chiarire i termini della coerenza di alcuni personaggi della cosiddetta area di “estrema destra”, senza alcun “pathos” ma, con la semplice constatazione “de facto” che anche le dichiarazioni fanno parte di una “strategia” abilmente messa in atto da capi e gregari…

In questo clima nacquero diverse tendenze che non erano proprie al fascismo originario ma, per converso, operavano in sintonia con gli apparati militari deviati e di controspionaggio. Questi apparati, inoltre, operavano in subordinazione alla CIA e ai servizi segreti stranieri.

Lo stesso Rauti, intervistato da “il Borghese” parla anch’oggi di “Teste calde e servizi”, respingendo ogni sua personale responsabilità.
Secondo Vinciguerra, (reo confesso della “Strage di Peteano”) Rauti “non poteva non sapere”. La stessa tesi è condivisa da scrittori, magistrati, giornalisti e da altri neofascisti.

Dello stesso parere è il pentito Enzo Siciliano, militante della cellula di Mestre di ON, capeggiata da Delfo Zorzi;
anzi, costui aggiunge alcuni aneddoti inediti sul conto del “nazista” Rauti. Ecco alcuni stralci raccolti dal settimanale “il Borghese” del 28-12-97.

Siciliano: “…Rauti era il padre-padrone di ON, avendolo fondato nel 1956, una volta uscito dal MSI. Ricordo quando veniva a Mestre, o a Venezia: ci arringava, diceva che bisognava “spegnere la Fiamma del MSI pisciandoci sopra” (oggi il simbolo del suo partito è proprio la fiamma!), ci incitava a rispondere con la violenza agli avversari.

Siciliano: “Rauti fu prosciolto, è vero. Peraltro stava per essere eletto deputato, con relativa immunità: insistendo su di lui, D’Ambrosio rischiava di perdere l’inchiesta. Il che accadde comunque, poco tempo dopo”.

Dopo queste amenità che, peraltro, la dicono lunga sulla coerenza di certi personaggi, passiamo a cose più serie.

Il Borghese: “ …dall’inchiesta su Piazza Fontana emerge una regia occulta di uomini dei servizi segreti italiani e americani. Aveva ragione chi, allora, parlava di “Strage di Stato”?

Siciliano: “Purtroppo si. Resta da capire quale Stato. Se quello italiano, quello americano, o tutti e due insieme…”

Peccato che il Borghese, allora diretto da Mario Tedeschi, era di diverso parere.

Per chiudere con “l’equivoco Rauti” citiamo una sua dichiarazione riportata sul libro “Interrogatorio alle destre”, Ed. Rizzoli, di Michele Brambilla.

“Avevo scelto di combattere per la RSI , sapendo che la guerra era perduta,
per motivi più patriottici che ideologici”.

Da questo si deduce che il “nazista” de “Il Tempo” mai fu fascista e, men che mai, nazionalsocialista!
Rauti non ha mai assunto un radicale presa di posizione contro il liberalcapitalismo e, soprattutto, contro gli Stati Uniti!
Difatti, nel breve periodo della sua segreteria, non fece alcunché per contrastare l’intervento italiano nella guerra del Golfo.

Queste sono solo alcune delle testimonianze più eclatanti. C’è ne sono molte altre. Il compianto Pisanò, che non ha mai dissimulato la sua “fede atlantica”, è stato uno dei primi ad indicare la responsabilità di elementi sovversivi di destra nelle bombe e nella strategia della tensione. Mi fermo qui.
Non è il caso di soffermarsi oltre su queste testimonianze. Come ho scritto prima, qui di esse interessa il valore d’indici di una confusione ideale strumentalmente ordita dai vertici in quegli anni.

La guerra non ortodossa - Il Convegno del Parco dei Principi.
Dal 3 al 5 maggio del 1965 si svolse in Roma il primo convegno di studi politici e militari indetto dall'Istituto Alberto Pollio, per iniziativa di tre giornalisti di destra, Enrico De Boccard e Gianfranco Finaldi e Edgardo Beltrametti. L’organizzazione del convegno fu realizzata con fondi forniti dal SIFAR e dall'Ufficio REI. Il convegno fu presieduto da un magistrato e da due alti ufficiali dell'esercito. Fra i relatori i nomi di Guido Giannettini e Pino Rauti; allo stesso partecipano, tra gli altri, Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino. Al convegno si parlò di "Guerra rivoluzionaria" in altri termini, di una dottrina che circolava da qualche anno negli ambienti militari. Il tema all’ordine del giorno era che una terza guerra mondiale fosse già in atto, non nelle forme tradizionali del conflitto dichiarato, ma condotta "secondo dottrine, tecniche, procedimenti, formule e concetti totalmente inediti... elaborati adottati e sperimentati dai comunisti in termini globali e su scala planetaria" ai cui "principi è ispirata comunque e dovunque la condotta non soltanto degli stati comunisti ma anche dei partiti comunisti che operano nei paesi del mondo libero" e per i quali "la competizione politica è in ultima analisi un fatto bellico avente come obiettivo la sconfitta totale dell'avversario". (Così Finaldi nella sua relazione introduttiva).
In altre parole, la ”guerra non ortodossa” prevede l’impiego dei Mass Media, di slogan “artatamente” suggestivi, in luogo dei fucili o di divisioni corazzate. Bisogna dire, a questo punto, che la struttura Gladio era già stata costituita da circa un decennio. Sembra quindi indubitabile l'esistenza in ambito militare intorno alla metà degli anni 60 di un dispositivo flessibile volto al contrasto di "sovvertimenti interni". Estremamente ragionevole è l'identificazione di tale dispositivo con l’organizzazione Gladio, nell’impraticabilità di dare al riferimento una base diversa. Da ciò l'ulteriore conferma dell'esattezza di un'ipotesi già in precedenza avanzata; e cioè l'impossibilità di ridurre i fini cui la struttura Gladio era stata costituita nello "stay behind" nell'ipotesi d’occupazione del territorio nazionale da parte di un esercito nemico. Ipotesi che veniva riconosciuta dallo stesso Beltrametti come ormai (già nel 1965) estremamente improbabile. A ciò si aggiunga che il convegno, stante la vastità e il grado di partecipazione determina una conferma della incapacità di ridurre le ipotesi di cui la Commissione è chiamata ad occuparsi, a meri momenti di deviazione degli apparati di sicurezza, sul presupposto che l’istituzionale circospezione di tali strutture ne legittimi un’attenta valutazione come monadi isolate. Gli atti del convegno attestano, peraltro, una ben più ampia rete di convergenti interessi, che riguardarono non soltanto le forze armate nella loro complessiva e articolata realtà, ma pure vasti settori del mondo imprenditoriale, politico e culturale. Parteciparono al convegno, tra gli altri, un qualificato esponente del ceto industriale come Vittorio De Biase che svolse un intervento dal titolo significativo: "Necessità di un’azione concreta contro la penetrazione comunista"; politici come Marino Bon Valsassina e Ivan Matteo Lombardo, Giorgio Pisanò, G. Accame, alti ufficiali, e intellettuali: uno spaccato sociale che chiaramente testimonia l’ampia disponibilità ad un impegno operativo comune. Peraltro se nella riflessione degli organizzatori del convegno i risultati già raggiunti (nell'approntare un dispositivo flessibile di risposta alla guerra sovversiva) apparivano eccellenti, diffusissima ed anzi unanime era la valutazione della necessità di un salto qualitativo ulteriore. De Boccard esortava la Commissione ad elaborare un piano per un mutamento radicale dell'intero dispositivo militare italiano al fine di una decisa e chiara risposta controrivoluzionaria. In particolare, degna di singolare attenzione appare la proposta avanzata dal Prof. Pio Filippani Ronconi di opporre "un piano di difesa e contrattacco rispetto alle forze di sovversione" predisponendo uno "schieramento differenziato su tre piani complementari, ma tatticamente impermeabili l'uno rispetto all'altro", utilizzando "le tre categorie di persone sulle quali si può in diversa misura contare".
Da quanto delineato, appare incontrovertibile l’interna commistione tra apparati militari, imprenditori, politici e intellettuali. Tutti volti nel perseguire lo stesso ed identico fine.

La Reazione alla “Guerra rivoluzionaria” di Mosca.

L’attuazione pragmatica delle contromosse “atlantiche” comincia con l’assunto di Rauti:

“Oggi la difficoltà di combattere il comunismo dipende quasi esclusivamente dal fatto che i comunisti non si vedono”.

Si cominciò a delineare la tecnica dell’infiltrazione a sinistra. Si sfruttò, all’uopo, la divergenza allora esistente tra la Cina maoista e l’URSS. Nel 1967 questa teoria si realizzerà concretamente attraverso l’opera di Claudio Orsi, Claudio Mutti e, soprattutto, di Pier Giorgio Freda. Quest’ultimo non si limitò all’azione, ma approntò una sorta di “bibbia” del reazionario. L’opera in quistione prende il titolo de “La Disintegrazione del Sistema”. Nella stessa ottica deve vedersi l’affissione dei manifesti cinesi inneggianti al presidente Mao. Questa azione “infiltrante” - secondo il Vinciguerra - era da attribuirsi al direttore de “il Borghese”, Sen. Mario Tedeschi. Nasce cosi il soldato controrivoluzionario.
Il passo verso il baratro fu breve.

La strategia della tensione – Il depistaggio delle indagini
Questa terribile e deprecabile strategia mirava a “destablizzare per stabilizzare”; vale a dire, destabilizzare l’ordine pubblico (seminando panico ed orrore nelle piazze) al fine di stabilizzare l’ordine politico. In parole povere, s’induceva, subdolamente e obliquamente, la popolazione a rinunciare a parte della propria libertà al fine d’ottenere una maggiore sicurezza. Questa, sicuramente, è una delle pagine più esecrabili della nostra storia recente; in quanto vi era una guerra in atto senza che la popolazione fosse stata avvertita. Si giocò, in questo modo, sulla pelle di innocenti una guerra sporca, indegna di un mondo libero e consapevole delle proprie scelte. Questa bieca e macabra messa in scena, trovò il suo completamento nel depistaggio delle indagini. Da qui, era divenuta una prassi consolidata dopo attentati, stragi ecc. quella di deviare le indagini su altri “siti”, affibbiando, di volta in volta, la responsabilità ad esponenti della sinistra extra parlamentare, scatenando, tramite i mezzi di comunicazione, la furia popolare. Si strumentalizzò ogni attentato al fine del mantenimento dello Status Quo. Non solo. Anche coloro i quali si misero a servizio dello stato, furono “traditi”. E lo furono in grazia della “Ragion di stato”.

I samurai, il bushido e la razza euro-giapponese.
Molto si è scritto sui problemi legati all’appartenere a una data razza e al razzismo in genere. Molto meno si è letto circa il razzismo biologico e quello che a noi più interessa: il razzismo spirituale. Andiamo per ordine.
Qui varrà il caso di citare integralmente il Vinciguerra che a pag. 9 della prefata opera scrive:
“Non era solo tempo di spioni e di poliziotti travestiti da nazisti, ma anche di progetti la cui origine, all’epoca, non riuscivo ad individuare con certezza. Progetti strani e strane idee, come quello della creazione di una razza euro- asiatica o , più specificamente, euro-giapponese, destinata nel tempo a divenire la nuova razza padrona del mondo. I suoi fautori e sostenitori non erano burloni perché alle parole facevano seguire i fatti, magari sposandosi con qualche giapponesina e mettendo al mondo dei figli che assicurassero il diritto di assidersi nella futura élite nata dall’incrocio fra le due razze. Follie? Forse. Rimane incontestabile e documentato il fatto che all’epoca tutte le cosiddette case editrici di destra, e non solo quelle, si affrettarono a riscoprire il Giappone, i giapponesi, i samurai e l’immancabile tradizione esoterica e guerriera dei figli del sol levante. Sfornarono decine di libri che presentavano il Giappone in tutti i suoi aspetti migliori e che però avevano un difetto, il solito: erano rivolti al passato e non al presente. Anche questo era inevitabile perché nel Giappone d’oggi non v’è più posto, da molto tempo, per le tradizioni guerriere e per il bushido, il codice d’onore dei samurai, i quali erano tanto diversi dai giapponesi di oggi come lo è la luce dalle tenebre. “

Appare evidente l’illusione chimerica di una tale grossolanità ideale. urtuttavia, bisogna ricondurre il problema al suo aspetto autentico. Ebbene, anche qui, sarà opportuno rimandare alla lettura di alcuni testi del ”maestro”, Juilius Evola. Il “Barone ghibellino”, già nel 1942, in pieno periodo delle leggi razziali, auspicò la differenza tra il razzismo scientifico, inutile ed anacronistico e quello dello spirito. Quest’ultimo, fra l’altro, scriveva:
“L’indirizzo scientista della propaganda razzista è sbagliato, perché se l’idea della razza da noi deve divenire davvero una forza, essa deve essere intesa in primis et ante omnia in sede etica e politica, spirituale ed eroica…”
Ed anche:
“Ora si sa bene che dal punto di vista scientifico e puramente biologico una razza italiana non esiste…”
“Giacché l’ebreo, da noi, è stato messo al bando non perché le sue labbra e il suo cranio si differenziassero davvero radicalmente da quelli di alcune componenti mediterranidi, presenti anche nel nostro popolo, bensì sulla base delle sue opere, del suo modo d’essere e d’agire, del suo spirito.
Orbene, lungi dal dilungarci in una simile digressione, appare superfluo rimarcare ciò che, avanti ora, è stato lapidariamente scritto. Perciò, è essenzialmente la tesi evoliana che conta.
La civiltà Spartana, quella ariana d’Oriente e l’aristocrazia romana non avevano bisogno di simili sciocchezze per autentificare qualcosa che intimamente e pubblicamente sapevano di possedere.

Fine della terza parte.

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