Proscritti, orfani di una nazione scomparsa. Rompiamo l'accerchiamento psicologico di chi ci vorrebbe nel ghetto, nella fogna delle opinioni irricevibili. Navighiamo a vista nelle rovine elettroniche del nostro tempo per preparare il terreno culturale della riscossa ideale.
giovedì 28 ottobre 2010
Un “fascista” scomodo
sabato 16 ottobre 2010
IL MONDIALISMO
«Il mondo si divide in tre categorie di persone: un piccolissimo
numero che produce gli avvenimenti; un gruppo un poco più numeroso che vigila alla loro esecuzione e ne segue il compimento, e, infine, una stragrande maggioranza che non conosce mai ciò che si è prodotto in realtà»
La manifesta aspirazione a fare dell’ordine di valori di cui si è portatori il centro di gravità di un processo di unificazione mondiale, è stata sempre caratteristica costante di ogni forma tradizionale, di ogni religione e, più ampiamente, di ogni movimento di Idee ispirato ai valori della tradizione. È la ordinatio ad unum, l’universalità - cioè il progetto di integrazione dei popoli nel quadro di un ordine gerarchico a contenuto etico-spirituale, modellato sui valori dell’Essere e culminante nella dimensione metafisica o Unità Principale (chi "sa" mi intende ...). Ciò avviene all’interno di differenziate e organiche forme tradizionali conformi alle vocazioni spirituali e alle conformazioni etiche delle diverse comunità umane.
Il mondialismo, invece, è la "scimmia" dell’universalità; è la contraffazione antitradizionale delle idealità universali che hanno omogeneamente permeato le costruzioni politiche ed hanno ispirato le vicende storiche delle Civiltà tradizionali. L’universalità è un sistema di gerarchie ontologiche che configurano un ordine piramidale ascendente lungo un asse cosmico verticale, mentre il mondialismo, al contrario, è la materializzazione e la decomposizione internazionalistica in senso orizzontale dell’idea-forma universalistica. É la reductio ad unum, un processo dissolutivo discendente, il cui tratto distintivo è il riduzionismo, cioè la degradazione dell’umanità ad una poltiglia indifferenziata, secondo i perversi ritmi scanditi da condizionanti e alienanti dinamiche massificatorie. Punto d’arrivo è la serie degli individui-robot che ripetono demenzialmente uno stesso tipo dalle bestiali caratteristiche di tesaurizzatore, trafficante e consumatore di cose materiali. Questo obiettivo tattico è perseguito dall’oligarchia mondialista in funzione di una strategia di dominio planetario. Religione e politica, nazione e razza, cultura e costume, diventeranno puri nomi carenti di qualsivoglia contenuto; rappresentazioni multicolori da immettere nei mercantili e cosmopoliti circuiti della società mondiale dello spettacolo; allucinazioni collettive che surrogano la realtà, estraendo da ogni organico rapporto di interazione con il mondo interiore dell’uomo, il quale, del resto, dovrà essere ed è sostituito da una scatola vuota riempita, anzi, meglio, ingozzata dai falsi bisogni - ci sono anche idioti che li chiamano aspirazioni (sic!) - indotti dall’alienazione consumistica a fini di conservazione e di potenziamento del sistema capitalistico internazionale. Ridotto il valore ad interesse, l’individuo diventa schiavo della ricchezza e, conseguentemente, di coloro che la creano, la controllano e se ne servono con diabolica perizia.
L’istituzione mondialista è occulta, o, se si preferisce, per dirla con Bordiot, «discreta». È quindi necessario l’uso di una metodologia interpretativa storico-politica e sociologico-giuridica che miri alla individuazione di due oggetti o, meglio, di due aree di indagine situate in dimensioni diverse: quella dell’istituzionalità pubblica e quella dell’istituzionalità occulta. Queste due nozioni sono meri rilievi descrittivi; per quanto riguarda l’aspetto sostanziale, è più appropriato parlare, rispettivamente, di società «strumentalizzate» e di società «strumentalizzanti».
Il complesso istituzionale pubblico è il quadro di riferimento giuridico-costituzionale nel cui ambito si snoda la vita politica ufficiale delle nazioni (governi e parlamenti, partiti e sindacati, dichiarazioni politiche e prese di posizione diplomatiche, ecc).
L’istituzionalità pubblica presenta dei profili e delle dinamiche esterne, apparenti, palesi, a volte addirittura appariscenti, che si articolano in una serie di atti e di fatti, i quali, ripresi, rilanciati e, soprattutto, gonfiati dai mass-media, servono alla fabbricazione delle opinioni che saranno poi propinate come materia di dibattito, nel libero confronto democratico, alle turbe di imbecilli che infestano l’epoca contemporanea.
L’istituzionalità occulta o, per usare un eufemismo, "ufficiosa", è il complesso degli organismi privati (consorterie ebraico-massoniche, Banca, Multinazionale, CFR) privi di qualsiasi rilievo giuridico-costituzionale, mediante i quali l’oligarchia matura le scelte funzionali alla realizzazione dell’obiettivo strategico ultimo: il raggiungimento del potere mondiale.
La corte degli stracci che cela l’esistenza e l’operatività della dimensione istituzionale occulta, è rappresentata dall’istituzionalità pubblica. Essa provvede all’esecuzione di decisioni e progetti adottati dall’oligarchia mondialista in ambienti esclusivi, ristretti, sottratti a qualunque forma di controllo popolare e in regime di assoluta irresponsabilità. Il complesso istituzionale occulto decide felpatamente al riparo da occhi indiscreti; il complesso istituzionale pubblico esegue tra i grandi clamori e le scintillanti coreografie approntati dagli squallidi giullari dell’informazione del Sistema.
La dimensione occulta è il luogo politico, l’ambito di ricezione e lo spazio di aggregazione delle risultanti del processo di "distillazione" e "condensazione" verso l’"alto sociale" dei soggetti, delle tendenze etiche e delle connotazioni psicologiche che caratterizzano in senso mercantile e materialistico la borghesia e il proletariato. Siamo di fronte a categorie economiche che, nel corso dell’esercizio della loro prassi di potere, non possono esimersi dal subire un processo di "decantazione" che proietti ai vertici delle "loro" società - rispettivamente, all’ovest come all’est- l’oligarchia tecno-plutocratica e l’oligarchia tecno-burocratica. Esse - data l’identità del materiale umano da cui sono formate, delle premesse ideologiche illuministiche da cui muovono e dall’azione di collegamento "omogeneizzante" sviluppata dalle componenti tecnocratiche, comune ai due sistemi - sono quindi destinate alla fatale convergenza mondialista.
Dunque da non sottovalutare gli impulsi alla interazione - l’istituzionalità pubblica li definisce «pacifica cooperazione internazionale» - indotti nei due «massimi sistemi» contemporanei dalle tecnocrazie operanti al loro interno, allo scopo di pervenire a una gestione unitaria, su scala mondiale, dei meccanismi di produzione, al di sopra delle distinzioni politiche e al di fuori dei vincoli di sovranità degli stati nazionali.
Ma quali sono le origini storico-culturali del mondialismo? A quali referenti culturali di fondo va ricondotto questo fenomeno sovversivo operante ormai da secoli?
Universo religioso-culturale dell’ebraismo e massoneria - le cui vicende storiche si intrecciano inscindibilmente con quelle dell’ebraismo, il quale, alla fine, ne farà un suo prezioso strumento- sono la cornice teorica nella quale inquadrare il fenomeno mondialista.
In origine la Massoneria è un’organizzazione iniziatico-spirituale, espressione, relativa al piano delle forme storiche, procedente dalla dimensione informale nella quale si situa la Tradizione Primordiale.
Rispetto ad essa, la Massoneria rappresenta una Via di partecipazione basata sull’analogia simbolica esistente tra i gradi ontologici della realizzazione spirituale e l’arte della costruzione degli edifici, cioè la «muratoria». Si tratta della «massoneria operativa», formata da adepti: i massoni, i quali svolgono un’attività materiale inerente alla costruzione di edifici e, forse, di templi e cattedrali le cui linee architettoniche esprimono una simbologia metafisico-tradizionale. Di qui l’intima connessione tra massoneria operativa e corporazioni medioevali.
«La costruzione materiale - scrive Julius Evola [2]- divenne cioè una semplice allegoria per un’opera creativa interna e segreta; il tempio esteriore fu simbolo per quello interno; la pietra grezza da squadrare era la comune individualità umana, da rettificare affinchè fosse qualificata per l’ "opus transformationis", cioè per un superamento della caducità umana e per l’acquisizione di un sapere e di una libertà superiore, i gradi di tale realizzazione corrispondendo a quelli originari della vera gerarchia della "massoneria operativa" e non ancora "speculativa"».
Però, tra i secc. XVII e XVIII, la Massoneria subirà gli effetti di un processo degenerativo che la ridurrà ad organizzazione profana, ispirata a principi laici ed umanitari, che ne faranno la protagonista del secolo dell’illuminismo e la promotrice delle rivoluzioni borghesi dei secoli successivi.
Nell’ambito di questa vicenda che, prima di essere storica, è metastorica, si inserisce la nascita della «massoneria speculativa», cioè della massoneria moderna di Rito Scozzese Antico e Accettato, importante espressione e supporto storico della Sovversione. Essa nasce a Londra il 24 giugno del 1717, giorno della festa di S. Giovanni Battista, patrono dei costruttori delle città. In quel giorno, infatti, quattro logge: "Crown Alehouse", "Apple the Taverne", "Rummer and Grape", e "Goose and Gridirion Alehouse", decidono di unificarsi nella "Grande Loggia" di Londra, dalla quale si irradierà un vasto e rapido movimento di espansione che, nel giro di 10-15 anni, vedrà l’Europa punteggiata di logge massoniche.
La Massoneria speculativa ad indirizzo illuministico ed aconfessionale, diventerà il punto di aggregazione di filoni di pensiero ad orientamento umanitario e cosmopolita sparsi nell’Europa; essa ne farà i coefficienti di organizzazione, secondo i moduli di un abile sincretismo, di una ideologia laico-democratica ed egualitaria, il cui internazionalismo di fondo, negatore delle specificità etnico-culturali dei popoli e delle civiltà, sarà la solida piattaforma su cui poggiare la «Repubblica Universale» ispirata ai valori del deismo razionalista e vagheggiata - tra gli altri- anche dal massone Giuseppe Mazzini.
Nel corso della storia, l’ebraismo si infiltrerà massicciamente nelle logge massoniche, fino a farne sostanzialmente un suo strumento -per altro conforme- di cui servirsi per l’attuazione dell’aspirazione ebraica all’egemonia mondiale.
Nel 1773 [4], a Francoforte di Baviera, l’ebreo Mayer Amschel Rothschild - fondatore della casa bancaria omonima - riunisce nella sua casa d’affari 12 alti esponenti del mondo bancario, finanziario e industriale per presentare loro lo schema di fondo di un piano di dominio mondiale. Rothschild affiderà al consanguineo Adam Weishaupt il compito di fornire un decisivo contributo al raggiungimento di questo obiettivo.
Nel 1776 [5] nasce l’Ordine degli Illuminati di Baviera o "Gesellschaft der Perfectibilisten", associazione di indirizzo gnostico-razionalista alla cui fondazione - oltre a Weishaupt - concorreranno gli ebrei Wessely, Moses Mondelssohn, unitamente ai tre banchieri, parimenti giudei, Itzig, Friedlander e Mayer. Il programma [6] degli Illuminati contiene riferimenti teorici che costituiranno i cardini del pensiero radicaldemocratico successivo, specie marxista, e dell’ideologia che alimenterà "I Protocolli dei Savi Anziani di Sion" e il "Patto Sinarchico". In questo programma si afferma la necessità dell’abolizione della proprietà privata e del diritto ereditario, del capovolgimento dell’ordine politico sociale, della lotta contro le religioni, di rivoluzione permanente internazionale. Inoltre nel punto 20 si descrivono i lineamenti di un Unico Governo Mondiale, la cui direzione politica, nel punto 23, è riservata ad una classe dirigente tecnocratica (finanzieri, industriali, scienziati, economisti).
Nel 1782 [7], al congresso massonico di Wilhelmsbad, l’Ordine degli Illuminati confluirà nella Massoneria che, di li a pochi anni, ricoprirà un ruolo centrale nel sussulto sovversivo del 1789, mentre nei secoli seguenti porterà a termine l’attacco decisivo all’ordine aristocratico europeo. Infatti l’assalto coordinato all’Europa aristocratica sarà messo a punto nel corso del Congresso Massonico Internazionale di Strasburgo tenutosi nel 1847.
L’anno seguente -il 1848 delle barricate tanto care all’oleografia risorgimentale- l’Europa vacillerà sotto i colpi della sovversione giudaico-massonica: da Parigi a Vienna, da Milano a Berlino, da Venezia a Madrid, da Roma a Napoli, le pretestuose parole d’ordine (indipendenza nazionale, costituzione liberale, ecc.) e i metodi insurrezionali -i cui sincronismi spaziali e temporali lasceranno chiaramente intuire un’unica regia- non riusciranno a mascherare il vero obiettivo dell’attacco: lo Stato aristocratico-gerarchico e l’universo politico-ideale che le sorregge.
Il Talmud ha rappresentato il tessuto unificante e l’elemento di coesione che ha garantito all’ebraismo della Diaspora la conservazione della sua profonda identità religiosa, spirituale ed etico-culturale, a dispetto della sua dispersione nel mondo. In esso e nella cultura dell’ebraismo diasporico sono rintracciabili i più solidi riferimenti storici e religioso-culturali del fenomeno mondialista.
Originariamente la forma tradizionale ebraica si riconnette alla tradizione Primordiale, la cui origine metafisica e non-umana opererà un’indubbia azione disciplinatrice e rettificatrice nei confronti delle perverse e dissolventi tendenze presenti nel corpus razziale ebraico. L’ebraismo, comunque, non si sottrarrà ad un processo di decadenza - comune ad altre forme tradizionali e riferibile ad un periodo compreso tra l’VIII e il VI secolo a.C. - che affonda le sue radici nel piano della metastoria, e che propizierà nell’ebraismo un’assunzione profana e materializzata dei princìpi dell’antica tradizione, soprattutto il tema dell’elezione divina del popolo ebraico. «Questo tema che nell’ebraismo antico era stato contenuto, bene o male, entro il quadro organico di una tradizione, subì, col degenerare della tradizione in un tradizionalismo residuale, un processo di materializzazione, dando luogo a un razzismo intransigente e ad un risentimento smisurato nei riguardi dei non ebrei. (...) la fine politica degli ebrei, la loro dispersione, la loro condanna in quanto popolo deicida fecero scattare, come un’idea di rivalsa e una speranza di revanche, la teoria di Israele quale popolo destinato al comando universale. La volontà di dominio mondano, prodotta e giustificata dalla laicizzazione del tema biblico della scelta di Israele quale "popolo di Dio", si legò a un desiderio sfrenato di ricchezza materiale e a una pronunciata propensione per il mercato; e ciò, in parte, è senza dubbio da mettersi in relazione con la materializzazione di un altro motivo tradizionale: quello del Regno». [8]
Il Talmud è la raccolta giurisprudenziale costituita dall’esegesi e dal commento rabbinico del Vecchio Testamento; la codificazione dei rabbini diventerà quindi la depositaria dell’identità cultural-razziale dell’ebraismo. Secondo l’ebreo Graetz, storico del giudaismo, «il Talmud è stato il simbolo che ha tenuto assieme i Giudei dispersi nei vari paesi, custodendo l’unità del Giudaismo». Un altro ebreo, I. Epstein, scrive: «... ed è il Talmud che ha formato le dottrine religiose e morali del giudaismo odierno». Senz’altro interessante la considerazione di alcuni passi del Talmud: «Il Messia darà agli Ebrei il dominio del mondo, al quale serviranno e saranno sottoposti tutti i popoli» [9]. Oppure: «Il Santissimo parlò così agli Israeliti: Voi mi avete riconosciuto come unico dominatore del mondo, e perciò io vi farò gli unici dominatori del mondo». [10] E, ancora: «Tutti i popoli verranno al monte del Signore e al Dio di Giacobbe e saranno soggiogati dagli Israeliti». [11]
L’etica talmudica, nel corso dei secoli, si sedimenterà nell’anima razziale del popolo ebraico, facendone il principale supporto antropologico delle forze dell’Antitradizione e il più efficace propagatore storico dei processi sovversivi che da essa si esprimono. L’idea-forma mercantile, concepita come condizione dell’anima, connotazione psicologica e status interiore, troverà nel giudeo il riflesso storico più omogeneo e conforme. Ben presto, però, essa esprimerà un’ampia tendenza espansiva che la condurrà a valicare i confini delimitati dall’unità etnica -la razza ebraica- postasi in origine quale sua condizione di manifestazione.
Dal punto di vista storico e culturale, questo straripamento etico si renderà palese attraverso «... quella mercantilizzazione dell’esistenza che trovò, almeno in sette secoli di storia europea (effettualmente, data l’europeizzazione del mondo, oggi si può dire, purtroppo, della storia mondiale), nell’anima ebraica la sua matrice più frenetica e virulenta, e nell’ebreo il suo tipico, più incisivo e potente, veicolo d’infezione». [12]
L’affermazione e la diffusione della mentalità giudeo-mercantile -tramite le ideologie individualistiche e materialistiche- anche tra i non ebrei, rappresenterà una decisiva vittoria giudaica. L’ebraismo fornirà un contributo primario alla propagazione delle ideologie cosmopolite, ma, allo stesso tempo, custodirà gelosamente la propria identità razziale, culturale e nazionale, conscio del fatto che ciò gli avrebbe assicurato una fondamentale posizione di preminenza e di vantaggio nei confronti di popoli sradicati e di civiltà dissolte nella massificazione mondialista.
«Facciamo notare che noi Ebrei siamo una nazione singolare, della quale ogni ebreo è suddito incondizionatamente, quali che siano la sua residenza, il suo mestiere e la sua fede». (Luigi Brandeis del Tribunale Supremo degli Stati Uniti). Joseph Morris, rabbino londinese, autore dell’opera "Israele una Nazione", sostiene che «... Israele costituisce una grande nazione (...) Nessuna setta, nè comunità religiosa avrebbe il diritto di portare tal nome (...) Negare la nazionalità ebraica equivarrebbe a negare l’esistenza degli Ebrei». O, ancora, Mosè Hess dall’opera "Roma e Gerusalemme": «Ogni ebreo appartiene alla propria razza e di conseguenza al giudaismo e non ha importanza alcuna che egli stesso e i suoi antenati abbiano rinnegato la propria fede religiosa».
L’internazionalismo finanziario, accompagnato e coperto dagli alibi ideologici e dalle parole d’ordine pacifiste e umanitarie, sarà un corrosivo fermento cosmopolita che aprirà continuamente varchi alla marcia, apparentemente inarrestabile, del progetto relativo al "One World", cioè al livellamento e all’unificazione mondialista degli uomini e dei popoli ridotti a segatura senza identità, senza rango, senza razza, in una parola: senza senso.
«Non esiste - scrive Jean Izoulet [13], professore di filosofia al Collége de France - che un solo problema sulla terra, ed è il problema di Israele. Problema delle due facce, di cui la faccia interna è il laicismo (rapporti tra scienza e fede) e la faccia esterna, l’internazionalismo (rapporti tra patria e umanità). Laicismo e internazionalismo sono le due facce del giudaismo».
Il denaro diventerà strumento di attualizzazione ed elemento di mediazione del rapporto di schiavitù che lega gli individui -ormai sradicati- all’oligarchia giudeo-plutocratica; l’individuo schiavo del denaro è automaticamente schiavo degli usurai che detengono il monopolio dell’emissione della moneta e della distribuzione del credito. «Dallo stato caotico dell’economia il genio ebraico sviluppò il sistema del capitalismo organizzato, grazie allo strumento più efficace: il sistema bancario ...». [14]
L’egemonia ebraica nelle banche e nelle istituzioni finanziarie configurerà i coefficienti di organizzazione di una struttura mercantile internazionale; il pianeta sarà concepito come un immenso mercato che faccia da premessa per la realizzazione di un progetto di unificazione mondiale che, partendo dal piano economico, investirà via via il piano sociale, politico, culturale, religioso.
«Per questa oligarchia il Tempio sarà uno solo, per tutto il mondo cosmico abitato dall’uomo. E si edificherà, nel segreto dei conciliabili bancari, nella Banca del Mondo, centro di emissione dove la cabala degli iniziati trasformerà la carta in oro. Là celebreranno il rito dell’inversione di tutti i valori. Il prodotto che diventa niente; ed il niente di uno straccio di carta che diventa valore, oro. Affinchè il lavoro produca miseria e la miseria intellettuale dei parassiti si trasformi nel controllo di tutte le ricchezze del mondo».
Questi accenni vogliono essere un’introduzione e un contributo alla delineazione dello schema culturale di fondo nel quale si inquadra e dal quale procede la fenomenologia mondialista, che nelle istituzioni e nelle strutture del capitalismo internazionale trova le sue più importanti articolazioni organizzative. La comprensione della cultura del mondialismo è la premessa indispensabile per conferire spessore alla conseguente concreta azione di smascheramento basata sulla puntuale denuncia di nomi, atti e fatti che, altrimenti, se non ricondotti alla logica profonda che li sottende, perderebbero la loro efficacia dimostrativa.
La battaglia culturale del sodalizio-comunità nel quale radichiamo la nostra identità sovraindividuale, potrà essere condivisa o respinta, ma, ciò che è certo e che più conta, ad essa non potrà essere disconosciuta una inoppugnabile qualificazione culturale ed un indubbio rigore scientifico.
Maurizio Lattanzio
1] Giacinto Auriti, "L’ordinamento internazionale del sistema monetario", Marino Solfanelli editore, Chieti 1987;
2] Julius Evola, "Ricognizioni", Ed. Mediterranee, Roma 1974;
3] Claudio Mutti, "Stalin, Trotzsky e l’Alta Finanza", Quaderni del Veltro, Ferrara 1974;
4] Nesta H. Webster, "World revolution, the plot against Civilisation", Britson P. Co. Devon 1971, 6ª ed., p. 32;
5] Olivia Maria O’Grady, "The beasts of the Apocalypse", O’Grady Publications, Benicia USA 1959, p. 118;
6] Williams Guy Carr, "Pawn in the game", St. George Press, Glendale USA 1970, 7ª ed., pp. 26-31;
7] Nesta H. Webster, "Secret Societies and subeversive Mouvements", Britons Publishing Company, 8ª ed., Londra 1964, pp. 233-234;
8] Claudio Mutti, "Ebraicità ed ebraismo - I Protocolli dei Savi Anziani di Sion", Ed. di Ar, Padova 1976;
9] Tal. Bab. Trat. Schalb., fol.120, c.l. e Shanedrin, fol. 88 c.2; fol. 99 c.l.;
10] Chenga, fol. 3, 3;
11] Commento ad Isaia, fol.4 c.2;
12] F. G. Freda, "I Protocolli", op. cit.;
13] Cit. in Yann Moncomble, "La Trilaterale et les secrets du mondialisme", Ed. Faits et documents, Parigi 1980;
14] "L’ebreo americano", 10 settembre 1920;
15] "La rivolta del Popolo", citato in Carlo A. Roncioni, "Il potere occulto", Ed. Sentinella d’Italia, Monfalcone 1974.
giovedì 14 ottobre 2010
il Labirinto del Potere Mondialista
Poche centinaia di uomini controllano , insieme alla gran parte della ricchezza monetaria della terra , i debiti pubblici della maggioranza degli Stati, dai loro finanziamenti dipende dalla stabilità moneataria ed economica. e quindi politica e sociale, di quasi tutti i maggiori paesi: la maggior parte dei governi non possono fare a meno dei loro prestiti e, soprattutto, della loro competenza tecnica in materia monetaria.
Prima di analizzare il complesso fenomeno del Mondialismo, dal suo sviluppo storico alla sua ideologia, bisogna comprendere la distinzione tra DENARO e RICCHEZZA REALE. La Ricchezza reale è costituita dai beni ( cibo, terra, bestiame, case, attrezzi, strutture produttive) e dai servizi (lavoro, prestazioni, attività produttive), mentre il Denaro è soltanto una rappresentazione formale della ricchezza. Il denaro è quindi lo strumento per pretendere e ottenere servizi.
La Storia.Il fattore economico ebbe sempre un'importanza essenziale accanto agli altri fattori fondamentali della Storia. Certo è anche vero che il fattore economico non fu mai tanto determinante nella storia quanto lo è andato diventando negli ultimi cionque secoli. I babilonesi conoscevano le Banche, il mondo grerco-romano coniava le monete, Cesare andava a chiedere prestiti alla colonia ebraica di Roma, ma quelli erano tempi in cui, agli effetti del potere, la spada contava più del denaro. Solo nel Medioevo l'economia diventa un fattore determinante dellla storia.
Possiamo distinguere cinque fasi:
- FASE CAPITALISMO MERCANTILE ( anno 1000- 1800) incentrata sulla figura del mercante avventuriero ( mercanti marinai che tornavano con stive piee di merci pregiate) e poi sui consorzi finanziari privati, come la Compagnia delle Indie.
- FASE CAPITALISMO BANCARIO - COMMERCIALE (1250- 1690) incentrata sulla figura del mercante-banchiere. I grossi mercanti, per evitare spostamenti di moneta contante in rischiosi carichi, incominciarono a sostituire il denaro con lettere di pegno e di credito o ad operare scambi di valuta in patria per scambi di merce che avvenivano all'estero: erano comunque prestiti ad alto rischio ed a basso interesse, giacché l'usura era vietata dal codice canonico e da quello civile: L'usura veniva praticata solo dalle famiglie ebraiche, le quali incominciarono ad accumulare fortune.
- FASE CAPITALISMO BANCARIO (1650-1850) incentrata sulla figura del banchiere. Già da tempo il mercante banchiere si era accorto che commerciare denaro era meno rischioso e più redditizio che commerciare beni. Nacquero le prime forme di credito e di investimento. Non si trattava più di pratiche di "banco"; alcune famiglie che il commercio e l'usura avevano discretamente arricchito, iniziarono solamente a speculare sul denaro in sé. Intanto dopo la Riforma i paesi nei quali il calvinismo era diventato imperante, prima si fecero tolleranti ed infine accettarono l'usura. Fondate da famiglie calviniste ed ebraiche, nacquero le prime banche di tipo moderno ad Amsterdam.
- FASE CAPITALISMO INDUSTRIALE (1770--1890) incentrata sulla figura del capitano d'industria. A seguito delle prime invenzioni tecniche, grossi artigiani cominciarono ad impiegare più vaste attrezzature e apassare l'esecuzione dei lavori a manodopera salariata. Nascono due nuove classi: i padroni e i lavoratori.
- FASE di CAPITALISMO FINANZIARIO (1850 ad oggi) incentrata sulla figura del banchiere internazionale. Dalla metà del secolo scorso l'intero mondo finanziario venne gradatamente omogeneizzato in un sistema di integrazione a livello mondiale. A seguito di fusioni, acquisti di azioni, condizionamenti di ogni tipo e spessissimo attraverso matrimoni dinastici, poche banche acquisirono il controllo di un gran numero di medie e piccole banche, società finanziarie e compagnie di assicurazioni. Oltre il controllo del grande credito e della circolazione monetaria mondiale, i grandi finanzieri iniziarono a controllare la grande produzione. I grandi capitalisti industriali reagirono con la creazione di grosse strutture monopolistiche (trusts), ma la pressione congiunta della grande finanza e dell'opinione pubblica sconfisse alla fine il capitalismo monopolistico industriale. Sempre più organizzata e monopolistica si fece invece l'alta finanza nelle cui spire finirono risucchiati i priù grandi complessi economici americani e poi quelli europei. La sola resistenza fu politica. Mentre in Russia trionfava il comunismo ( finanziato dall'altissima finanza), in Germania ed in Italia regimi fortemente statalisti e di orientamento solidaristico-popolari, suoperavano l'esperienza liberista e realizzavano, col diretto intervento dello Stato in econiomia, il controllo sul mondo finanziario, con programmi protezionistici ed autarchici. lasciando così fuori dai propri confini la speculazione finanziaria dell'altissima finanza.era lo scontro fra i grossi speculatori internazionali ed interi popoli che porterà l'Europa ed il mondo alla seconda guerra mondiale... Di contro nei paesi ancora democratici ( siamo nel periodo 1925-1940) l'altissima finanza vince tranquillamente. Il processo di omologazione ebbem all'inizio, come epicentro la City di Londra, dove da tempo alcune famiglie avevano posto i presupposti economici, ideologici e storici epr questa operazione. Da generazioni, capitali ed uopmini d'affari trovavano accoglienza nella City londinese. Anglicani, calvinisti, svizzeri ed ebrei muovevano i trraffici internazionali. Erano, e sono, famiglie ricchissime e comandano l'alta finanza da tempo.
In secondo luogo, hanno per forma l'anonimato, o, quando questo non è possibile, la più soffice ed impenetrabile discrezione. Alla discrezione si sposava sempre la più fitta segretezza negli affari: nessuna offerta di azioni, poca pubblicità, scarse notizie nei bilanci. Dopo l'introduzione nelle legislazioni moderne della tassa di successione e dell'imposta scalare sui redditi personali, il patrimonio familiare e la ditta vengono sudivisi e celati dietro una miriade di sigle societarie che cambiano spesso ragione sociale, ma che sono tenute strettamente in mano dalle stesse famiglie. Infine, per evitare ulteriori tassazioni, esse disperdono il patrimonio in "Fondazioni", apparentemente enti a fini filantropici o culturali", normalmente indipendenti ma strettamente collegati alle stesse famiglie bancarie.
giovedì 12 agosto 2010
L’esperimento socialista di San Leucio
San Leucio è il primo esempio di repubblica socialista della storia contemporanea. E’ curioso che esso risalga a un despota illuminato, quando un altro despota illuminato, il re del Portogallo Giuseppe I, asservito all’Inghilterra, aveva stroncato nelle colonie brasiliane le prime repubbliche socialiste della storia, le Encomiendas progettate, fondate e dirette dai Gesuiti.
San Leucio era in origine una residenza di caccia di Ferdinando IV di Borbone. Dopo la morte prematura del figlio principe ereditario Carlo Tito, avvenuta alla fine del 1778, non volendo più recarsi nell’amena località legata alla memoria del caro estinto, il re decise di destinarla ad altro più utile uso. Lasciamo a lui la parola: “Essendo giunti gli abitanti del luogo, con le famiglie aggregatesi, al numero di 134 (…), temendo che tanti fanciulli e fanciulle, che andavano sempre aumentando, per mancanza di educazione divenissero un giorno e formassero una piccola comunità di scostumati e malviventi, pensai di stabilire una Casa di educazione per i figli dell’uno e dell’altro sesso, servendomi, per collocarveli, del mio casino (…). Col tempo, poi, rivolsi altrove le mie mira, e pensai di rendere quella Popolazione utile allo Stato, alle famiglie e a ogni individuo, introducendo una manifattura di sete grezze e lavorate di diverse specie fin qui poco e malamente conosciute, procurando di ridurla alla miglior perfezione possibile”.
La colonia si chiamerà poi Ferdinandopoli e si trovava nei pressi di Caserta, dove oggi spadroneggiano i camorristi di Casal di Principe. Il suo Statuto, basato sul principio dell’eguaglianza dei cittadini, fu stilato personalmente dal re. Esso anticipava, sia pure nell’ottica del dispotismo illuminato, gli stessi concetti della Comune di Parigi del 1870, che notoriamente fu stroncata, non a caso nel sangue, dal massone Thiers e dal suo boia generale Gallifet.
La fabbrica tessile possedeva 82 ettari di terreno per i bisogni alimentari degli operai, che abitavano in case a schiera progettate dall’architetto Collecini. La vita che vi si conduceva era dura ma libera da vincoli padronali.
L’abbigliamento era semplice, pratico e uguale per tutti. La sveglia suonava prestissimo, si assisteva alla messa e subito dopo ci si recava sul posto di lavoro. Vi era un’interruzione a mezzogiorno per il pranzo. Si riprendeva a lavorare alle 13,30 e si smontava al tramonto.
L’istruzione era obbligatoria e l’educazione orientata a formare la coscienza civile. Il matrimonio era disciplinato al fine di preservare la comunità da pericolose influenze esterne. Se una ragazza voleva sposare un forestiero, riceveva una dote di cinquanta ducati e se ne doveva andare. Se accadeva il contrario, la sposa forestiera doveva seguire un corso di tessitura e poi entrava a pieno titolo nella comunità. I testamenti erano aboliti e l’eredità del defunto era divisa fra i figli e il coniuge superstite. Ove questi non vi fossero, l’eredità era incamerata dal Monte degli Orfani.
Esisteva una Cassa di Carità che prestava denaro senza interesse a chi ne avesse bisogno e che provvedeva a erogare le pensioni. Era alimentata dai cittadini mediante un prelievo mensile sulla busta paga corrispondente a 85 centesimi di lira aurea.
Erano proibite le liti fra cittadini e i contrasti di poco conto venivano risolti dagli anziani e dal parroco.
Esisteva un carcere con un sovrintendente. Si racconta che una volta vi finì un leuciano. Il sovrintendente gli fece portare in cella il telaio perché “non oziasse” e continuasse a provvedere al sostentamento della famiglia. Doveva produrre tre paia di calze alla settimana. Tratto da:http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=3663
domenica 8 agosto 2010
Aristocrazia
Eugenio Scalfari su
Roma Fascista, 16/7/1942
venerdì 23 luglio 2010
Uno Stato senza corporazioni
giovedì 15 luglio 2010
Insieme per una nuova etica politica (quarta parte)
Dalla “fogna” all’ingresso nella politica che conta.
Il crollo del muro di Berlino. Il disgelo. Il Governo Craxi e la mano morta del Berlusca.
Con l’abbattimento del “muro” non si sono aperte solamente le frontiere, non si è unicamente dato il via alla riunificazione della Germania, ma si accordato il “placet” all’occidentalizzazione dell’ex mondo del cosiddetto “socialismo reale”.
La marginalizazione del Msi finisce, almeno in parte e, per la prima volta, con l’ascesa a Palazzo Chigi di Bettino Craxi. In questo breve periodo, difatti, la destra esce dalla “fogna”; viene altresì ammessa a consultazioni formali, invitata a tavole rotonde e, soprattutto, quando invitata dai mass media, viene meno il solito clichè retorico e demonizzante.
In verità, v’è stato già nel 1977 un tentativo di legittimazione democratica dell’MSI, attraverso la scissione concretizzatasi nella creazione fallimentare di Democrazia Nazionale. In quell’occasione, i vertici del partito stigmatizzarono con parole di fuoco l’atteggiamento dei “Traditori Badogliani”: Servello, Tremaglia e Pisanò.
Almirante, primo fra tutti, accusa i suoi “compari” di fare “sporchi giochi”.
Ecco qui sotto uno stralcio dell’editoriale “Aria Pulita”.
"Se è vero, come è vero, che il partito che ho l’onore di dirigere è una
“casa di vetro” nella quale tutti possono guardare, non sorprenderà nessuno la
risoluzione presa nei confronti degli “ultimi seguaci di Badoglio” dei resti di
quella “Democrazia nazionale” sepolti nel ridicolo elettorale".
“Su Servello,…principale responsabile di questa losca manovra, avevamo sospetti fin dal 1945. Uomo degli americani, agente della CIA, erano trent’anni che lo
tenevamo d’occhio. Abbiamo permesso che salisse alle cariche più alte del
Partito di cui ho l’onore di essere segretario, per meglio sorvegliarlo, per
poter toccare con mano la sua indegnità fisica e morale….”
Non scenderò nei particolari, ma è superfluo rimarcare la soverchiante retorica di cui è pregno l’intero articolo. Inoltre, è palese l’utilizzo di un non velato sofisma con cui si giustifica l’ascesa al vertice di un dirigente. Del resto, l’apparentamento con la CIA o con i servizi segreti non era appannaggio esclusivo di Servello. Ma tant’è. Pisanò - per esempio - non ha mai dissimulato la sua fede “atlantica” e la sua simpatia per la “Benemerita”.
Inoltre, secondo alcune indiscrezioni apparse sul n°1 de “Lo Stato” di Marcello Veneziani, a firma del logorroico Roberto Gervaso, scopriamo che il “Cavaliere” con la macchia ma senza vergogna, non solo avrebbe “sdoganato” il “neofascista” Gianfranco, portandolo con se al governo insieme a quel simpaticone dell’ “Umba” ma, nella sua lungimiranza e preveggenza, avrebbe tentato - già vent’anni prima dello scontro con l’Alberto Sordi della Politica italiana, Frangiasco - di favorire lo spostamento al centro dell’MSI, finanziando la scissione che poi si concretizzo con la creazione di “Democrazia Nazionale”.
Secondo Massimo Anderson, all’epoca presidente del FdG, oltre ai finanziamenti sottratti all’ MSI, vi furono altre cospicue somme garantite da un personaggio del mondo economico che aveva già le idee ben chiare di come avrebbe dovuto “evolversi” la Destra Nazionale.
Questo nome, sempre tenuto segreto per molti anni, è uscito dal “Cappello del mago” della Commissione Stragi, quando Andreotti, a proposito dei fondi dati dallo Scudocrociato a D.N. fu sconfessato da una lettera dell’On. Delfino che scopriva la losca trama. Tale missiva non fu mai smentita né da Andreotti né tantomeno dal ns. “caro” Cavaliere.
Rauti, dal canto suo, non è da meno. Quest’ultimo risultava da tempo sul libro paga della Cia, al pari di Guido Giannettini, mediocre giornalista e pessimo agente del Sid. I due scrissero a quattro mani anche un interessante testo (oggi introvabile) sulla guerra controrivoluzionaria: “Le mani rosse sulle forze armate”. Quando si tratta di creare panegirici o, in questo caso, scrivere libercoli ad uso e consumo dei camerati in buona fede tutti fanno la loro parte.
Vengo al punto. Nel 1983 sulla scia della legittimazione avanzante, il segretario del PSI, Bettino Craxi, nel corso delle consultazioni per la formazione del suo governo, dichiara che il suo partito è aperto al dialogo con il Movimento Sociale Italiano.
Questo è il segnale per l’inizio dell’ascesa a Montecitorio.
Insieme per una nuova etica politica
Dalla “fogna” all’ingresso nella politica che conta.
Il crollo del muro di Berlino. Il disgelo. Il Governo Craxi e la mano morta del Berlusca.
Con l’abbattimento del “muro” non si sono aperte solamente le frontiere, non si è unicamente dato il via alla riunificazione della Germania, ma si accordato il “placet” all’occidentalizzazione dell’ex mondo del cosiddetto “socialismo reale”.
La marginalizazione del Msi finisce, almeno in parte e, per la prima volta, con l’ascesa a Palazzo Chigi di Bettino Craxi. In questo breve periodo, difatti, la destra esce dalla “fogna”; viene altresì ammessa a consultazioni formali, invitata a tavole rotonde e, soprattutto, quando invitata dai mass media, viene meno il solito clichè retorico e demonizzante.
In verità, v’è stato già nel 1977 un tentativo di legittimazione democratica dell’MSI, attraverso la scissione concretizzatasi nella creazione fallimentare di Democrazia Nazionale. In quell’occasione, i vertici del partito stigmatizzarono con parole di fuoco l’atteggiamento dei “Traditori Badogliani”: Servello, Tremaglia e Pisanò.
Almirante, primo fra tutti, accusa i suoi “compari” di fare “sporchi giochi”.
Ecco qui sotto uno stralcio dell’editoriale “Aria Pulita”.
Se è vero, come è vero, che il partito che ho l’onore di dirigere è una “casa di vetro” nella quale tutti possono guardare, non sorprenderà nessuno la risoluzione presa nei confronti degli “ultimi seguaci di Badoglio” dei resti di quella “Democrazia nazionale” sepolti nel ridicolo elettorale.
“Su Servello,…principale responsabile di questa losca manovra, avevamo sospetti fin dal 1945. Uomo degli americani, agente della CIA, erano trent’anni che lo tenevamo d’occhio. Abbiamo permesso che salisse alle cariche più alte del Partito di cui ho l’onore di essere segretario, per meglio sorvegliarlo, per poter toccare con mano la sua indegnità fisica e morale….”
Non scenderò nei particolari, ma è superfluo rimarcare la soverchiante retorica di cui è pregno l’intero articolo. Inoltre, è palese l’utilizzo di un non velato sofisma con cui si giustifica l’ascesa al vertice di un dirigente. Del resto, l’apparentamento con la CIA o con i servizi segreti non era appannaggio esclusivo di Servello. Ma tant’è. Pisanò - per esempio - non ha mai dissimulato la sua fede “atlantica” e la sua simpatia per la “Benemerita”.
Inoltre, secondo alcune indiscrezioni apparse sul n°1 de “Lo Stato” di Marcello Veneziani, a firma del logorroico Roberto Gervaso, scopriamo che il “Cavaliere” con la macchia ma senza vergogna, non solo avrebbe “sdoganato” il “neofascista” Gianfranco, portandolo con se al governo insieme a quel simpaticone dell’ “Umba” ma, nella sua lungimiranza e preveggenza, avrebbe tentato - già vent’anni prima dello scontro con l’Alberto Sordi della Politica italiana, Frangiasco - di favorire lo spostamento al centro dell’MSI, finanziando la scissione che poi si concretizzo con la creazione di “Democrazia Nazionale”.
Secondo Massimo Anderson, all’epoca presidente del FdG, oltre ai finanziamenti sottratti all’ MSI, vi furono altre cospicue somme garantite da un personaggio del mondo economico che aveva già le idee ben chiare di come avrebbe dovuto “evolversi” la Destra Nazionale.
Questo nome, sempre tenuto segreto per molti anni, è uscito dal “Cappello del mago” della Commissione Stragi, quando Andreotti, a proposito dei fondi dati dallo Scudocrociato a D.N. fu sconfessato da una lettera dell’On. Delfino che scopriva la losca trama. Tale missiva non fu mai smentita né da Andreotti né tantomeno dal ns. “caro” Cavaliere.
Rauti, dal canto suo, non è da meno. Quest’ultimo risultava da tempo sul libro paga della Cia, al pari di Guido Giannettini, mediocre giornalista e pessimo agente del Sid. I due scrissero a quattro mani anche un interessante testo (oggi introvabile) sulla guerra controrivoluzionaria: “Le mani rosse sulle forze armate”. Quando si tratta di creare panegirici o, in questo caso, scrivere libercoli ad uso e consumo dei camerati in buona fede tutti fanno la loro parte.
Vengo al punto. Nel 1983 sulla scia della legittimazione avanzante, il segretario del PSI, Bettino Craxi, nel corso delle consultazioni per la formazione del suo governo, dichiara che il suo partito è aperto al dialogo con il Movimento Sociale Italiano.
Questo è il segnale per l’inizio dell’ascesa a Montecitorio.
mercoledì 14 luglio 2010
Insieme per una nuova etica politica (terza parte)
Le deviazioni ideali.
L’asservimento delle coscienze in funzione filo atlantica ed anticomunista.
La materia che sto per trattare è così vasta e intricata che non basterebbero mille pagine per volerla esaminare con puntualità, oggettività ed esaustività. Ad ogni buon conto, farò ricorso a tutte le risorse di sintesi e di buon discernimento che ho a disposizione. Questo restringimento deve esser tenuto ben presente. La ragione di tutto ciò va ricercata non solo nella necessità di una brevità e di una sintesi ma, soprattutto, nell’intenzione di fornire un quadro d’insieme che prescinda dalle inchieste giudiziarie e si soffermi invece sugli aspetti ideali, politici e strategici.
Molti sostengono che con la nascita del M.S.I. sia coincisa un’esigenza d’incanalare e distogliere quegli elementi rivoluzionari che, a causa dell’ultima incarnazione sociale della R.S.I., potevano simpatizzare e confluire nelle file del P.C.I. A riprova di quanto testé affermato, possiamo citare l’adesione di Stanis Ruinas e il gruppo de “il Pensiero nazionale”.
Gli anni ’70
In questi anni si è assistito alla più grande strumentalizzazione delle idee e d’uomini legati all’ambiente “cosidetto” neofascista.
In primis v’è stato da parte dei vertici missini un pressappochismo d’idee che, di volta in volta, assumeva le vesti più diverse secondo le esigenze operative da attuarsi sul campo. Il già citato generico anticomunismo veniva usato sempre più in funzione Atlantica e filoamericana. Quest’ultimo elemento insieme con una paccottiglia nostalgica, fatta di gagliardetti, distintivi e quant’altro, è stato il filo conduttore delle masse giovanili in quei burrascosi anni.
D’altra parte, in questo particolare ambiente, si cominciava a sentire l’esigenza di qualcosa di più vicino agli “immortali ideali”. Il MSI appariva, dopo la vicenda del ’68, troppo moderato, troppo borghese e perbenista.
Nasceva così “Ordine nuovo” che doveva restituire la volontà di combattere alle nuove generazioni.
Ecco uno stralcio di un documento programmatico del giornale di “Ordine Nuovo”:
A questo punto, dalla penna di un esponente di O.N., Salvatore Francia, sul n°144 della rivista “Orion”, troviamo scritto:"Se ci sentiamo legati al fascismo come al movimento politico autoritario e
gerarchico più vicino alle nostre esperienze dirette, più prossimo all'epoca
storica nella quale siamo vissuti, non per questo non potremmo non dire che
egualmente ci sentiamo vicini alla sostanza e ai valori, ai principi e alle idee
fondamentali che informarono l'essenza politica di ogni Stato autoritario o
aristocratico dei tempi andati [...]. Siamo vicini tanto alla Repubblica sociale
italiana che al III Reich, quanto all'lmpero napoleonico o al Sacro romano
impero [...]. Chi viene al nostro fianco avrà un’altra sensazione che è propria
del combattente quando a pie' fermo attende l'istante per balzare dalla trincea
e gettarsi nella mischia per colpire, colpire, colpire".
“Gli anni 60 e 70 sono stati anni di duro impegno politico e spesso le posizioni assunte hanno risentito di artificiose posizioni imposte dall’ambiente politico esterno più che essere dettate da scelte effettuate liberamente”.
“Del fascismo, e non sarà mai ripetuto sufficientemente, sono state e continuano ad essere date definizioni le più diverse e stralunate, in nessuna delle quali credo di essermi mai identificato….”
Dallo stesso scritto si evince, per pacifica ammissione dell’autore, che:
• “ci fu la tendenza a solidarizzare con la presenza europea in Africa, con i francesi dell’OAS, con i portoghesi dell’Angola e del Mozambico, con i bianchi del Sudafrica.”
Sempre per ammissione dell’autore si ignorava che:
• “….l’OAS era sostenuta ed addestrata dagli israeliani dell’Irgun e dell’Haganah, avendo Israele tutto l’interesse a che non si realizzasse l’indipendenza di un altro stato arabo….”
• “…che il Sud Africa non era dominato da europei ma dalle multinazionali ebraiche dei diamanti e dell’oro ….”
Già da queste poche righe s’intravede la strumentalità dei propositi asservita ad ideali estranei alla tradizione fascista e nazionalsocialista. Tradizioni a cui ON asseriva d’ispirarsi.
Ed ancora, il soldato politico, Vincenzo Vinciguerra, nel libro “Ergastolo per la libertà - Ed. Arnaud ” scrive:
“Tanto rassicuranti erano l’atmosfera del MSI per i poliziotti e le vecchie
zie, tanto rivoluzionari erano in ON. …Tutto contribuiva a farlo credere: i discorsi, l’atmosfera cospirativa, i colori della bandiera, il motto delle SS:”Il nostro onore si chiama fedeltà”; solo l’aquila che volteggiava sul mondo, raffigurata sulla tessera di “Ordine Nuovo” aveva una somiglianza inquietante con quella americana, ma, a quel tempo, non si notava.”
Purtroppo, questo fu solamente fumo. Fumo che, in un certo senso, annebbio la vista a molti camerati in buona fede. A tutto ciò, chiaramente, bisognava dare una parvenza di “legalità” o, meglio, di base ideologica. Dopo avere inserito il fascismo nel “Solco della Tradizione”, si prefigurò, a tal guisa, una continuità ideale e morale che andava dai Legionari romani ai Cavalieri Templari, dalle Waffen SS alla Legione Straniera, finanche agli odiati “marines” americani. L’identificazione del comunismo quale “nemico comune” – anche se fatta in pieno clima di “guerra fredda” – non era accettabile per chi disponesse di un minimo di fierezza e di coerenza con le ideologie del passato. Questo, tuttavia, permise l’avvicinamento d’alcuni militanti neofascisti a strutture parallele che operavano all’interno dello stato.
Sempre Vinciguerra, scrive a pag. 5 del citato libro:
“La distinzione fra Stato e regime che tanti, o tutti, avevano
acriticamente accettato era una trappola che non aveva funzionato nel mio caso.
…Per me che sentivo quel passato come il mio passato e che mi collocavo
storicamente e idealmente al di qua della “linea Gotica” che segnava la via
divisoria non di due eserciti in guerra ma di due mondi e di due concezioni
antitetiche della vita, la sconfitta militare non aveva sancito la prevalenza
del migliore sul peggiore ma solo quella del numero e dei mezzi. Continuavo
quindi a restare al di qua di quella linea ideale e ad oppormi a tutto quello
che si trovava ad essa contrapposto: democrazie e comunismo, militari e
partigiani”.
Lungi dall’approfondire la materia delineata dal Vinciguerra, si può coerentemente affermare che, in quell’ambito, siano sorti non pochi equivoci.
La seguente parziale digressione potrà servire a chiarire i termini della coerenza di alcuni personaggi della cosiddetta area di “estrema destra”, senza alcun “pathos” ma, con la semplice constatazione “de facto” che anche le dichiarazioni fanno parte di una “strategia” abilmente messa in atto da capi e gregari…
In questo clima nacquero diverse tendenze che non erano proprie al fascismo originario ma, per converso, operavano in sintonia con gli apparati militari deviati e di controspionaggio. Questi apparati, inoltre, operavano in subordinazione alla CIA e ai servizi segreti stranieri.
Lo stesso Rauti, intervistato da “il Borghese” parla anch’oggi di “Teste calde e servizi”, respingendo ogni sua personale responsabilità.
Secondo Vinciguerra, (reo confesso della “Strage di Peteano”) Rauti “non poteva non sapere”. La stessa tesi è condivisa da scrittori, magistrati, giornalisti e da altri neofascisti.
Dello stesso parere è il pentito Enzo Siciliano, militante della cellula di Mestre di ON, capeggiata da Delfo Zorzi;
anzi, costui aggiunge alcuni aneddoti inediti sul conto del “nazista” Rauti. Ecco alcuni stralci raccolti dal settimanale “il Borghese” del 28-12-97.
Siciliano: “…Rauti era il padre-padrone di ON, avendolo fondato nel 1956, una volta uscito dal MSI. Ricordo quando veniva a Mestre, o a Venezia: ci arringava, diceva che bisognava “spegnere la Fiamma del MSI pisciandoci sopra” (oggi il simbolo del suo partito è proprio la fiamma!), ci incitava a rispondere con la violenza agli avversari.
Siciliano: “Rauti fu prosciolto, è vero. Peraltro stava per essere eletto deputato, con relativa immunità: insistendo su di lui, D’Ambrosio rischiava di perdere l’inchiesta. Il che accadde comunque, poco tempo dopo”.
Dopo queste amenità che, peraltro, la dicono lunga sulla coerenza di certi personaggi, passiamo a cose più serie.
Il Borghese: “ …dall’inchiesta su Piazza Fontana emerge una regia occulta di uomini dei servizi segreti italiani e americani. Aveva ragione chi, allora, parlava di “Strage di Stato”?
Siciliano: “Purtroppo si. Resta da capire quale Stato. Se quello italiano, quello americano, o tutti e due insieme…”
Peccato che il Borghese, allora diretto da Mario Tedeschi, era di diverso parere.
Per chiudere con “l’equivoco Rauti” citiamo una sua dichiarazione riportata sul libro “Interrogatorio alle destre”, Ed. Rizzoli, di Michele Brambilla.
“Avevo scelto di combattere per la RSI , sapendo che la guerra era perduta,
per motivi più patriottici che ideologici”.
Rauti non ha mai assunto un radicale presa di posizione contro il liberalcapitalismo e, soprattutto, contro gli Stati Uniti!
Difatti, nel breve periodo della sua segreteria, non fece alcunché per contrastare l’intervento italiano nella guerra del Golfo.
Queste sono solo alcune delle testimonianze più eclatanti. C’è ne sono molte altre. Il compianto Pisanò, che non ha mai dissimulato la sua “fede atlantica”, è stato uno dei primi ad indicare la responsabilità di elementi sovversivi di destra nelle bombe e nella strategia della tensione. Mi fermo qui.
Non è il caso di soffermarsi oltre su queste testimonianze. Come ho scritto prima, qui di esse interessa il valore d’indici di una confusione ideale strumentalmente ordita dai vertici in quegli anni.
La guerra non ortodossa - Il Convegno del Parco dei Principi.
Dal 3 al 5 maggio del 1965 si svolse in Roma il primo convegno di studi politici e militari indetto dall'Istituto Alberto Pollio, per iniziativa di tre giornalisti di destra, Enrico De Boccard e Gianfranco Finaldi e Edgardo Beltrametti. L’organizzazione del convegno fu realizzata con fondi forniti dal SIFAR e dall'Ufficio REI. Il convegno fu presieduto da un magistrato e da due alti ufficiali dell'esercito. Fra i relatori i nomi di Guido Giannettini e Pino Rauti; allo stesso partecipano, tra gli altri, Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino. Al convegno si parlò di "Guerra rivoluzionaria" in altri termini, di una dottrina che circolava da qualche anno negli ambienti militari. Il tema all’ordine del giorno era che una terza guerra mondiale fosse già in atto, non nelle forme tradizionali del conflitto dichiarato, ma condotta "secondo dottrine, tecniche, procedimenti, formule e concetti totalmente inediti... elaborati adottati e sperimentati dai comunisti in termini globali e su scala planetaria" ai cui "principi è ispirata comunque e dovunque la condotta non soltanto degli stati comunisti ma anche dei partiti comunisti che operano nei paesi del mondo libero" e per i quali "la competizione politica è in ultima analisi un fatto bellico avente come obiettivo la sconfitta totale dell'avversario". (Così Finaldi nella sua relazione introduttiva).
In altre parole, la ”guerra non ortodossa” prevede l’impiego dei Mass Media, di slogan “artatamente” suggestivi, in luogo dei fucili o di divisioni corazzate. Bisogna dire, a questo punto, che la struttura Gladio era già stata costituita da circa un decennio. Sembra quindi indubitabile l'esistenza in ambito militare intorno alla metà degli anni 60 di un dispositivo flessibile volto al contrasto di "sovvertimenti interni". Estremamente ragionevole è l'identificazione di tale dispositivo con l’organizzazione Gladio, nell’impraticabilità di dare al riferimento una base diversa. Da ciò l'ulteriore conferma dell'esattezza di un'ipotesi già in precedenza avanzata; e cioè l'impossibilità di ridurre i fini cui la struttura Gladio era stata costituita nello "stay behind" nell'ipotesi d’occupazione del territorio nazionale da parte di un esercito nemico. Ipotesi che veniva riconosciuta dallo stesso Beltrametti come ormai (già nel 1965) estremamente improbabile. A ciò si aggiunga che il convegno, stante la vastità e il grado di partecipazione determina una conferma della incapacità di ridurre le ipotesi di cui la Commissione è chiamata ad occuparsi, a meri momenti di deviazione degli apparati di sicurezza, sul presupposto che l’istituzionale circospezione di tali strutture ne legittimi un’attenta valutazione come monadi isolate. Gli atti del convegno attestano, peraltro, una ben più ampia rete di convergenti interessi, che riguardarono non soltanto le forze armate nella loro complessiva e articolata realtà, ma pure vasti settori del mondo imprenditoriale, politico e culturale. Parteciparono al convegno, tra gli altri, un qualificato esponente del ceto industriale come Vittorio De Biase che svolse un intervento dal titolo significativo: "Necessità di un’azione concreta contro la penetrazione comunista"; politici come Marino Bon Valsassina e Ivan Matteo Lombardo, Giorgio Pisanò, G. Accame, alti ufficiali, e intellettuali: uno spaccato sociale che chiaramente testimonia l’ampia disponibilità ad un impegno operativo comune. Peraltro se nella riflessione degli organizzatori del convegno i risultati già raggiunti (nell'approntare un dispositivo flessibile di risposta alla guerra sovversiva) apparivano eccellenti, diffusissima ed anzi unanime era la valutazione della necessità di un salto qualitativo ulteriore. De Boccard esortava la Commissione ad elaborare un piano per un mutamento radicale dell'intero dispositivo militare italiano al fine di una decisa e chiara risposta controrivoluzionaria. In particolare, degna di singolare attenzione appare la proposta avanzata dal Prof. Pio Filippani Ronconi di opporre "un piano di difesa e contrattacco rispetto alle forze di sovversione" predisponendo uno "schieramento differenziato su tre piani complementari, ma tatticamente impermeabili l'uno rispetto all'altro", utilizzando "le tre categorie di persone sulle quali si può in diversa misura contare".
Da quanto delineato, appare incontrovertibile l’interna commistione tra apparati militari, imprenditori, politici e intellettuali. Tutti volti nel perseguire lo stesso ed identico fine.
La Reazione alla “Guerra rivoluzionaria” di Mosca.
L’attuazione pragmatica delle contromosse “atlantiche” comincia con l’assunto di Rauti:
“Oggi la difficoltà di combattere il comunismo dipende quasi esclusivamente dal fatto che i comunisti non si vedono”.
Si cominciò a delineare la tecnica dell’infiltrazione a sinistra. Si sfruttò, all’uopo, la divergenza allora esistente tra la Cina maoista e l’URSS. Nel 1967 questa teoria si realizzerà concretamente attraverso l’opera di Claudio Orsi, Claudio Mutti e, soprattutto, di Pier Giorgio Freda. Quest’ultimo non si limitò all’azione, ma approntò una sorta di “bibbia” del reazionario. L’opera in quistione prende il titolo de “La Disintegrazione del Sistema”. Nella stessa ottica deve vedersi l’affissione dei manifesti cinesi inneggianti al presidente Mao. Questa azione “infiltrante” - secondo il Vinciguerra - era da attribuirsi al direttore de “il Borghese”, Sen. Mario Tedeschi. Nasce cosi il soldato controrivoluzionario.
Il passo verso il baratro fu breve.
La strategia della tensione – Il depistaggio delle indagini
Questa terribile e deprecabile strategia mirava a “destablizzare per stabilizzare”; vale a dire, destabilizzare l’ordine pubblico (seminando panico ed orrore nelle piazze) al fine di stabilizzare l’ordine politico. In parole povere, s’induceva, subdolamente e obliquamente, la popolazione a rinunciare a parte della propria libertà al fine d’ottenere una maggiore sicurezza. Questa, sicuramente, è una delle pagine più esecrabili della nostra storia recente; in quanto vi era una guerra in atto senza che la popolazione fosse stata avvertita. Si giocò, in questo modo, sulla pelle di innocenti una guerra sporca, indegna di un mondo libero e consapevole delle proprie scelte. Questa bieca e macabra messa in scena, trovò il suo completamento nel depistaggio delle indagini. Da qui, era divenuta una prassi consolidata dopo attentati, stragi ecc. quella di deviare le indagini su altri “siti”, affibbiando, di volta in volta, la responsabilità ad esponenti della sinistra extra parlamentare, scatenando, tramite i mezzi di comunicazione, la furia popolare. Si strumentalizzò ogni attentato al fine del mantenimento dello Status Quo. Non solo. Anche coloro i quali si misero a servizio dello stato, furono “traditi”. E lo furono in grazia della “Ragion di stato”.
I samurai, il bushido e la razza euro-giapponese.
Molto si è scritto sui problemi legati all’appartenere a una data razza e al razzismo in genere. Molto meno si è letto circa il razzismo biologico e quello che a noi più interessa: il razzismo spirituale. Andiamo per ordine.
Qui varrà il caso di citare integralmente il Vinciguerra che a pag. 9 della prefata opera scrive:
“Non era solo tempo di spioni e di poliziotti travestiti da nazisti, ma anche di progetti la cui origine, all’epoca, non riuscivo ad individuare con certezza. Progetti strani e strane idee, come quello della creazione di una razza euro- asiatica o , più specificamente, euro-giapponese, destinata nel tempo a divenire la nuova razza padrona del mondo. I suoi fautori e sostenitori non erano burloni perché alle parole facevano seguire i fatti, magari sposandosi con qualche giapponesina e mettendo al mondo dei figli che assicurassero il diritto di assidersi nella futura élite nata dall’incrocio fra le due razze. Follie? Forse. Rimane incontestabile e documentato il fatto che all’epoca tutte le cosiddette case editrici di destra, e non solo quelle, si affrettarono a riscoprire il Giappone, i giapponesi, i samurai e l’immancabile tradizione esoterica e guerriera dei figli del sol levante. Sfornarono decine di libri che presentavano il Giappone in tutti i suoi aspetti migliori e che però avevano un difetto, il solito: erano rivolti al passato e non al presente. Anche questo era inevitabile perché nel Giappone d’oggi non v’è più posto, da molto tempo, per le tradizioni guerriere e per il bushido, il codice d’onore dei samurai, i quali erano tanto diversi dai giapponesi di oggi come lo è la luce dalle tenebre. “
Appare evidente l’illusione chimerica di una tale grossolanità ideale. urtuttavia, bisogna ricondurre il problema al suo aspetto autentico. Ebbene, anche qui, sarà opportuno rimandare alla lettura di alcuni testi del ”maestro”, Juilius Evola. Il “Barone ghibellino”, già nel 1942, in pieno periodo delle leggi razziali, auspicò la differenza tra il razzismo scientifico, inutile ed anacronistico e quello dello spirito. Quest’ultimo, fra l’altro, scriveva:
“L’indirizzo scientista della propaganda razzista è sbagliato, perché se l’idea della razza da noi deve divenire davvero una forza, essa deve essere intesa in primis et ante omnia in sede etica e politica, spirituale ed eroica…”
Ed anche:
“Ora si sa bene che dal punto di vista scientifico e puramente biologico una razza italiana non esiste…”
“Giacché l’ebreo, da noi, è stato messo al bando non perché le sue labbra e il suo cranio si differenziassero davvero radicalmente da quelli di alcune componenti mediterranidi, presenti anche nel nostro popolo, bensì sulla base delle sue opere, del suo modo d’essere e d’agire, del suo spirito.
Orbene, lungi dal dilungarci in una simile digressione, appare superfluo rimarcare ciò che, avanti ora, è stato lapidariamente scritto. Perciò, è essenzialmente la tesi evoliana che conta.
La civiltà Spartana, quella ariana d’Oriente e l’aristocrazia romana non avevano bisogno di simili sciocchezze per autentificare qualcosa che intimamente e pubblicamente sapevano di possedere.
Fine della terza parte.
martedì 13 luglio 2010
La critica della reazione
"I contestatori distruggono quel che il potere neo capitalistico vuole abbattere… usano contro il neo capitalismo armi che portano in realtà il suo marchio di fabbrica e sono quindi destinati a rafforzare il suo dominio”
Pierpaolo Pasolini.
Abbiamo letto con vivo interesse lo scritto “Insieme per una nuova etica politica” e, dobbiamo aggiungere, non senza un malcelato imbarazzo. Nonostante i buoni propositi del titolo non si sono sinora intravisti altrettanto buoni propositi per “rimanere insieme”; ma, unicamente, accese invettive! Non che questo sia oggettivamente deprecabile, però…
Veniamo al dunque. In primo luogo, ci soffermeremo sulla parentesi sessantottina citata nella seconda parte dello scritto in questione. Vera è la storia di Valle Giulia e la partecipazione del MSI alla carica dell’Università Romana.
La scelta di non appoggiare e, anzi, di opporsi energicamente alla “marmaglia rossa” trova seguito e coerenza nell’opposizione alla logica della sovversione studentesca che mirava a dissolvere e distruggere l’ultimo baluardo della società civile. D’altra parte, troviamo penosa la “commedia” inscenata sulle pagine della rivista “Area”, da parte dell’On. Giulio Caradonna che, in uno scritto a sua firma, si dissociava e scaricava la sua personale responsabilità su Almirante e Michelini. In altre parole, costui si è appiccicato addosso la figura del “servo sciocco” oppure, quella più attuale dell’utile idiota. Ma tant’è. Il ’68 e la rivoluzione studentesca hanno rappresentato il punto terminale dello stato di degrado venutosi a creare all’indomani del dopoguerra. La scuola, in particolare, è stata la prima “vittima sacrificale” dei cosiddetti “Yupppies” odierni, i creativi, gli pseudo-intellettuali, di coloro i quali “volevano fare la rivoluzione”.
Parole come: “Basta con la formazione selezionativa… Distruggiamo la scuola istituzionale… Eliminiamo i professori… Evviva l’alfabetizzazione di massa…" sono state pronunciate negli anni ’70 da colui che siede sul più alto scranno dell’odierna Scuola Italiana: il ministro, Luigi Berlinguer.
Per il resto condividiamo pienamente la tesi sulla conseguente colpevolizzazione della destra e sulla sua relegazione nel “ghetto delle idee”. Ma noi confidiamo nel tempo e auspichiamo che questo “galantuomo” ci dia ragione. Concludiamo questa parte sulla Scuola e il ’68 sottoponendo all’attenzione dei lettori uno stralcio tratto da: Giorgio Almirante “Autobiografia d’un fucilatore”
Ciarrapico, Roma.
Giorgio Almirante."Scuola, la mia generazione ti ringrazia. C'è tanta malinconia in questo ringraziamento perché sappiamo che non ti rivedremo più, ma con pari
certezza sappiamo che mai ti vedranno i nostri figli, i nostri nipoti. Nessun'altra istituzione è stata così spietatamente corrosa, cancellata dalla ruggine del tempo. Il che non vuol dire che tu fosti sbagliata. Eri antica. Avevi difeso tra le vecchie mura i metodi, come quei vecchi borghi toscani, umbri o marchigiani che vivono senza tempo più che fuori tempo, che rifiutano di misurarsi col ritmo imposto dall'uomo all'uomo nel nome della civiltà. Eri antica e patetica. La tua inflessibile capacità di coltivare il silenzio emergeva in ogni attimo, quando di colpo in apertura taceva e in chiusura scoppiava, al segnale di un campanello, il cinguettio dell'infanzia e il brusio dell'adolescenza. Dicono che tu fossi pedante, dispensatrice sterile e puntigliosa di inutili nozioni. Ed è strano che te lo dica la civiltà delle macchine, dei numeri, della musica dodecafonica, degli astratti e sterili simbolismi artistici. Tu, scuola, insegnavi. Insegnavi chi era Dante per farci capire quel che Dante scriveva.
Indulgevi all'eccesso delle nozioni quando la pigrizia nemica d'ogni scuola e d'ogni studio, meccanizzava l'insegnamento, lo disumanizzava. Di frequente
eri anche, pertanto, la scuola dello sbadiglio; e quando spalancavi su noi le fauci con i tuoi terribili esami di maturità, sapevi anche essere la scuola della tensione nervosa e della confusione mentale. Ma eri in ogni caso la scuola dell'esempio, perché eri la scuola del dovere. Le tue cattedre erano troppo alte, in parecchi casi troppo elevate e lontane; ma il fatto che per definizione fossero ad un superiore livello di sapere, accreditava nella nostra coscienza, forse nel nostro istinto, il
convincimento che si trovassero anche ad un superiore livello di civiltà e di moralità. Sicché tu, scuola non ti limitavi ad insegnare, con quei tuoi
modi e metodi antichi. Tu ci educavi. Ciò significa che sapevi farti amare. Anelavamo, in quell'ambiente di dovere e quindi di compressione, alla fine della lezione, alla fine della mattinata, agli intervalli, alla fine dell'anno, alle vacanze; ma, licenziati o diplomati o "maturi" tornavamo a trovarti; e non di rado i1 rapporto d'amicizia che il timore reverenziale aveva prima impedito, si manifestava dopo; e rivedere il professore, il preside, a scuola finita, era una piacevole emozione. C'è chi tra noi, cinquantenni, sessantenni, rivede i tuoi non restaurati edifici, antica scuola, e quasi non li riconosce per le scritte che li deturpano, per l'inciviltà che li stringe in stato d'assedio; e vorrebbe poter rientrare inosservato e tranquillo, non per ritrovare la propria giovinezza, ma per cercare di raggiungere, lì dentro, lo spirito di una generazione che entro quelle pareti apprese a conoscere se stessa".
Arrivederci alla prossima!
lunedì 12 luglio 2010
Insieme per una nuova etica politica (seconda parte)
La collocazione errata del fascismo e dei suoi epigoni a destra.
La volta scorsa ho, in modo oltremodo eloquente, spiegato le ragioni della mia distanza dalle cosiddette organizzazioni partitiche "classiche". Questa volta, invece, mi soffermerò sui preconcetti acquisiti e "genetici" della cosiddetta area di destra. Il primo concetto errato è, fuor di dubbio, la collocazione del partito missino a destra. Il 26 dicembre, nello studio di Arturo Michelini, fu fondato il MSI. All'inizio questo movimento nacque come strumento per assicurare una cittadinanza politica ai reduci fascisti, mantenendo, altresì, una continuità ideale con i valori esemplarmente incarnati nell'epopea di Salò.
Fino al 1948, Il MSI non aveva ancora sposato le ragioni della destra. La prova palese di tutto ciò va ricercata nel dibattito che seguì dopo la collocazione (in senso letterale) in parlamento all'estrema destra dei parlamentari missini.
In quell'occasione si rispose - assicurando la base militante - che l'opzione non era "ideologica" ma solo "tattica". Questo perché gli uomini di Togliatti erano seduti all'estremo opposto. Questa è la storia ufficiale.
In realtà, sia per posizione presa da parte di alcuni membri sia per l'influenza esercitata dai "centri di potere", il MSI si trasformò, gradualmente e diabolicamente da forza dinamica, antiplutocratica e rivoluzionaria in una forza statica, conservatrice al servizio dello Stato democratico antifascista!
Nel 1949, dopo un dibattito acceso e aspre polemiche, questo "movimento" si trasforma in un breve lasso di tempo da partito anti-americano a portabandiera dell'alleanza atlantica. Il passo successivo viene compiuto nel 1952. In occasione delle amministrative le liste missine ottengono un successo elettorale per un accordo a Roma tra missini, monarchici e democristiani. Ma veniamo al punto. Il primo preconcetto da rimuovere è quello dell'anticomunismo. Giuseppe Rauti fu il primo a determinare limpidamente la differenza tra bolscevismo e comunismo. Difatti su la rivista "Asso di bastoni" del 2 -01-55 scriveva, tra l'altro:
"La generica aspirazione anticomunista(…) si divide e si differenzia nettamente. C'è l'anticomunismo dei "valori", e c'è l'anticomunismo degli interessi. Ci sono quelli pronti a reagire contro la sovversione dilagante, per creare qualcosa di nuovo, e ci sono quelli che sono disposti solo a difendere quello che già esiste. V'è, insomma, un anticomunismo borghese ed un anticomunismo rivoluzionario, quello che per meglio distinguersi, ameremmo veder chiamare col suo più vero nome: antibolscevismo".
Peccato però, che dopo meno di dieci anni, Rauti rinnegò integralmente le sue convinzioni e si pose al servizio di chi nasconde solidi interessi, anziché proseguire sul difficile percorso prima intrapreso.
L'equivoco è così diffuso che neppure i vertici ne sono rimasti immuni. Mirko Tremaglia in un'intervista rilasciata alla rivista "AREA" dichiara:
"Allora Rauti era l'antitesi della sinistra: quando facemmo il congresso dell'Aquila, nel '53, da una parte c'eravamo noi, chiamati i "visi pallidi" che eravamo quelli della “sinistra”, e poi c'era Rauti che capeggiava "i figli del sole" cioè la destra "aristocratica" del raggruppamento…"
Dopo aver letto ciò, si sarebbe tentati di chiedere a Tremaglia il motivo (vero) per cui non si è iscritto al PCI di Togliatti.
Adesso, senza entrare nel merito di questa strumentale e improvvisata dichiarazione, ritengo utile sgombrare il campo da questi inutili dubbi citando il maestro, Julius Caesar Andrea Evola.
Il Barone nero, anticomunista serio e convinto, ha sprecato litri d'inchiostro per spiegare ai sedicenti camerati questa esemplare verità:
"L'antitesi vera non e' quella tra capitalismo e marxismo, ma è quella esistente tra un sistema nel quale l'economia è sovrana, quale pure sia la forma che essa riveste, e un sistema nel quale essa è subordinata a fattori extraeconomici entro un ordine assai più vasto e più compiuto, tale da conferire alla vita umana un senso più profondo e di permettere lo sviluppo delle possibilità più alte di lei."
Franco Cardini, nel numero 18 de "lo Stato", lucidamente, scrive:
"La risposta è tutta compresa in un equivoco e un paradosso: il 1848.
Per questo, le destre non sono omologabili. Esistono i liberal-conservatori, come i Gentile, i Salvador de Madariaga, Gli Ortega y Gasset, i Max Weber. Ma questo tipo di Destra non ha nulla ha che vedere con quella che nasce dalla Controrivoluzione, né con quella che - animata da un odio feroce e irremissibile contro i valori borghesi usciti dall'ottantanove - finisce spesso col simpatizzare con utopisti e rivoluzionari".
E' noi a questo ultimo tipo dobbiamo riferirci e, di conseguenza, impostare la nostra politica comune. Bisogna disfarsi, al più presto, dell'inutile ciarpame nostalgico e imboccare una "strada nuova".
Un altro macroscopico errore va sicuramente rintracciato nel voler associare il fascismo alla destra. La sola connessione tra il fascismo correttamente inteso e la destra la si può ritrovare solo col nazionalismo. Dopo di che, le strade si dividono in modo irreversibile. Il socialismo rivoluzionario di un Sorel, la morte di Bombacci insieme ai gerarchi fascisti, il nichilismo di Nietzsche, il disprezzo dell'essere borghese di Drieu La Rochelle, non possono in alcun modo essere associati alla "moda borghese" di destra e di sinistra!
Per quanto concerne, poi, il fascismo, le sue origini e soprattutto l'epopea della RSI, non vi sono, a mio parere, dubbi di sorta. A prescindere dalla provenienza socialista del Duce e dall'incarnazione sociale e nazionalsocialista dell'esperienza finale, vi sono numerosi scritti del ventennio che confermano in modo inequivocabile le scelte operate da Mussolini. Scriveva Benito Mussolini il 7-04-1926:
"Noi rappresentiamo un principio nuovo, noi rappresentiamo l'antitesi netta, categorica, definitiva di tutto il mondo della democrazia, della plutocrazia, della massoneria, di tutto il mondo, per dire in una parola , degli immortali principi dell'89(…)"
A tutt'oggi, v'è, da parte di qualcuno, l'infelice scelta di associare il Fascismo al liberalismo. Non so se questo sia avvenuto più per caso (il caso non esiste) o per attirare alcuni nostalgici verso il lido sicuro dei propri interessi. Il fascismo è la negazione del liberalismo e dell’individualismo. Il fascismo è avanguardia totale, rispetto al marciume ideale ed epocale del 1789 del '48 e del 1917. Il fascismo e il nazionalsocialismo sono il superamento del materialismo storico marxista ed insieme il ripudio della società del "benessere borghese". A questo "benessere" il nazifascismo contrappone un altro benessere: il sano spirito legionario. Per operare una sintesi. Il fascismo è rivoluzionario nei principi, nelle idee e soprattutto nelle azioni. La destra è conservazione dell'ordine borghese, reazione, politica antipopolare al servizio del capitale, delle banche e di chi ha solidi interessi da difendere. Nessuna analogia con la porcilaia borghese. Nessun apparentamento coi monarchici reazionari. Le somiglianze artificiose servono ai massoni del blocco conservatore, alla destra tutta, che nell'attuale clima, tendono a dividere il fascismo buono da quello cattivo. Questa è la strategia elaborata e portata a compimento da tutta la destra, a scapito dei camerati in buona fede. Per rendersene conto basta leggere un qualsiasi giornale di destra.
Ma veniamo ai giorni nostri. La rappresentazione più eclatante e macroscopica la si è avuta nel '68. Non ricorderò, per essere breve, le vicissitudini di Valle Giulia e l'assalto all'Università di Roma deciso dal MSI. Ad ogni buon conto, si può affermare, senza tema di smentita, che nel breve lasso di tempo intercorso fra questi due eventi nasce e muore l'unica idea di una rivoluzione unitaria antiborghese.
L'idea così teorizzata da Pierre Drieu La Rochelle moriva sul nascere, per mano di Almirante, Caradonna e altri. Dopo quest'ultimo episodio il potere utilizzo, a propria discrezione e consumo, i due opposti estremismi per consolidare e mantenere lo "Status quo". Appare evidente, che a farne le spese maggiori fu proprio il neo fascismo. Difatti, da quel momento, si guadagno, sul campo, la nomea di violento reazionario. Non solo! L'università perse i suoi rappresentanti. La cultura, già fortemente politicizzata e antifascista, si consolidò come unica cultura dominante del paese. La sinistra aveva messo a segno un altro importante obiettivo gramsciano: la conquista del potere culturale. Il neofascismo, per converso, fu punito e relegato nel ghetto o, meglio, nella "fogna".
Fine della seconda puntata.
sabato 10 luglio 2010
Insieme per una nuova etica politica
Nuovi Orizzonti (prima parte)
Di fronte alla rinascita di vari gruppi e/o partiti di poca importanza, è d'uopo ampliare gli orizzonti e auspicare unità d'intenti e chiarezza di vedute. Da sempre e, aggiungo, per fortuna, mi sono sempre astenuto dall'appartenere a qualsiasi "partito" e questo non solo per motivi ideologici.
Le altrettante rappresentazioni mentali di partito e di tesseramento sono, per me, concetti mefitici, rimasugli esiziali dell'esperienza liberale e democratica. Queste idee, cui, sovente, fanno riferimento i politici nostrani, sono scaturite dalla Rivoluzione Francese. Gli stessi concetti di destra e di sinistra sono degli ambiti di riferimento troppo angusti e, spesso capziosi, che non danno idea alcuna dell'eterogeneità degli schieramenti. Se, poi, usciamo dai confini nazionali, questi concetti sono addirittura vertibili. Ritengo necessario, perciò, iniziare a trasmettere quelle importanti nozioni di buon discernimento, che fanno riferimento alle idee tradizionali di Stato organico in contrapposizione allo Stato Sistema. Per chi trovasse estranei questi concetti, rimando alla lettura dei testi di R.Guenon e, soprattutto, di Julius Evola. Ritornando al girone degli esclusi, si può affermare, senza tema di smentita, che la destra in Italia è stata solo un utile paravento al servizio del "Sistema".
Mi spiego ulteriormente.
Il neo fascismo è stato usato spesso a mo' di scudo contro il veterocomunismo e, talvolta, come spada al servizio d'interessi del tutto estranei, se non addirittura contrari, agli stessi militanti.
In cinquant'anni d'attività (sarebbe meglio parlare di sopravvivenza!) nulla di veramente esemplare è stato compiuto. Per converso, si è assistito ad un continuo ed inesorabile svilimento degli originari ideali che, invece di essere conservati, sono stati progressivamente traditi e "aggiornati" alle direttive del potere. Molti si meravigliano della svolta di Fini a Fiuggi. Nulla di più chiaro e previsto.
Il movimento senza importanza è, sin dalle sue origini, NATO per contenere, dirigere e condizionare gli stessi militanti. Altro che esuli in patria! Altro che ideali da vivere e memoria da conservare!
Il primo segnale s'è avuto con l'adesione al Patto Atlantico. Adesione, questa, apparentemente tormentata ma, in realtà, preordinata dai vertici al fine d'accordare la più ampia disponibilità ai nuovi padroni; adesione non necessaria, in quanto il suddetto movimento non contava "un fico secco" perché piccolo e al di fuori dell'arco costituzionale. Inoltre, la sua storia è contrassegnata dal trasformismo e dall'utilitarismo più bieco. Qui, di seguito, riporto le principali enormità:
• l’adesione al Patto Atlantico;
• l’inclusione della didascalia D.N. nell’egida fiammeggiante ed il conseguente apparentamento coi monarchici;
• la repressione sistematica degli spiriti ardimentosi e la commistione con logge d'ogni genere e rango;
• la difesa dell'essere Borghese come modello di vita anteponendolo al sano spirito legionario;
• ed infine “last but not least” la connivenza con gli apparati deviati e non deviati dei “servizi”.
Oggi, più che mai, dovrebbe riaffermarsi quell'idea "tradizionale", che riporti in vita l'ordine virile e luminoso dello Stato. Questo "Nuovo Ordine" della reazione dovrebbe rovesciare l'immagine delle ginecocrazie plebee.
Lo Stato non è espressione della "società"(1). La concezione sociale dello stato è indice d'una regressione naturale dello stato, che passa dal maschile al femminile, dal polo positivo al negativo. Il positivismo sociologico che è alla base di predetta concezione, non fa altro che convalidare questa tesi. Il potere Anagogico che caratterizza il suddetto modello di assetto societario, è praticamente nullo.