domenica 14 dicembre 2014

ROMA: CAPITALE DELLA MAFIA



La nuova genia della Mafia, che a Roma non si può chiamar tale, ha come suo referente principale, non tanto la criminalità comune o organizzata che dir si voglia, quanto il SISTEMA di ASSISTENZA (pelosa) ai cosiddetti RIFUGIATI: un fiume di soldi che viene ripartito tra cooperative, mazzieri, mazzette, ecc.
Qual è il nesso umanitario che lega l'ex capo della segreteria veltroniana al Presidente del Consiglio? E cosa c'è, oltre una militanza a destra, tra un ex sindaco e un imprenditore? Cosa hanno in comune un ex assassino e un ex terrorista? Cosa li lega? E, soprattutto, come fanno ad avere "agganci" politici in alto loco? La realtà, al di la di ogni inutile perifrasi, è una sola, inequivocabile: DENARO! Questo è l'unico NESSO UMANITARIO che, come un cordone ombelicale, lega le persone dabbene, in giacca e cravatta, a quelle meno presentabili, munite di coltelli a serramanico o della più sofisticata Makarov 9 («che tu non senti neanche il clack, e già si è allargata la macchia di sangue»). Eppure era risaputo. Adesso tutti fanno FINTA di NON VEDERE, NESSUNO sapeva e, se sapeva, era male-informato, magari in odore di RAZZISMO. Questa è la realtà che nasconde una Roma degradata, maleodorante che, forse, nessuno più riuscirà a chiamare ancora "ROMA città eterna".

giovedì 4 dicembre 2014

L'unica via d'uscita


Non si potrà mai dirimere il cosiddetto divario Nord/SUD se non si metterà la parola fine ad una certa forma mentis venutasi a costituire successivamente all'Unità d'Italia. In primo luogo, occorre sbarazzarci di certe costruzioni ideologiche errate che, per troppo tempo, hanno finito per condizionare il nostro modo di agire e di pensare. Queste pseudo-teorie, imposteci sin dai tempi della scuola, hanno finito per corrompere il nostro metro di giudizio, inoculando in noi un senso di minorità e prevaricando ogni nostra scelta, che risulta essere così condizionata dalla nostra appartenenza territoriale. Mi riferisco, in particolare, ad una sorta di colonialismo culturale che abbiamo  - obtorto collo - dovuto subire.  A molti questa mia asserzione parrà bislacca, ma non lo è affatto.
Dall'unità d'Italia in avanti il Sud ha incominciato lentamente, ma inesorabilmente, a morire, vittima, dopo l'occupazione manu militari, non tanto dell'arroganza piemontese quanto della propria inedia culturale. Su questa conclamata verità, i rappresentati del Sud Italia "ELETTI" al neonato parlamento italiano, che ben conoscevano le storture commesse al sud dai Savoia e dei loro ascari alle martoriate terre meridionali, fondarono la loro FORTUNA PERSONALE. Fu così che, attraverso squallide operazioni di trasformismo, fecero di necessità virtù unicamente per accreditarsi nell'arena politica e accrescere il loro personale patrimonio.
Quella vergognosa strada fatta di squallidi compromessi al ribassso ha portato solo disgrazie alla nostra gente, alimentando negli anni un esodo pauroso che mai si era verificato prima dell'Unità.
I politici del tempo, incuranti del bene comune e interessati al loro esclusivo prestigio, hanno utilizzato i problemi reali che affliggevano il meridione d'Italia per porre in essere una sorta di ricatto permanente, rinnovatosi, di legislatura in legislatura, senza soluzione di continuità, fino ai giorni nostri. Ma, nonostante gli aiuti pelosi, fatti passare come assistenza gratuita, nulla di serio è stato fatto per le popolazioni meridionali che, viceversa, hanno pagato con l'esilio e la morte la tanto "agognata" unità.
Anche al nord, naturalmente, fra le fasce di popolazione attiva, è cresciuto il malcontento, ingenerato e alimentato da un odio viscerale verso i meridionali. Un odio alimentato ad arte dal Sistema in modo indiretto, nel senso che, da una parte lo Stato faceva propaganda di egualitarismo unitario e, dall'altro finiva, incontrovertibilmente, per elogiare il pragmatismo e la laboriosità delle popolazioni settentrionali a discapito di quelle meridionali. Ai poveri meridionali venivano attribuite le infamie peggiori, a loro venivano affidati i lavori gravosi ed usuranti. Chi non dovesse crederci dovrebbe ascoltare quelle trasmissioni di Rai Storia che, a tarda sera, mandano in onda, le interviste ai lavoratori meridionali impiantati al nord.
Questa contrapposizione ha finito per  smantellare quanto fatto a fin di bene con l'unità dìItalia, finendo per avvalorare una secessione di fatto. Così, in questi ultimi anni, al nord Italia sono sorti movimenti separatisti che hanno visto aumentare il loro elettorato in modo esponenziale. Fra tutti questi è emerso un partito (Lega Nord) che ha letteralmente spopolato, mettendo in allarme tutti settori dello Stato, dalla Magistratura alle Forze dell'Ordine.
Costoro, però, in modo del tutto arbitrario, non hanno tenuto in debito conto un fattore fondamentale: la mutata situazione etnico-sociale venutasi a creare dopo il continuo esodo dei lavoratori meridionali nel nord italia. Infatti, in tutti questi anni, il tessuto politico sociale nel nord-italia era del tutto mutato. Al nord la teoria del Colonialismo interno è stata così rovesciata ed ha assunto contorni razzisti più o meno evidenti. Tali contorni si sono smorzati solo adesso, dopo gli immani scandali che hanno visto come protagonisti proprio chi stava criticando "Roma Ladrona". Oggi,  vista l'impossibilità della Lega Nord a pretendere la secessione per sganciarsi dall'Italia, si cambia tattica. Non si potrebbe capire diversamente l'atteggiamento della Lega Nord se si prescinde da questa tattica. Per loro il Sud Italia è una palla al piede, una zavorra da cui bisogna liberarsi ad ogni costo, pena l'arretramento del Nord verso il Continente Africano. Ora tutto ciò è falso; è frutto di misera propaganda elettorale che vuol far leva sui bassi istinti, privilegiando la "pancia", invece che la testa.  Il Nord, amputato della "scarpa vecchia", anche grazie alla diversa politica attuata sul territorio, meno assistenzialista e votata alla produzione, sicuramente potrebbe risollevarsi nel breve periodo, ma è difficile che prenda il volo e raggiunga paesi come la Germania o la Francia. Il nord, da solo, subirebbe un drastico declassamento in Europa, e le due Italie si vedrebbero costrette ad arretrare entrambe, vistosamente, in un modo che nessuno ha sperimentato prima.
Tutti noi, impressionati dall'iniziativa nordista (impostata sul piano sociale e politico dalla Lega), sentiamo il bisogno di riproporre i tratti e la fisionomia di una nuova questione meridionale, in risposta alla questione settentrionale agitata dalla Lega Nord. La forza della Lega di costruzione di un egemonia (per dirla con Gramsci) sta nell'aver saputo costruire un "Pensiero Lungo", basato su una chiara identità sociale, unita ad una spiccata capacità politica e ad un radicamento sul territorio. Tutte cose queste che sono mancate del tutto al Sud, a causa di una classe politica vecchia e incapace di creare una nuova classe dirigente. Gli intellettuali meridionali, inoltre, non hanno saputo elaborare un'egemonia culturale capace di imporsi al grosso pubblico, lasciando agli altri l'iniziativa e rimanendo succubi del pensiero altrui. L'ultimo pensiero lungo meridionale  è quello di Antonio Gramsci. Dopo di lui, il nulla.
Tutte le classi dirigenti meridionali che si sono avvicendate hanno seguito la mefitica linea del "do ut des", senza proporre nulla di serio ed innnovativo. Quello che serve, a mio modesto avviso, è cambiare mentalità. Occorre sbarazzarsi dei luoghi comuni... ed occorre farlo alla svelta. Soprattutto al sud che rimane sempre alla finestra aspettando che la "burrasca passi e torni il bel tempo". Prendere le redini in mano del potere non serve a nulla se a capo delle nostre comunità ci saranno gli incapaci di sempre, magari in versione localista e provinciale. Occorre uno slancio che promuova la libera iniziativa, sganciata da logiche padronali e assistenzialistiche. Occorre, togliere il potere a chi lo detiene saldamente nelle proprie sudicie mani, cambiando radicalmente  tutta la classe dirigente. E' un'utopia, lo so... ma è l'unica via d'uscita da questo cul de sac.

martedì 25 novembre 2014

Specchietto per le allodole


Quanto appena accaduto alle elezioni regionali in Emilia ed in Calabria conferma lo stato indecoroso della cosiddetta Democrazia rappresentativa, vero e proprio simulacro di oscenità piccolo-borghesi. Per i benpensanti ciò confermerebbe la legittimità della "politica" a governare il "Bel Paese". In realtà, si tratta di uno squallido specchietto per le allodole, un lurido escamotage per sottrarre furbescamente potere al popolo.
Tuttavia, sarebbe ingeneroso attribuire al solo regime partitocratico la totalità dei meriti. Il sistema Partitocratico, come la Luna, vive di "luce riflessa", non di luce propria. Esso si alimenta degli avanzi che i "poteri forti" lasciano di proposito sul loro ricco desco, al fine di alimentare una interessata cordata di clientele, onde perpetuare un potere fondato su prebende e privilegi che esula da qualsivoglia principio etico e di giustizia.
Naturalmente anche il popolo non è estraneo a questo sporco gioco. Anche il popolo, in specie negli anni addietro ha beneficiato di certi salvacondotti non proprio edificanti...e tuttavia, adesso che, sono saltati molti equilibri (ma non tutti) ci si aspettava una reazione adeguata. E invece, nulla. Non si salva nessuno. Non si salva l'Emilia Romagna al Nord e non si salva la Calabria nel profondo Sud. Non si salva questa società che esprime il peggio del peggio; non si salvano gli astensionisti che, così facendo, legittimano la partitocrazia imperante, lasciando che una ristretta cerchia di favoriti detti le regole del gioco, perpetuando l'odiosa casta politica, in modo tale che siano sempre i  peggiori a vincere.
In molti si sono indignati per gli scandali che hanno colpito varie regioni italiane ma, nonostante ciò, nulla cambia, se non l'astensionismo che tende così ad aumentare in modo allarmante.
Anche se oggi i politici continuano imperterriti a collocarsi a destra o a sinistra, nulla cambia... poiché costoro sfuggono alla dicotomia destra/sinistra, essendo entrambi funzionali al medesimo disegno global-mondialista. Del resto, i desiderata delle oligarchie finanziarie si riassumono in una sola parola: ELIMINAZIONE. Anzitutto, eliminazione della rappresentanza popolare, che, quando veritiera, viene immediatamente bollata con l'aggettivo "Populista"; quest'ultima, dunque, assume valenza eminentemente negativa per i politologi nostrani.  In secondo luogo, eliminazione della sovranità popolare, ossia della capacità di decidere autonomamente e, soprattutto, insindacabilmente, da qualsivoglia potere esterno. In terzo luogo, eliminazione delle diversità, ragion per cui tutto deve essere OMOLOGABILE, CATALOGABILE e CONTROLLABILE. Anche nella famiglia scompaiono le figure tradizionali, per essere sostituite da altre figure asessuate e, appunto, interscambiabili. Tutti questi pezzi che sembrano distinti e distanti assumono una reale fisionomia allorquando vengono collocati nella giusta ottica: Il POTERE MONDIALISTA.

sabato 25 ottobre 2014

L'attitudine umana (troppo umana) a delinquere


La Delinquenza è nata con l'uomo. Tuttavia, mai si è vista agguerrita ed organizzata come oggi. Forse perché essa rappresenta una risposta alla cosiddetta "società a due piani", di quelli che si trovano in alto, che sanno e possono, e di quelli che si trovano in basso, che non devono sapere bensì agire. Un salto di qualità la delinquenza l'ha fatto in America, negli anni '30, durante il proibizionismo. Fu allora che essa si specializzò nel gangsterismo. Una peculiarità, quest'ultima, molto apprezzata oggidì, soprattutto negli ambienti bancari, i quali sottraendo la violenza diretta, hanno intanto aggiunto il ricatto e l'intimidazione... che però, a quanto è dato sapere, sono oggi parti integranti dell'economia "democratica". Per questo oggi diventa un fatto quasi naturale rivolgersi indifferentemente al gangster o al banchiere: cambiano i metodi ma il risultato è pressoché identico.
Dopo l'ultimo conflitto bellico, i gangster sono sbarcati in Sicilia a fianco degli alleati e sono stati accolti dagli indigeni italici (italioti) come "liberatori". Costoro, dopo aver rieducato i banchieri nostrani, hanno sostituito la "civiltà del Lavoro", creata nel "vituperato ventennio", con quella del "Tempo libero", tanto che oggi, ancora molti giovani rimangono perennemente in vacanza a far compagnia ai loro genitori appena licenziati. Inoltre, non soddisfatti, hanno abolito la tanto odiata società gerarchizzata, per sostituirla con la carnevalizzazione della politica, dove un governo durava quanto una stagione. Poi, con la stagione di Tangentopoli, si è chiusa definitivamente anche l'epoca dei governi balneari. E' nata la seconda repubblica che ha visto tra i suoi protagonisti principali un imprenditore che ha portato in parlamento una ventata di freschezza.
La nuova industria dello spettacolo è sbarcata così a Palazzo Chigi: nani e ballerine hanno "danzato" per quasi un ventennio, offrendo la rivoluzione della fluidità e dell'avidità. Un lavoro non privo di rilevanza, proteso a coltivare nuove intelligenze: l'arte dell'imbroglio e l'inclinazione al meretricio. Il Cavaliere ha offerto così alla delinquenza una funzione salvifica e sociale. Ha costituito un trait d'union fra i due piani, fra quelli del piano alto e i sudditi sottostanti. Solo così un solerte finanziere - che dovrebbe arrestare chi naviga negli imbrogli - diventa suo prezioso collaboratore. Solo così un'immigrata marocchina (minorenne) è riuscita a far impallidire la città di Arcore. Solo così si comprende il perché la gente delinque, perché a farlo in modo proficuo, siano soprattutto i banchieri, gli alti funzionari di stato, gli ufficiali dei Carabinieri e della Finanza.   La delinquenza diventa così fattore sociale democratico unificante. Una risposta la si potrebbe rintracciare infine nella noia che questo carnevale americano - a lungo andare -  instilla nei suoi sudditi. In questo mondo di contabili ipocriti e bugiardi, delinquere è forse l'unico rimedio alla noia. Una via di uscita alla solita routine, o da una vita senza ideali, e perciò, priva di qualsiasi significato.

venerdì 24 ottobre 2014

Globalismo: una parola, molti significati


Il diavolo sotto mentite spoglie

C'è ancora chi, nonostante la crisi, nonostante tutto, continua imperterrito a tessere le lodi del Globalismo. Mi chiedo: ma sanno esattamente cosa significa? Per i più informati è solo una ripetizione su scala planetaria del colonialismo. Per altri, i "VIP", il mezzo per superare frontiere ed oceani, e vivere il mondo in tempo reale. Per me il globalismo è un cancellino. Cancella i legami fra l'uomo e i luoghi in cui è nato e cresciuto; cambia incessantemente le abitudini e i costumi, i sapori e gli odori dei suoi piatti; impone i suoi diktat in tutti i campi, ti dice cosa fare e cosa no, ma ti fa credere di essere tu a scegliere; fa SCOMPARIRE i ruoli e le gerarchie, rendendo tutto interscambiabile: uomini fanno e donne fanno gli uomini. Disintegra la religione che un tempo univa e divide ciò che era unito. Il globalismo, insomma, è il demonio.

martedì 14 ottobre 2014

MANI DI FANGO



Il fango di Genova è diventato una cartina di tornasole per il cosiddetto "Bel Paese". Esso rappresenta, in modo assai emblematico, il nostro governo: parolaio, inefficace, vergognoso e mendace. In particolare rappresenta anche la sconfitta del Nord "pragmatico", oltre che dell'intero centrosinistra.
Il giorno dopo l'ennesimo alluvione che ha fatto esondare i fiumi, rompendo tutti gli argini, ci si chiede ancora come sia stato possibile tutto ciò. La risposta non è una ma non è difficile a darsi: abusivismo edilizio, cattiva amministrazione, incuria, mancato rispetto dell'ambiente e del territorio. Tutte cose arcinote. Tutte cose che in altri tempi non sarebbero passate inosservate e che, invece, oggi, sono all'ordine del giorno. Prendersela dunque con il solito "destino cinico e baro" è un'impresa ardua che non regge alla prova dei fatti.
Il guaio è che la città di Genova non è la sola città ad essere interessata da questo increscioso fenomeno. Notizie simili ci arrivano da Parma e da altre zone limitrofe in Piemonte. Allora, se le cose stanno così, perché non prendersela con coloro i quali si sono resi responsabili di tutto questo? Presto detto.
Non è possibile. In vero, qui, non si tratta solo di denunciare chi aveva il dovere di sorvegliare ed avvertire in tempo utile cosa stava accadendo in questo stramaledetto paese... Qui si tratta di mettere la parola "FINE" a ciò che da tempo accade nella totale indifferenza di tutto e di tutti!
Basti pensare all'ex ministro Claudio Burlando, ora governatore della Liguria, nonché commissario ad hoc, guarda caso, proprio per le alluvioni. Poi c'è il sindaco Marco Doria, anche lui di centrosinistra, e anche lui in carica da moltissimo tempo (più d'un ventennio).  A ciò aggiungiamo che l'attuale presidente del Consiglio è, pure lui, di centro sinistra, si è tenuto per sé la delega alla Protezione civile, cercando maldestramente di emulare uno come Benito Mussolini.
Eppure, nominando, non impropriamente,  il vituperato "Ventennio", viene da dire che Mussolini fece cose assai egregie, in tal proposito.
Penso, per esempio, alla Tutela paesaggistica ed idrogeologica. Cose che adesso invece cozzano con la devastante, demenziale  cementificazione dei suoli agricoli e la cessione dei terreni demaniali ai privati, o all'inquinamento atmosferico, della terra e delle acque.
In questo stramaledetto paese, ci vorrà una persona che, oltre ad assumersi le responsabilità delle cariche che occupa,  sia anche e soprattutto veramente RESPONSABILE?

venerdì 12 settembre 2014

Il Cerchio anamorfico


Nella perdurante crisi che attanaglia il "Bel Paese" c'è un elemento assai trascurato da politologi e opinionisti: è la mancata percezione della causa prima della crisi. La maggioranza degli italiani conosce a menadito i vari impedimenti che ostacolano il cammino di questo paese, ma non conosce o, meglio, non riesce a percepire la causa prima e vera di tutti.
Tutti parlano di mancata crescita, di riforme mancate, jobs act, art. 18 et similia. I più "informati" vi diranno invece che le cause sono altre e ataviche:  burocrazia pervasiva, corruzione, evasione, malversazione. A questo punto c'è il solito solone che afferma la centralità dell'istruzione e il fatto che non esiste una classe dirigente di alto livello. Vero. Ma io continuo ad affermare che queste, seppure importanti, sono cause indirette. Altri ancora vi parleranno di Banche, di complotti  ed altro ancora. Tutte cose che possono anche avere un margine di verità ma che, prese singolarmente, mostrano tutta la loro fallacia.
Personalmente, credo, invece, che queste cause siano solo un "riflesso" di altra causa.
Vi è una  sorta di “cerchio”, ingenerato dal sistema informativo che, nel dare le notizie, "ri-veli" (nasconda due volte) la notizia genuina, fornendone, di contro, un’immagine distorta, anamorfica.
La nostra epoca è caratterizzata, perciò, da un cerchio anamorfico che rinchiude la verità,  forzando tutto all’interno di un mefitico quadro, dal quale nessuna soluzione mai potrà venir fuori.  Questo fatto è determinato dall'aridità spirituale, dal fatto che nessuno, nemmeno nei quadri più alti, possieda un'illuminazione dell'alto verso l'alto.
La nostra è un’età di aridità spirituale. L’aridità spirituale, spesso, è una prova necessaria, nessun dubbio al riguardo, ma è tra le prove più ardue. La nostra è un’epoca dove solo si permuta il già noto, o ci si rifugia in passate certezze, ormai del tutto inapplicabili, e perciò stesso, foriere di divisioni e allontanamenti.  Per questo motivo, sovente, mi scontro con quelli che dovrebbero essere miei sodali ma che, ad uno sguardo attento, appaiono, nel migliore dei casi, come varianti controllatissime del "sistema".
Sulla sincerità di alcuni promotori di questi tentativi non c’è da dubitare, poiché coloro che sono in malafede, prima o poi, la manifestano senza nemmeno accorgersene Ed allora? Si  tratta solo di ottusità umana inguaribile, oppure v'è dell'altro? A tal proposito non vi è tema di smentita: la stupidaggine umana in larga misura e i difetti (sempre presenti anche in individualità di alto rango) hanno fortemente inficiato ogni cosa; a questo devonsi aggiungere le poderose influenze arhimaniche che condizionano il divenire umano. Queste sono vive e vegete e operano sul serio!
Questa età nefasta che affetta un'apertura mentale un tanto al chilo non fornisce nuovi margini di manovra e sa solo costruire nuovi conformismi. Ma c’è pure dell’altro. A mio avviso, l’errore sostanziale deve rintracciarsi nei pur timidi tentativi dissolutrici, tutti miranti ad ottenere come una sorta di “riforma interna” dei quadri di riferimento tradizionali che abbiamo ereditato. Occorre invece cominciare ad uscirne per poter intravvedere una soluzione che non sia il perdurare sul cammino che ci porta inevitabilmente  alla dissoluzione.

domenica 17 agosto 2014

E la ripresa non c'è più...


Sin dall'inizio dell'anno, «Man Draghi» si è sempre mostrato fiducioso sulla ripresa che sarebbe venuta. Così, con il passar del tempo, interrogato sull'argomento rispondeva sempre con la medesima fiducia nel «sol dell'avvenire». Intanto, siccome non accadeva nulla di quanto appena previsto, si dilettava nel trovare aggettivi diversi per descrivere la ripresa che sarebbe di lì a poco arrivata. Così, da gennaio a marzo era «lenta». Il mese successivo anche questo aggettivo cade in disuso e poi a maggio, siccome il cielo si oscurava anziché aprirsi, la sua sicumera incomincia a traballare. A giugno, «Super Mario» riprende a descrivere la ripresa con un pizzico di pessimismo, trasformandola di colpo in «un po’ più debole del previsto». A Luglio vi è una pausa di riflessione. A inizio agosto la descrive «moderata e diseguale». Poi col ferragosto ha capito che la ripresa semplicemente non esisteva: crescita zero. Quindi nonostante l'apertura del rubinetto (alle banche), nulla è cambiato in Europa. Bravo, Mario, 7!

martedì 12 agosto 2014

Il gorilla è ancora libero



L'ultimo Presisdente e anmministratore delegato della defunta Lehman Brothers
Chi è quest'uomo dall'aria assai minacciosa? Non lo sapete? No-o? Poco male. Ebbene si tratta di Richard "Dick" Severin Fuld, Jr, nato il 26 Aprile 1946, a New York, da genitori ebrei, Richard Fuld Severin, Sr., e Elizabeth Schwab, di professione banchiere, meglio conosciuto come l'ultimo Presidente e Amministratore Delegato della Lehman Brothers (nota banca d'affari americana).
Questo banchiere ha goduto per otto anni consecutivi di compensi stratosferici, toccando punte superiori ai 100 milioni di dollari nel 2001 e nel 2005, prima di contribuire nel 2008 a fare entrare la sua compagnia nella storia con il più clamoroso crack a cui il sistema finanziario americano abbia finora assistito.
Ora, ci si aspetterebbe che "The Gorilla" (così lo chiamavano i suoi amici banchieri per la notevole mole di aggressività che metteva nel fare "affari") sia stato severamente punito dalle autorità americane. No, niente di tutto questo. Attualmente "the Gorilla" è a capo di un'altra società che, manco a farlo apposta, si chiama "Matrix Advisors"... vi ricorda nulla? Attraverso questa società il "Gorilla" elargisce profittevoli consigli su come arricchirsi (sulle spalle altrui) e perfino sulla "gestione del rischio". Uno scenario assai diverso, dunque, da quello che ci si potrebbe aspettare in casi del genere. Le scene degli impiegati disperati che mestamente lasciavano la sede di Lehman Brothers con gli scatoloni di cartone degli effetti personali in mano, ha mostrato quale fosse il destino degli impiegati di banca, non quello dei "banchieri" che, non a caso, vengono denominati "banksters". Questo neologismo, derivante dall'unione di Banker con Gangster, sembrerebbe infatti uscito dal cilindro di qualche cospirazionista d'oltreoceano; invece, neanche a farlo apposta, è stato coniato da uno dei più autorevoli settimanali londinesi in materia economica: "The Economist".
I banchieri, anzi i "banksters", allorquando sono costretti a "lasciare l'aero che precipita", hanno sempre a loro disposizione un "paracadute d'oro" che li preserva dalle cadute pericolose... Infatti, "cadono sempre in piedi...", sicché  da questi crack finanziari c'è sempre chi ci guadagna.


John Paulson, per es., comprando durante la procedura fallimentare gli attivi di Lehman, ha ricavato, dopo cinque anni, circa un miliardo di dollari. La stessa sorte non hanno avuto gli americani che hanno visto perdere alla fine della crisi quasi ventimila miliardi di dollari, oltre a 8,8 milioni di posti di lavoro andati perduti, con l'aggravante che tale crisi epocale potrebbe addirittura ripetersi.
"Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo".
George Santayana (da La vita della ragione)

domenica 3 agosto 2014

LA STRANA STORIA DELLA SOCIALIZZAZIONE

 

Durante la Repubblica Sociale, Mussolini pensò di coronare il progetto - tenuto a bagnomaria durante il Regime - di rivoluzionare il tessuto sociale ed economico italiano attraverso la cogestione delle aziende. Nella RSI la socializzazione avanzò però a fatica, osteggiata da ambienti dello stesso Fascismo, dagli industriali, dai tedeschi, dagli antifascisti. Tuttavia alcuni passi vennero fatti creando precedenti clamorosi - confinati nell’obblio nel dopoguerra - di collaborazione tra fascisti, comunisti e socialisti. Esperienze che le stesse sinistre - ufficialmente ostili alla socializzazione - cercarono di riproporre nel dopoguerra. Ma il vento era ormai cambiato per sempre. –
di Stefano Fabei

Il caos assoluto in cui l'8 settembre 1943 si ritrovo l'Italia costituì l'evento fondamentale di un processo storico che vide sciogliersi i legami della società politica con la società civile, dello Stato con la Nazione, determinando non solo la successiva divisione del Paese in due parti, ma anche l'esplosione della guerra civile. Il tragico momento costituì tuttavia per il Fascismo l'occasione per rilanciare con maggior forza,nel territorio della Repubblica Sociale Italiana, il progetto di rappresentare una (terza via> tra capitalismo e Comunismo: un ritorno alle origini rivoluzionarie. Nel mondo del lavoro la parola d’ordine fu <socializzazione>. Il termine, emerso già nei primi mesi della RSI e nel programma del Partito fascista repubblicano che nel novembre del ry43 aveva tenuto a Verona il suo primo, e ultimo, congresso, fu in modo ufficiale adottato, anche su sollecitazione di Nicola Bombacci, il 13 gennaio 1944, quando il Consiglio dei ministri di Salo approvi una  <Premessa fondamentale per la creazione della nuova struttura dell'economia italiana>. La repubblica del Duce prevedeva la partecipazione integrale del popolo in modo organico e permanente, alla vita dello Stato e il suo contributo <alla determinazione delle direttive, degli istituti e degli atti idonei al raggiungimento dei fini della Nazione con il suo lavoro, con la sua attività politica e sociale>. Secondo il 12°punto del Manifesto di Verona, in ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai avrebbero dovuto cooperare - attraverso una  conoscenza diretta della gestione - alla fissazione dei salari, nonché <all'equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi per parte dei lavoratori. In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali Commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo i Consigli di amministrazione con Consigli di gestione composti da tecnici e da operai con un rappresentante dello Stato. In altre ancora, in forme di cooperativa parasindacale.
  
  A pavolini
Era riconosciuta non solo l'importanza del capitale <produttivo>, che investiva moneta per creare l'impresa, ma anche quella di chi con il braccio e con la mente forniva elementi altrettanto fondamentali per l'attività economica e sociale.
In sintesi: né dominio della moneta, né espropri statali, bensì armonizzazione degli elementi in un rapporto di condivisione delle responsabilità, e degli utili, affinché nessuno si sentisse tanto superiore da ritenersi depositario del destino dell'impresa e, di conseguenza, della Nazione. Dopo aver dichiarato che la RSI assumeva la gestione diretta di aziende che controllavano i settori essenziali per l'indipendenza economica e politica del Paese, nonché di imprese fornitrici di materia prima o di energia e di altri servizi indispensabili al regolare svolgimento della vita economica nazionale, la sopra citata Premessa> affermava senza possibilità di equivoco che la gestione dell'azienda era socializzata. Tutti i lavoratori avrebbero preso parte all'amministrazione delle imprese a capitale pubblico tramite consigli di gestione, eletti da loro stessi e avrebbero deliberato sia sulle questioni riguardanti la produzione nel quadro del <piano unitario nazionale> sia sulla stessa <congrua> ripartizione degli utili. Per quanto riguardava le aziende a capitale privato, gli organi di amministrazione sarebbero stati integrati da rappresentanti dei lavoratori in un numero almeno pari a quello dei rappresentanti eletti dall'assemblea degli azionisti.

   Il 12 febbraio 1944 fu emanato il decreto sulla socializzazione delle imprese (pubblicato in seguito, il 3o giugno, sulla Gazzetta Ufficiale>) che limitava le aziende private da socializzare a quelle con almeno un milione di capitale o almeno cento operai. In merito agli utili da ripartire, dopo Ie assegnazioni di legge alla riserva e la costituzione di eventuali riserve speciali, era approvata una remunerazione del capitale conferito all'impresa in una misura non superiore a un massimo fissato ogni anno per i singoli settori produttivi dal Comitato dei ministri per la tutela del risparmio e I 'esercizio del credito. Gli utili,, detratte queste assegnazioni, sarebbero stati ripartiti fra i lavoratori in rapporto all'entità delle remunerazioni percepite durante I 'anno: questo compenso non doveva comunque superare il 3o per cento del complesso delle retribuzioni nette corrisposte ai lavoratori nel corso dell'esercizio. Con il decreto suddetto era disposto inoltre il primato in materia del ministro dell'Economia corporativa - il cui  titolare, Angelo Tarchi, era espressione della componente tecnocratica e mediatrice nei confronti degli ambienti industriali, e quindi oppositore di coloro che auspicavano sia l'immediata instaurazione dello <Stato del lavoro, sia il pieno superamento del sistema corporativo - tanto nell'immediato, con la supervisione dei nuovi statuti delle diverse categorie di imprese, quanto, in prospettiva, mediante la facoltà di procedere allo scioglimento dei consigli di gestione, di sostituire i vertici aziendali, di controllare la fase di passaggio dalla gestione privatistica a quella socializzata, e di commissariare le aziende di cui lo Stato ritenesse opportuno assumere la proprietà.

Angelo Tarchi
Angelo Tarchi (1897-1974) Ministro dell'Economia Corporativa

Con il decreto del 12 febbraio 1944,  la Repubblica Sociale Italiana si proponeva di <stare con il popolo, superando quell'andare verso il popolo> che era stato tipico del Regime. Se alla socializzazione guardarono con simpatia alcuni ambienti sindacalisti, sospetti e timori circa i suoi esiti e la sua rapida applicazione furono, più o meno tacitamente espressi, dagli ambienti conservatori. Ciò spiega il ritardo con cui il decreto fu pubblicato sulla <<Gazzetta Ufficiale>, in contemporanea con il decreto che
ne fissava al 3o giugno l’entrata in vigore. Un terzo decreto, datato 3o agosto 1944, dettò norme per una sua più sollecita attuazione. Malgrado il ro luglio e il 13 settembre fosse stata disposta la socializzazione delle aziende dell'IRI e del settore dei giornali e dell'editoria, i primi effettivi cambiamenti si  ebbero solo alla fine del ry44 Una settimana dopo l'ultimo bagno di folla ricevuto dal Duce a Milano e il discorso al Lirico, fu pubblicato il 22 dicembre il decreto con le norme attuative e integrative della socializzazione. Il documento, accogliendo le ragioni dei sindacalisti,
attribuiva maggiori poteri al sindacato, cui spettava il compito di soprintendere alle elezioni interne alle aziende; ai consigli di gestione, che potevano nominare il capo dell'impresa, convocare riunioni del consiglio e presiederle in mancanza del capo dell'impresa; ai rappresentanti dei lavoratori, nell'assemblea, non licenziabili né trasferibili in dipendenza dell'attività svolta nell’esercizio della loro carica, Il r9 gennaio 1945 fu istituito il ministero del Lavoro, retto da Giuseppe Spinelli, che prevedeva una Direzione generale per la socializzazione e assorbiva i poteri del ministero dell'Economia corporativa.  Soppresso quest'ultimo, Tarchi passò a reggere il nuovo ministero della Produzione industriale. La Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 1945 pubblicò il decreto sull’ordinamento della Confederazione generale del lavoro, della tecnica e delle arti, creata il 20 dicembre 1943. Questa doveva riunire le precedenti confederazioni per superare lo sbloccamento del 1928, mentre a fine dicembre del 1944 si era disposta la liquidazione delle confederazioni padronali.
Mussolini a milanoDall'inizio dell'ultimo anno di guerra presso il ministero del Lavoro si assistette a una frenetica attività socializzatrice. Le aziende socializzate sarebbero state 76, con rz9 mila dipendenti e 4.fl9 milioni di lire di capitale. Ancora oggi poco si conosce  in merito all'effettiva applicazione dei provvedimenti.  Ciononostante è possibile affermare, perlomeno nel caso della FIAT della maggioranza delle imprese socializzate, che la  fine del Fascismo giunse prima che le misure disposte per decreto dalle autorità repubblicane avessero un concreto impatto sulle realtà aziendali sul piano della predisposizione di statuti e decreti relativi alle singole imprese. Il progetto di  socializzazione della RSI naufragò per vari motivi, oltre che per il momento tardivo della sua messa in atto: determinanti furono le divergenze interne allo Stato fascista repubblicano riguardo a misure che rimasero inerti per molti mesi, in una situazione definita <rivoluzionaria>, ma tale più sul piano delle parole che su quello dei fatti. Decisive furono sia l’ostilità dei tedeschi, preoccupati per le possibili conseguenze nel campo della produzione bellica, e desiderosi di appropriarsi di macchine e materiali dell'industria italiana, sia la contrarietà degli esponenti di quest’ultima, i quali boicottarono, anche grazie ai legami con la grande industria germanica, i provvedimenti che pure fecero finta di approvare, cercando di rinviarli quanto più possibile. Se molti operai disertarono le elezioni delle Commissioni interne, è anche vero che a esse guardarono con interesse e per vari motivi certi ambienti della sinistra antifascista. Alcuni esponenti di quest'ultima in esilio all'estero erano rientrati in Italia, convinti che, liberato dai vincoli reazionari imposti dal regime, il Fascismo potesse realizzare finalmente le sue pagine di politica sociale più avanzata. Era il momento della <politica dei ponti> che vedeva alcuni antifascisti guardare con interesse alla repubblica del Duce; potremmo, fra i tanti, citare a proposito i fratelli Bergamo, rientrati dalla Francia in nome dei vecchi ideali sociali, repubblicani e antiborghesi. Alcuni rivoluzionari di sinistra ritennero che la politica delle <mine sociali> potesse qualificare agli occhi dei lavoratori l’ultimo Fascismo. A Terni nell'ultimo periodo della RSI, si assistette all'elezione delle commissioni di fabbrica, da cui nel dopoguerra sarebbero sorti i consigli di gestione, presi a modello dal più importante e rappresentativo sindacato italiano, la CGIL. Nella
città umbra il Fascismo volle giocare la carta delle commissioni interne abolite con il patto di Palazzo Vidoni (con il quale il 2 ottobre 1925 1l Regime aveva avocato a sé la rappresentanza sindacale con il consenso di Confindustria, che da quel  momento avrebbe avuto come referenti sindacali le Corporazioni fasciste e non più i liberi sindacati) e in questo capitolo della storia del sindacalismo entrarono in gioco anche i partiti di estrema sinistra. In principio la loro posizione ufficiale fu di <combattere in tutte le forme i sindacati fascisti e le loro organizzazioni anche facendo dimettere dalle commissioni interne legali i propri iscritti che esercitassero ancora tali funzioni>. Tuttavia questo non fu possibile per la mancanza in Umbria di organizzazione sistematica dell'antifascismo, come attesta la documentazione conservata nell'archivio del PCI. il fronte antifascista in questa regione, debole anche per le diffidenze esistenti al suo interno, accettò quindi che, accanto ai fascisti, e con il consenso delle autorità repubblicane, fossero eletti suoi elementi, comunisti, socialisti e anarchici.  Questa scelta finora occultata, perché imbarazzante, può essere spiegata con la disorganizzazione dei comunisti, con lo scarso numero dei componenti le loro cellule nelle acciaierie, con la diffidenza esistente tra le forze di sinistra, con la volontà - comune anche ai fascisti - di opporsi al prelevamento operato dai tedeschi dei macchinari e dei materiali industriali. Ci furono, soprattutto tra i comunisti, iniziali opposizioni e titubanze circa la presenza di loro uomini nelle liste dei candidati; poi, però, ai <compagni> occupati negli stabilimenti e nei cantieri giunse dal vertice del PCI la direttiva di nominare e far riconoscere dalla direzione le
Acciaierie terni
Le Acciaierie di Terni nel 1930
commissioni elette, di cui qualche loro elemento doveva far parte, per tentare accordi con gli organi direttivi degli stabilimenti <su un terreno antitedesco>, e collegarle al <comitato di partito dell’officina". Pertanto, quando il 1° marzo 1944, alla <Terni si svolsero le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nelle liste sia della categoria operai, sia della categoria impiegati, furono inclusi, con l'assenso dei sindacati fascisti, elementi comunisti, socialisti e anarchici. Loro obiettivi erano opporsi all'asportazione dei macchinari industriali da parte dei nazisti e inserirsi nel mondo delle rappresentanze sindacali da cui per anni erano stati esclusi.
Come avrebbe scritto in seguito Luigi Longo a Palmiro Togliatti, in vista dell'imminente liberazione, occorreva ricordare ai compagni che, appena fosse stato possibile alle masse controllare e dirigere le varie istituzioni operaie in questione,
essi ne avrebbero rivendicato il diritto: <Noi siamo contro oggi alle commissioni interne fasciste e ne boicottiamo con tutti i mezzi le elezioni, ma è evidente che domani, a liberazione avvenuta, procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie...u. Un implicito riconoscimento del fatto che anche l'odiata dittatura aveva compiuto qualcosa di buono per i lavoratori. Negli stabilimenti  siderurgici della <Terni>, accanto ai sindacalisti Maceo Carloni e Faliero
Rocchiccioli, firmatari nel r94o del contratto dei metalmeccanici e ad altri fascisti come l'operaio Bruno Marini e l'impiegato Alvaro Garzuglia, furono eletti il socialista
Giuseppe Scalzone per la categoria impiegati; per la categoria operai: Ettore Secci, già socialista, poi sindacalista fascista, quindi comunista; l’ex confinato socialista Umberto Bisci; l’anarchico Gioacchino Orientali e Luigi Campagna, futuro assessore comunista al Comune di Terni: tutti noti per il loro passato sovversivo. L'esperimento ternano fu attuato nonostante le disposizioni impartite, qualche giorno dopo, 717 marzo, dal commissario nazionale del lavoro, per impedire che fossero chiamati a rappresentare le maestranze lavoratori non iscritti. Il decreto proibiva a chiunque di assumere per qualsiasi motivo la rappresentanza di maestranze industriali, la cui tutela, è, a norma delle vigenti leggi, di esclusiva competenza delle organizzazioni
Manifesto antifascista
Manifesto Antifascista che bolla come truffa la socializzazione
sindacali legalmente riconosciute>. Ma nelle settimane precedenti la liberazione di Terni, preoccupati dalla tutela del lavoratore e dalla volontà di salvaguardare l'esistenza delle acciaierie, nelle commissioni di fabbrica lavorarono a stretto contatto fascisti e antifascisti. Cosa indusse molti di questi ultimi ad accettare tale politica di collaborazione?  Opportunismi a parte, forse il timore che i tedeschi riuscissero a rovesciare le sorti del conflitto in corso, sicuramente la debolezza di cui soffriva il fronte antifascista, escluso per 20 anni dal sindacato, nel quale aspirava a tornare con un ruolo di rilievo, la volontà di opporsi all'asportazione dei macchinari messa in atto dai tedeschi.  Ci fu forse anche chi si illuse che la socializzazione potesse segnare una svolta nei rapporti tra datori di lavoro e prestatori d'opera, permettendo una maggiore giustizia sociale.
Al di là di ciò che poterono fare, anche per ragioni di tempo, gli eletti nelle commissioni di fabbrica a Terni, va sottolineato come quanto qui avvenuto sia significativo e non a caso abbia costituito un capitolo imbarazzante per una certa storiografia che ha preferito sorvolare in merito. Tornando, più in generale, al progetto sulla socializzazione elaborato durante la RSI, va detto che esso non sarebbe
andato del tutto perduto, passando parzialmente in eredità ai partiti antifascisti. Preoccupato di fare salvo il principio della partecipazione operaia alla gestione delle aziende, pur abrogando la regolamentazione sociale fascista, il Comitato di liberazione nazionale per l'alta Italia, fin dal 17 aprile 1945 predispose un decreto che utilizzava lo schema tecnico dei consigli di gestione creati dalla nazionalizzazione di Mussolini. Il CLNAI, abrogando la legislazione della RSI in materia di socializzazione delle imprese, dichiaro decaduti gli organi da questa creati, sancendo il principio della partecipazione agli utili e alla gestione delle aziende attraverso <nuovi e democratici> consigli di gestione; condannò gli <obiettivi antinazionali> della socializzazione con cui il Fascismo aveva tentato di <aggiogare le masse lavoratrici dell'Italia occupata  al servizio e alla collaborazione con l’invasore tedesco>; riconobbe <l'alta sensibilità politica e nazionale delle maestranze dell'Italia occupata che, astenendosi in massa da ogni partecipazione alle elezioni dei rappresentanti nei consigli di gestione, hanno manifestato la loro chiara comprensione del carattere antinazionale e demagogico della pretesa " socializzazione" fascista>.
Intenzione del CLNAI era <assicurare, all'atto della liberazione dei territori ancora occupati dal nemico, la continuità e il potenziamento dell'attività produttiva, nello spirito di un'effettiva solidarietà nazionale>. Il decreto abrogo la socializzazione affidando a nuovi consigli di gestione, con poteri identici ai precedenti, l’amministrazione delle aziende, rimandando al governo nazionale il compito di regolamentare la materia. Il decreto del CLNAI, accettato a malincuore dagli operai, non ricevette tuttavia l'approvazione degli angloamericani.
Se il più importante sindacato, la comunista CGIL, il 23 settembre 1945 approvò un documento in cui si parlava di <diretta partecipazione delle maestranze alla gestione
dell'azienda, realizzabile ad opera dei consigli di gestione>, l'atteggiamento ostile degli imprenditori non permise di andare oltre le buone intenzioni e un progetto di legge Morandi-D’Aragona sui consigli di gestione non fu mai approvato, e la materia continuò a essere disciplinata attraverso accordi aziendali da cui la gestione vera e propria era esclusa. Nel novembre del ry47  fu decisa l'istituzione di una commissione
speciale con il compito di elaborare la <Carta> dei consigli di gestione, ma non fu nemmeno eletta. Laddove istituiti, i consigli sopravvissero fino all'inizio degli anni Cinquanta, solo come semplici organismi fiancheggiatori dei sindacati. Fu questo il caso delle acciaierie ternane dove già alla fine del ry44 era stato stipulato un patto
per la partecipazione diretta di operai, tecnici e impiegati alla gestione dell'impresa. Il z9 gennaio ry45, 1l leader sindacale comunista Giuseppe Di Vittorio, parlando di questo patto al congresso della CGIL, affermo che esso apriva ai lavoratori nuovi orizzonti, dal momento che affermava il principio  che il progresso produttivo non si
svolge come qualcosa di estraneo ai lavoratori, non è qualcosa che interessa esclusivamente il capitalista ed è in funzione soltanto del profitto, ma è qualche cosa cui è legato l’interesse della società, l’interesse del Paese, per cui i lavoratori stessi debbono partecipare alla gestione delle aziende>. Il patto di Terni divento, per il sindacato confederale del dopoguerra, il modello da imitare e da applicare alle altre
imprese italiane. Era tuttavia destinato a esaurire la propria carica innovativa per il sopraggiungere di circostanze sfavorevoli legate alla crisi della produzione, alla disoccupazione, alla ricostruzione del secondo dopoguerra.
Nell’Assemblea costituente Tito Oro Nobili, deputato socialista di Terni, ricordò l’esperienza dei consigli di gestione nella sua città, proponendo un emendamento al 43" articolo della Costituzione e chiedendo di inserire, laddove si parlava del diritto dei lavoratori a partecipare alla gestione delle aziende, <per mezzo dei propri rappresentanti in un comitato paritetico con i rappresentanti dell'impresa>. Poi però lo ritiro dichiarando di votare il testo della Commissione per non causare divisioni. Con la vittoria alleata e l’ingresso dell'Italia nell'area sotto l'egemonia statunitense era ormai prevalsa una linea politica neoliberista con cui si torno alla situazione che il ventennio non era riuscito a modificare, alla divisione tra capitale e lavoro, tra economia ed etica. Il sindacato fu ricondotto nell'ambito dell'associazionismo <libero e volontario>, con funzioni di rivendicazione e contestazione nei confronti sia della classe imprenditoriale sia dello Stato. Il sogno di una confederazione unitaria del sindacalismo italiano era destinato a non realizzarsi mai più.
Stefano Fabei

Nota: articolo estrapolato dalla rivista Storia in rete, n.105-106, Lugio-Agosto 2014

martedì 29 luglio 2014

Le dimissioni del Papa. Nota al n. 473 di “Chiesa viva”

Ricordando la figura di don Luigi Villa, fondatore e direttore della rivista “Chiesa viva”, in occasione della sua morte (novembre 2012), Sodalitium aveva già avuto modo di precisare ai propri lettori quali fossero, a nostro parere, pregi e difetti, luci ed ombre della rivista cattolica bresciana fondata nel lontano 1971. Dopo la scomparsa di don Villa, purtroppo, gli aspetti a nostro parere criticabili di questa rivista non sono diminuiti, ma aumentati.

Siamo però rimasti veramente stupiti nel leggere – nel numero 473 di luglio-agosto 2014 – un articolo a firma di “Un alto prelato” così intitolato: L’ “antipapa” “sedicente Papa Francesco”!
Secondo l’anonimo articolista, quindi, Jorge Mario Bergoglio sarebbe un “sedicente Papa”, anzi, un “antipapa”: Una bella novità per “Chiesa viva”, che non ha mai seguito il cosiddetto sedevacantismo, ed ha sempre riconosciuto la legittimità degli occupanti della Sede Apostolica dopo il Concilio Vaticano II.
Ma perché, secondo Chiesa viva, il “sedicente papa Francesco” sarebbe un “antipapa”?
Perché – sempre secondo Chiesa viva – le “dimissioni di S.S. Benedetto XVI sono ‘res nullius’ (sic) e quindi l’elezione del cardinale Jorge Mario Bergoglio S.J. è non solo illecita ma nulla”.
Lasciando da parte gli strafalcioni di latino, ci sembra di capire che a Chiesa viva non si è diventati sedevacantisti, ma si pensa che il legittimo Pontefice sia “Sua Santità” Benedetto XVI, (come se Joseph Ratzinger non fosse modernista quanto Jorge Bergoglio).
Ma c’è di peggio. Perché, secondo Chiesa viva, le dimissioni di Benedetto XVI sarebbero invalide? Semplicemente, perché Chiesa viva nega che un Papa possa validamente rinunciare al papato. A sostegno di quest’affermazione, l’ “alto prelato” cita il n. 99 della Constitutio de Sede Apostolica Vacante promulgata da Papa Pio XII, dove si direbbe che “il Romano Pontefice NON può dimettersi”. Peccato che la Costituzione Vacantis Apostolicae Sedis al n. 99 non dice assolutamente quello che gli attribuisce il –possiamo pensarlo – sedicente “alto prelato”: Pio XII si limita a pregare (rogamus) l’eletto dal Conclave a non rifiutare l’elezione, ma ad accettarla, confidando nell’aiuto di Dio. Invece, il codice di diritto canonico promulgato da Benedetto XV, al canone 221, stipula: “nel caso di rinuncia del Romano Pontefice, per la validità della medesima rinuncia non è necessaria l’accettazione dei Cardinali o di chiunque altro”.
Quindi, il Romano Pontefice può rinunciare al pontificato.
Coerentemente con il proprio errore, invece, Chiesa viva nega la validità della rinuncia al papato di San Celestino V (affermando falsamente che in seguito fu barbaramente ucciso) e nega la validità dell’elezione del suo successore, Bonifacio VIII, nel 1294, facendo proprie le calunnie di Filippo IV, Re di Francia, e degli eretici medioevali detti fraticelli e spirituali.
Se poi ci si chiede a chi giovino affermazioni così strampalate e infondate, e altre dello stesso conio, l’unica risposta possibile è: ai modernisti. Infatti, esse gettano ingiustamente, sui difensori della Tradizione della Chiesa, il discredito e il ridicolo.
Ai fedeli disorientati, Sodalitium ricorda che – con la propria rinuncia – Joseph Ratzinger non è più neppure l’eletto del Conclave; che al suo posto è stato eletto Jorge Bergoglio; e che Jorge Bergoglio, esattamente come Joseph Ratzinger prima di lui, non può essere formalmente Papa – per cui Gesù Cristo Nostro Signore, Capo della Chiesa, non è con lui nel vivificarla e governarla – in quanto, oggettivamente e abitualmente non ha l’intenzione di procurare il fine e di realizzare il bene della Chiesa. 
In questa nostra nota critica non c’è malevolenza alcuna per chi, come noi, si sforza di amare la Chiesa e combattere il modernismo; e ci auguriamo che tutti i buoni cattolici restino uniti nella carità e nella verità per continuare la buona battaglia (con un po’ di prudenza in più). 


tratto dalla rivista Sodalitium

lunedì 16 giugno 2014

Delitto Matteotti: ecco il vero retroscena


becco-giallo-1924Con il noto discorso del 3 gennaio 1925 Benito Mussolini si era assunto la responsabilità del delitto Matteotti e, osserva Giorgio Galli, «questa assunzione di responsabilità fu, da allora, interpretata come un’ammissione di colpevolezza per l’assassinio di Matteotti». Attorno a questa interpretazione ruotano ancora oggi le principali ipotesi storiografiche tutte incentrate sulla vendetta politica e sul complotto affaristico ma tutte decontestualizzate dalla situazione politica del tempo. Novant’anni dopo è però possibile ricomprendere il delitto Matteotti calando la drammatica vicenda nel contesto storico e politico in cui essa maturò a cominciare dalle famose elezioni del 1924.

Alle elezioni del 6 aprile 1924 i partiti della sinistra avevano conseguito un notevole risultato, tenuto conto del nuovo sistema elettorale e delle violenze che avevano colpito la campagna per il voto. I socialisti unitari di Giacomo Matteotti avevano ottenuto ventiquattro seggi, ventidue i socialisti massimalisti, diciannove i comunisti, sette i repubblicani. Il voto complessivo conseguito dai partiti della sinistra segnava la sconfitta di Mussolini e del suo tentativo di "fascistizzare" le masse operaie e contadine; il risultato elettorale fascista, nonostante le lusinghe di Mussolini ai lavoratori, era decisamente sbilanciato a destra verso i datori di lavoro, gli agrari e gli industriali.

Aldo FinziMatteotti aveva vinto a sinistra, Mussolini aveva trionfato a destra; ma entrambi avevano adesso un problema. Mussolini intendeva sganciarsi dalla destra economica; Matteotti intendeva bloccare la concorrenza a sinistra dei comunisti che, peraltro, insieme ai massimalisti di Giacinto Menotti Serrati potevano contare una forza parlamentare che raddoppiava quella dei socialisti unitari. Il governo Mussolini, con l'avallo di economisti come Luigi Einaudi, stava orientando la sua politica economica verso una richiesta di consistenti prestiti agli Stati Uniti d’America. Mussolini intendeva trattare prestiti a lungo termine con finanziamenti erogati direttamente al governo o alle aziende senza il tramite delle banche, al fine di ricondurre l'economia nazionale al controllo politico sottraendola così al potere bancario. Giuseppe Toepliz, amministratore delegato della potente Banca Commerciale Italiana, insieme agli industriali gravitanti nella sua orbita e interessati agli appalti dello Stato, erano invece decisamente contrari che i prestiti fossero gestiti direttamente dal governo. Nel governo, il sottosegretario al ministero degli Interni Aldo Finzi, genero del potente banchiere romano Clementi e legato a Toeplitz, tutelava gli interessi della filiera bancario-industriale. Per Mussolini, dunque, sganciarsi dalla destra economica significava liberarsi dall'opposizione del sistema bancario alla sua politica economica, ma per fare questo era necessario spostare a sinistra L'asse del governo.

A questo punto il problema di Mussolini si aggroviglia con quel1o di Matteotti. A sinistra, infatti, i socialisti di Matteotti avevano dimostrato durante la campagna elettorale un certo vitalismo, riuscendo a intercettare il voto anche del ceto medio specie nel settentrione. Analizzando questo dato e ponendolo in relazione al diniego del PSU di aggregarsi al <fronte unico> proposto alla vigilia delle elezioni dai comunisti e respinto da Matteotti, il comunista Palmiro Togliatti affermava che <gli unitari vengono a costituire niente altro che una forza di riserva della borghesia, un'ala del Fascismo>.

L'accusa di filofascismo formulata da Togliatti metteva in difficoltà il partito di Matteotti nella competizione con i comunisti e i massimalisti e di fronte al proletariato italiano. Matteotti doveva reagire. E lo fece con il famoso discorso del 30 maggio 1924 con il quale chiese I' invalidamento delle elezioni accusando i fascisti di violenze e brogli elettorali.  Quel discorso - ha scritto De Felice - intendeva dimostrare <<un nuovo modo di stare all’opposizione, più aggressivo, più intransigente, violento addirittura ma se si tiene conto del quadro politico complessivo, allora le parole di Matteotti non erano rivolte soltanto contro i fascisti ma anche contro i comunisti. Il nuovo modo di fare opposizione inaugurato da Matteotti con il suo discorso, insomma, aveva un duplice scopo: chiarire la posizione dei socialisti unitari di fronte al Fascismo e contemporaneamente svuotare di ogni significato l'accusa di filofascismo lanciata dai comunisti. Ancora De Felice sostiene che con il discorso del 3o maggio Matteotti bloccava L'ennesimo tentativo compiuto da Mussolini dopo il 6 aprile di aggregare i socialisti unitari e i confederali al suo nuovo governo. Tuttavia, rileggendo attentamente il testo, si nota che dopo un micidiale attacco al Partito Nazionale Fascista e alla sua condotta elettorale, quel discorso si conclude con un severo appello al governo; rivolgendosi direttamente a Mussolini, infatti, Matteotti afferma: <Noi sentiamo tutto il male che all'Italia apporta il sistema della violenza; abbiamo lungamente scontato anche noi pur minori e occasionali eccessi dei nostri. Ma appunto per ciò, noi domandiamo alla maggioranza che essa ritorni all’osservanza del diritto.  Voi che oggi avete in mano il potere e la forza, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio di tutti gli altri essere in grado di fare osservare la legge da parte di tutti. Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l ‘autorità dello Stato e della legge. Fatelo, se siete ancora in tempo, altrimenti voi, sì, veramente rovinate quella che è l'intima essenza, la ragione morale della Nazione>. E' in questo brano il vero significato politico dell'intero discorso. Matteotti, infatti, realisticamente non chiede le dimissioni del governo bensì si appella a esso sfidandolo a ristabilire l’autorità dello Stato e a salvare la ragione morale della Nazione.

Mussolini E farinacci

Mussolini accetta la sfida e replica a Matteotti con il noto discorso del 7 giugno 1924 nel quale, dopo una formale difesa d'ufficio dello squadrismo, si rivolge direttamente ai socialisti unitari affermando: 
"non si può rimanere sempre estranei; qualche cosa, bene o male, bisogna dire o fare, una collaborazione positiva o negativa deve esserci (...) E' un quesito che pongo alla vostra coscienza; voi lo risolverete; non tocca a me risolverlo"
Questo è il momento culminante dell'intera vicenda. Le intenzioni di Mussolini di proseguire nella ricerca della collaborazione con i socialisti unitari anche nel 1924 sono state ricostruite da Renzo De Felice nella sua biografia del capo del Fascismo. Ovviamente le intenzioni di Mussolini erano state intercettate da quei settori interni al Fascismo legati al mondo finanziario e ostili alla collaborazione tra il governo e i socialisti unitari. Si tratta degli stessi settori che avevano tentato di sabotare nei primi del 1924 il riconoscimento della Russia bolscevica da parte dell'Italia, ratificato da Mussolini il z febbraio; tentativi falliti perché smascherati dal deputato comunista Nicola Bombacci il quale, documenta Petacco, li denunciò in aula intervenendo a favore del riconoscimento e del trattato commerciale con la Russia che - disse - avrebbero contribuito a <difendere la nostra economia e liberarla dalla schiavitù delle grandi compagnie petrolifere>. E' questo un elemento da tenere in considerazione nel contesto politico della vicenda: nel :-9z4le relazioni con la Russia consentivano a Mussolini di non impensierirsi più di tanto per i comunisti italiani i quali, semmai, insieme ai socialisti massimalisti, potevano costituire un problema per i socialisti unitari se avessero accettato la collaborazione col governo.  Ma quale atteggiamento avrebbero assunto i comunisti, i massimalisti e il proletariato italiano se questa collaborazione fosse nata in seguito ad un radicale mutamento di tutta la politica mussoliniana determinata da una clamorosa azione politica provocata dai socialisti unitari? Ecco un ipotesi che non è mai stata considerata dalla storiografia: cosa sarebbe accaduto se Matteotti, che già il 3o maggio aveva sfidato il governo a ristabilire I 'autorità dello Stato, avesse lir giugno denunciato al governo il coinvolgimento di settori identificati del Fascismo e dello Stato in un losco traffico di corruzione? Si sarebbe inevitabilmente creata una situazione d'emergenza. A quel punto il governo sarebbe stato costretto a intervenire chiedendo la collaborazione straordinaria di quelle personalità e di quelle forze che avevano contribuito a smascherare i corrotti all'interno del Fascismo e dello Stato. La collaborazione tra Matteotti e Mussolini, determinata così da una situazione emergenziale, sarebbe stata allora giustificata di fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale, davanti al proletariato e in faccia ai comunisti, ai massimalisti,'ai fascisti e agli antifascisti che sarebbero stati costretti a valutare il fatto nuovo e a prendere una posizione.

Matteotti alla Camera

Tutto questo presuppone una questione che la storiografia non ha mai osato affrontare: Matteotti e Mussolini potevano organizzare insieme il determinarsi di una situazione d'emergenza che avesse  giustificato la loro collaborazione al governo della Nazione? C'è da considerare, innanzitutto, su quali elementi storici dovrebbe reggersi tale nuova questione.
Il primo elemento è costituito dal rapporto politico tra i due protagonisti: Matteotti e Mussolini. Sul numero di gennaio di questa rivista (vedi <Matteotti e Mussolini, vite parallele,, su Storia In Rete> n. 99) si è già visto che i due uomini politici avevano alle spalle una comune militanza socialista segnata da divergenze pratiche ma da convergenze teoriche e che pur schierati su fronti avversi, avevano collaborato nei momenti straordinari della storia del Socialismo italiano; i due ex compagni, carissimi nemici, avrebbero potuto certamente ritrovarsi ancora una volta insieme di fronte ad una straordinaria emergenza che riguardava la Nazione.
Il secondo elemento è rappresentato dalla politica di collaborazione perseguita da Mussolini tra il 1922 e il 1924 e avversata da Matteotti.
Nel 1924, però, il quadro politico che faceva da sfondo era cambiato rispetto al t9zz. Mussolini adesso era presidente del Consiglio con una maggioranza ampia e che, grazie al sistema maggioritario, si estendeva ben oltre i confini del suo partito.
Alla Camera e al Senato c'era un’opposizione costituzionale che sovente collaborava con il governo. Matteotti, in quanto segretario del maggior partito della sinistra, era il nuovo Leader della minoranza. Matteotti però, avverte Mimmo Franzinelli, adesso era anche un uomo solo: <segretario di un partito i cui dirigenti propendono - tranne poche eccezioni - per una linea di compromesso>; una condizione rilevata anche da Mauro Canali il quale ha osservato che l'avversione alla collaborazione (<aveva finito per rendere politicamente precaria la sua carica alla segreteria del partito, perché gli aveva inimicato ampi settori di esso, urtando personaggi, come gli organizzatori sindacali, tutti collaborazionisti, che godevano d un indiscusso potere>. Lo stato d'animo in cui si trovava il deputato socialista in quel frangente, mai tenuto in considerazione dalla storiografia, non può non avere influito nelle sue riflessioni sulla situazione politica personale e complessiva. E' possibile che un uomo politico come Matteotti, nelle condizioni anche intime in cui si trovava dentro e fuori il suo partito, non abbia tenuto conto di tutte le possibili soluzioni tese a superare il suo isolamento e a definire I 'assetto politico italiano compreso la scelta della collaborazione, nel 1924 ancora circolante all'interno del suo partito e del sindacalismo confederale?
Avanti sul delitto matteottiIl terzo elemento riguarda la natura del delitto e si ricava dalla trama stessa dell'intera vicenda così com'è stata ricostruita dagli atti processuali e dalla storiografia: il delitto fu politico, ispirato dalla vendetta e dettato dall'esigenza di bloccare la denuncia di un colossale scandalo affaristico che coinvolgeva una parte del mondo politico e di quello finanziario. E' pero necessario riesaminare la natura del crimine da una prospettiva diversa da quella in cui fin qui è stata osservata. Il delitto fu politico ma non va collocato nell'ambito del conflitto tra Fascismo e Antifascismo bensì nel  più ampio contesto della lotta combattuta in quel momento tra quelle forze politiche ed economiche che auspicavano un radicale mutamento della scena politica nazionale, e quelle che invece intendevano lasciare immutato lo scenario italiano; e questi due schieramenti erano trasversali al Fascismo e all’Antifascismo. Il delitto fu ispirato dalla vendetta ma non del fascista Mussolini contro l'antifascista Matteotti bensì dalla vendetta dei gruppi fascisti contrari alla svolta, contro lo stesso Mussolini che quella svolta intendeva praticare. Erano gli stessi gruppi che nel 1922 avevano sequestrato il repubblicano Torquato Nanni, amico di Mussolini e di autorevoli esponenti socialisti, per eliminare, spiega De Felice, <un tramite tra Mussolini ed i riformisti> nello stesso momento in cui erano in corso le trattative per una collaborazione dei socialisti con il governo nato dalla marcia su Roma. Del resto, se nel caso della morte di Piero Gobetti per esempio, , esiste una prova documentale della responsabilità di Mussolini, che consiste nel telegramma da questo inviato al prefetto di Torino per rendere <impossibile la vita> all'intellettuale liberale, nel caso di Matteotti non esiste alcuna prova concreta né di un eventuale ordine scritto né di un eventuale ordine a voce. Le frasi incriminate attribuite a Mussolini dagli atti processuali e dalla storiografia provengono dai memoriali di alcuni imputati ma i memoriali, come insegnava Marc Bloch, non costituiscono una fonte storica attendibile.Sinclair Oil
Il delitto fu dettato quindi dalla necessità di impedire a Matteotti di rivelare i loschi affari di quella che è stata definita <la banda del Viminale>. Anche qui è stato chiamato in causa Benito Mussolini e addirittura il fratello Arnaldo, arruolati tra i mandanti sulla base dei soliti memoriali e di tutta una serie di congetture a cominciare dalle presunte tangenti che sarebbero state intascate dai fratelli Mussolini. Tuttavia, a oggi, non esiste una prova concreta del coinvolgimento dei fratelli Mussolini nel malaffare che intendeva svelare Matteotti. Lo stesso deputato socialista, del resto, né per iscritto né a voce ha mai potuto rivelare i nomi dei corrotti, mentre ha anticipato e indicato I 'identità del corruttore nella compagnia petrolifera americana Sinclair Oll. Che <Il Popolo d'Italia> e i fratelli Mussolini fossero sovvenzionati, è stato storiograficamente accertato e documentato; in proposito, però, analizzando le sovvenzioni ottenute dal giornale fascista tra il ry24 e il 1928, Marcello Staglieno ha evidenziato che non figura alcun finanziamento erogato o riconducibile alla Sinclair Oil. La vicenda dei rapporti tra Mussolini e la Sinclair Oil, del resto, mostra uno schema molto più articolato e complicato di quello adottato dalla storiografia. Al primo punto si trova la necessità dell'Italia di perseguire negli anni Venti una seria politica dei petroli attraverso un altrettanto necessario approvvigionamento dall’estero per coprire il fabbisogno nazionale. Al secondo punto compare la possibilità alternativa del trivellamento sul territorio nazionale il cui costo è pero stimato, in una relazione del 18 luglio 1923 presentata a Mussolini dal ministro dell’Agricoltura Giuseppe De Capitani, nella somma di 200 milioni. Al terzo punto la proposta De Capitani s'infrange sul macigno del deficit di bilancio dello Stato italiano. Al quarto punto compare finalmente la Sinclair OiI, venuta fuori dai contatti tra l’ambasciatore italiano in America Gelasio Caetani e il direttore dell'Ufficio delle Miniere americano Forster Bain. I contatti cominciano in America nel gennaio r9z3 e s'intensificano con il coinvolgimento di emissari della Sinclair. Con il successivo coinvolgimento del ministro De Capitani, i contatti mutano in vere e proprie trattative: incoraggiate dai comunicati stampa di Cesare Rossi, il responsabile della comunicazione della Presidenza del Consiglio, sostenute dal quotidiano <Il Corriere italiano> di Filippo Filippelli e perorate anche dal giornalista Filippo Naldi. E' a questo punto che entra in scena Mussolini il quale nel febbraio 1924, tanto inaspettatamente quanto energicamente, tronca ogni trattativa con la Sinclair Oil e decide, aggiunge Staglieno, di avocare <<a sé ogni decisione sulle concessioni petrolifere>.
Ci sono due eventi che concorrono a spiegare la decisione presa dal Capo del governo. Il primo è costituito dal fatto che proprio nel febbraio t924, come già scritto, Mussolini riconosce de jure l'Unione Sovietica; e il riconoscimento segna una svolta non soltanto nella politica estera e commerciale ma anche nella politica italiana dei petroli. Come documenta Carlo Lozzi, infatti, nei primi quindici mesi in cui fu in vigore il trattato, l'Italia aveva importato dalla Russia <per 19 milioni di lire, principalmente petrolio e prodotti petroliferi>. Il secondo si svolge proprio in occasione della politica di avvicinamento all'Unione Sovietica, quando Mussolini scopreun difetto negli ingranaggi della sua macchina governativa. Il deputato comunista Bombacci, come già scritto, aveva denunciato in aula un complotto all'interno del governo per impedire il trattato; rivolgendosi a Mussolini, insinuo: <Lei sa, signor presidente, che proprio la settimana scorsa a Mosca sono state presentate delle precise condizioni per concludere il trattato? Io temo che non lo sappia. Io temo che lei non venga informato con soverchia sollecitudine. Io temo che l'Italia non abbia le mani libere per trattare!>. Mussolini, scrive Petacco, avvio subito delle indagini e scoprì che i documenti inviati da Mosca, cui accennava Bombacci, erano stati effettivamente occultati; evidentemente, chi intendeva sabotare  la trattativa era in grado di manomettere la documentazione destinata al Capo del governo. L’intera vicenda fornisce una chiave di lettura - fin qui sottovalutata dalla storiografia - delle dinamiche politiche ed economiche che si svolgono nel 1924, e cioè che la politica mussoliniana verso la sinistra, nazionale e internazionale, era effettivamente tenuta sotto controllo e ostacolata attraverso un'infiltrazione operante persino all'interno di Palazzo Chigi.

Allo stato dei fatti non esiste una prova formale e definitiva che identifichi in Benito Mussolini il mandante dell'assassinio di Giacomo Matteotti. Che il <cerchio magico intorno a Mussolini fosse profondamente inserito in un vorticoso giro di tangenti non significa, fino a prova contraria, che Mussolini ne fosse coinvolto. Che il famigerato Dumini fosse stato arrestato a Trieste per traffico d'armi verso la Jugoslavia e Mussolini sia intervenuto in suo favore per chiudere la faccenda, nello stesso momento in cui egli era impegnato nelle trattative con la Jugoslavia per definire la questione di Fiume, non prova alcuna complicità ma dimostra l'esigenza di bloccare quello scandalo che poteva compromettere l'accordo tra i due Stati poi firmato a Roma nel gennaio 1924. Che dei faccendieri versino somme a quella presidenza del Consiglio infiltrata e sottoposta a controllo, non significa che il beneficiario fosse il Capo del governo e non chi, invece, agiva alle sue spalle. Ha ragione, dunque, lo storico Pierre Milza quando sull'intera vicenda scrive: <per quanto serie siano le presunzioni di colpevolezza avanzate da Mauro Canali, non mi pare che si possa decidere con certezza, in mancanza di una prova formale e definitiva>. Se ancora oggi si è nel campo delle presunzioni e delle ipotesi, allora è possibile presumere e ipotizzare una diversa versione dei fatti non in contrasto con gli elementi che compongono la vicenda.

NIcola Bombacci CCCP

Alla luce di questa nuova prospettiva è possibile quindi ipotizzare che le cose siano andate così: è presumibile che Mussolini abbia pensato nel r94 di chiedere la collaborazione di Matteotti e che le carte dell'affare Sinclair, se rese pubbliche, avrebbero potuto giustificare davanti all’opinione pubblica la collaborazione tra i due ex compagni. Canali scrive che Matteotti comincio a interessarsi dell'affare Sinclair  durante il suo breve viaggio segreto in Inghilterra, nell'aprile 1924; il deputato socialista, dunque, ricavava le sue informazioni nello stesso momento in cui I'ex socialista Mussolini e il laburista Ramsay Macdonald, primo ministro britannico, dialogavano per dirimere la questione dell'Oltregiuba (la striscia di territorio fra Somalia e Kenya ceduta dagli inglesi alla colonia italiana NdR) e del Dodecaneso: è presumibile che in tale frangente si sia verificato un passaggio d'informazioni, se non di documentazioni, sulla questione petrolifera italiana che interessava anche agli inglesi (su questo punto si veda anche l'articolo successivo, alle pp. 24-35 NdR). Potrebbe sembrare  impossibile una collaborazione fra  Matteotti e Mussolini nel 1924, eppure un precedente esiste e risale al febbraio 1923 quando Gregorio Nofri, del comitato centrale del PSU e amministratore del giornale del partito <La Giustizia>, avviò trattative con Sandro Giuliani, capo redattore de (Il Popolo d'Italia> e uomo di fiducia di Mussolini, su una  possibile intesa tra il Duce e i socialisti unitari. Filippo Turati, come Mussolini era al corrente di tali contatti e, spiega De Felice, <il che non solo era vero, come dimostra la corrispondenza di quei giorni tra Turati e la Kuliscioff (dalla quale appare che lo stesso Matteotti aveva consentito all'incontro Nofri-Giuliani), ma era  ancora solo una parte della verità. Da una lettera della Kuliscioff del 13 febbraio 1923 si arguisce infatti che il contatto, sollecitato dai fascisti, doveva stare molto a cuore a Mussolini che pare si fosse dimostrato disposto a recarsi in segreto a Milano in aereo, probabilmente per trattare personalmente  e a piu alto livello>. Quel dettaglio sul consenso di Matteotti alle trattative, posto tra parentesi da De Felice, rende presumibile che quei contatti, interrotti nel 1923, fossero ripresi nella primavera del rgz4, in un contesto politico cambiato nel quale, sulla base della questione morale, sarebbe stato possibile raggiungere I'intesa sulla collaborazione tra Matteotti e Mussolini.

E' presumibile anche che Velia Matteotti fosse al corrente della collaborazione tra il marito e Mussolini e questo giustificherebbe il suo comportamento dopo il crimine.
Velia rimase in Italia con i figli, non seguì gli antifascisti nell'esilio, e la famiglia Matteotti ricevette segretamente e costantemente da Mussolini un consistente sostegno economico. Mauro Canali ha documentato tali finanziamenti criticando il comportamento della vedova. Quelle somme, però, non servirono a pagare il silenzio di Velia Matteotti com'è stato affermato; dimostrano, semmai, che lei mai ritenne Mussolini responsabile del delitto perché probabilmente sapeva qualcosa che escludeva Mussolini da ogni responsabilità. Posto che questo straordinario <qualcosa> fosse la collaborazione tra Matteotti e Mussolini, e che Mussolini avrebbe ottenuto dalla collaborazione un risultato storico sul piano nazionale e internazionale, cosa sarebbe rimasto a Matteotti? Anch'egli avrebbe conseguito un eccezionale risultato storico, sul piano del Socialismo italiano e mondiale; 1o spiega lo stesso Mussolini quando dichiara, negli anni Trenta, al giornalista Yvonne De Begnac: <noi avevamo interesse a che l'onorevole Matteotti, il più solido fra gli anticomunisti italiani, proseguisse la lotta per l'autonomia e per la riunificazione del Socialismo italiano>. Un governo formato dalla collaborazione tra Matteotti e Mussolini e nato dalla questione morale, mentre I’Italia era in sintonia con l'Unione Sovietica così  come con la Gran Bretagna laburista, e mentre in Francia il Socialismo vinceva le elezioni e in Belgio si apprestava a vincerle, avrebbe consentito al Socialismo italiano riunificato di indicare una nuova via a quello europeo e una nuova relazione tra il Socialismo occidentale quello orientale della Russia. Matteotti sarebbe stato l'artefice del rinnovamento del Socialismo internazionale e colui che avrebbe costretto il Fascismo italiano a una svolta a sinistra mentre nascevano in Europa altri movimenti ispirati al Fascismo. Davvero, dunque, la collaborazione con i socialisti, come sosteneva Mussolini, avrebbe determinato una svolta storica nella politica italiana e nella politica internazionale.Velia Titta
La mancata collaborazione tra Matteotti e Mussolini, resa possibile dall'eliminazione del deputato socialista, creò una situazione d'emergenza tanto straordinaria quanto quella che sarebbe stata determinata da una possibile collaborazione. Gli esiti, naturalmente, furono diversi e in un certo senso sciagurati per l'Italia. Turati, leader dell' Aventino, aveva in mano dei documenti ma non li utilizzò. E' certo, e anche inquietante, che Mussolini, a proposito di Turati, confiderà a De Begnac: <mi ha considerato mandante del delitto Matteotti, pur conoscendo la mia assoluta  estraneità a quel turpe episodio>. Nel 1934 molti di quei socialisti che dieci anni prima erano stati vicini a Matteotti e lo avevano pianto, da Caldara a Romita, ritentarono la carta della collaborazione con Mussolini ma furono ostacolati e respinti dai soliti ambienti fascisti e, tranne poche eccezioni, dal fuoriuscitismo antifascista. Ci fu, tra quei socialisti che nel 1934 chiesero la collaborazione a Mussolini, un ripensamento sui fatti terribili del 1924?

Michelangelo Ingrassia (Università di Palermo)

Articolo scannerizzato dalla rivista “Storia in Rete”, n°104, del mese di Giugno, 2014.