venerdì 27 febbraio 2004

Padroni, servi, corsari, accattoni



 «... ormai non c'è più nulla da fare in un mercato saturo, esausto, costretto ad inventare l'inutile ed il virtuale... il nuovo capitalismo non ha più bisogno di ciminiere e grandi stabilimenti, quanto dei lussuosi uffici delle banche e degli avvocati d'affari, creatori di danaro e distruttori di uomini»


Permettetemi, prima ancora di incominciare, una breve disgressione; che riguarda l'ossessione dei titoli che ancora appesta la società italiana. Vi sarà certo capitato di imbattervi nella moda idiota -ma quasi tutte le mode lo sono- che si ostina ad usare quelle connotazioni da elenco telefonico (ad esempio: "Berlusconi dott. Silvio", anziché "dott. Silvio Berlusconi" o ancora meglio, all'inglese, "dott. S. Berlusconi"] su timbri, targhe, carta intestata... Meno male che, essendo dottori, dovrebbero essere anche gente di cultura  e  buon gusto! Ma ciò che conta, per costoro, è lo sfoggio del titolo; i magistrati, per dire, siano essi inquirenti o giudicanti sono tutti dottori: il dott. Papalia, il dott. Colombo, il dott. Vigna, la dott.ssa Boccassini... come se per svolgere le funzioni di magistrato la laurea non fosse un prerequisito essenziale! Non parliamo dei professori, titolo che dovrebbe essere dovuto soltanto ai docenti universitari ma del quale si fregiano legioni di insegnanti di scuola media inferiore e superiore magari nemmeno laureati (chi ha frequentato gli istituti tecnici o professionali industriali ricorderà i professori di officina meccanica, aggiustaggio, torneria, ...) Vi è poi la categoria dei direttori come Emilio Fede, al quale il mero titolo di dottore non pare più sufficiente; o dei presidenti, siano essi presidenti di una giunta provinciale o di una comunità montana...
Dunque abbiamo assistito tutti (?) alla concione di Berlusconi dott. Silvio per la ricorrenza dei dieci anni di "Forza Italia" ove, in platea, faceva bella mostra di sé una singolare bandiera recante sul verso la «stars and stripes» americana e sul recto l'emblema di FI.
Il nostro dottore, tra l'altro, ha tenuto a precisare di avere riconvertito ambasciate e consolati italiani all'estero in agenzie d'affari per la penetrazione del capitale italiano ovunque ciò sia possibile; basti l'esempio dei Paesi dell'Europa orientale ove questa politica è già collaudata da anni.
Non dovrà dunque stupire l'ossessione economicistica degli uomini che compongono l'esecutivo Berlusconi, bensì vista come un segnale dell'alternanza nei confronti dei cialtroneschi governi del centrosinistra socialdemocratico, applicati per intima vocazione -e finché furono favorevoli le circostanze storico-politiche- all'amministrazione clientelare e parassitaria dei carrozzoni dell'economi statalista ed assistita ma sempre gravata sulle spalle dei proletari e della piccola borghesia.
Il tremendo colpo di maglio che l'alta finanza mondialista ha assestato -all'inizio degli anni '90- sulle teste dei bambocci che fino ad allora erano stati da essa foraggiati e tollerati (PCI compreso, sia pure con molte ambiguità) nel delicato gioco degli equilibri internazionali, ha portato alla ribalta un ceto politico nel contempo apparentemente più presentabile (perché più discreto nell'opera di saccheggio ...) e soprattutto più sensibile alle direttive sovranazionali. Ciò ha portato l'avvio di un processo di profonda ristrutturazione del sistema italiano, con l'obiettivo dichiarato di traghettare uno Stato a struttura sostanzialmente arretrata in uno Stato improntato agli schemi postmoderni modellati dalle società dell'Occidente nordamericano e nordeuropeo.
Tale metamorfosi avrebbe dovuto investire -in un disegno totalitario- ogni aspetto del vivere sociale, economico, politico, religioso, artistico e quant'altro. La stessa fondazione di Forza Italia ha costituito un tentativo -neanche peraltro del tutto riuscito- di fondare un partito autenticamente e modernamente liberale; ciononostante la cricca dirigente di Berlusconi e dei suoi fedelissimi ha presto dovuto fare i conti con le coorti di postulanti alla ricerca della minestra calda al refettorio dei frati: è in questo modo che la dirigenza ha dovuto inventarsi le anime del partito, quella liberal-massonica, quella socialdemocratica, quella cristiano-sociale. In realtà occorreva recuperare ai maneggi della bassa macelleria tutto il politicumepentapartitico che, tolte le figure di maggior spicco irrimediabilmente compromesse (uno per tutti: Craxi), doveva purtuttavia continuare a svolgere, sotto altre spoglie, il proprio infame lavoro.
Per quanto attiene più specificamente alla ristrutturazione dei processi economici gli imperativi sono stati l'avvio sostenuto delle procedure di dismissione e privatizzazione delle aziende e dei servizi a partecipazione statale o gestiti direttamente dallo Stato, la ristrutturazione del mercato del lavoro e la spiccata tendenza ad una illimitata espansione del settore terziario o, come espresso con un neologismo che sta diventando di moda, la produzione immateriale. È evidente l'influsso del modello americano dove la quasi totale deregolazione anche del settore del lavoro permette da tempo ogni sorta di sperimentazione di sempre nuovi sistemi destinati allo sfruttamento della manodopera.
Tornando in Italia, è comunque interessante notare come anche le recenti manifestazioni rivendicative dei lavoratori del trasporto pubblico (autoferrotranvieri e personale Alitalia) riguardi pur sempre settori di forza lavoro che, con le doverose distinzioni, appaiono nonostante tutto fra i più garantiti nel panorama complessivo del lavoro dipendente. Del resto non v'è da stupirsene: la storia del movimento operaio ci insegna proprio questo, ovvero che sono le categorie che apparentemente godono delle condizioni di vita e di lavoro meno peggiori a creare ed organizzare i movimenti e le federazioni sindacali più combattive. Anche perché la creazione di pluslavoro e plusvalore è infinitamente maggiore in un operaio della General Motors di Detroit che in un bracciante agricolo messicano, nonostante le condizioni generali di vita siano abissalmente differenti a tutto favore, ovviamente, del primo: il lavoratore più sfruttato, in senso strettamente tecnico, è infatti proprio il primo. Misteri dell'economia? Neanche tanto. Se mando a battere una prostituta ventenne in appartamento, questa mi rimedia un migliaio di euro in mezza giornata, dopodichè può andare a casa a riposarsi; se ci mando una cinquantenne sdentata sotto il cavalcavia sulla statale in una nottata intera mi rimedia si e no cento euro... Qual è la più sfruttata? Ma qual è quella più... infelice?
Evitiamo di dilungarci in paragoni equivoci (è il caso di dirlo ...) per non destare legittimi (?) sospetti sulla nostra reale attività lavorativa. In realtà proprio oggi, con la ristrutturazione neoliberista in atto, certe situazioni che sembravano ormai scomparse nel contesto del primo mondo tecnologicizzato, si ripropongono con inquietante drammaticità: il lavoro (ed intendiamo il lavoro salariato), continua ad essere ciò che è sempre stato e che sempre sarà: alienazione, sofferenza, malattie ed infortuni, sfruttamento... Dai campi dove si raccolgono pomodori, uva o angurie, ai minuscoli maglifici dove in una atmosfera quasi surreale decine di donne cuciono o stirano mentre all'esterno i furgoni scaricano quintali di pezzi grezzi per ricaricarli il giorno dopo, sino al loro epilogo dietro le vetrine dei negozi Benetton o Stefanel; ai cantieri edili o navali, dove decine di piccole imprese appaltano e subappaltano ogni genere di lavorazioni; ai lavori desolanti dei volantinaggi pubblicitari casa per casa o degli imbonitori da supermercato, dove si viene invitati ad ogni pie' sospinto ad assaggiare caffè, mortadella, grana padano o te chimici in bottiglia...
Ai novantisti alle poste o nei Comuni sino agli eterni insegnanti supplenti nelle scuole. Il denominatore comune sono sempre il precariato e l'alienazione uniti, ma questo i media e i sindacalisti non lo dicono, a quella sgradevole percezione di estraneamento e di inutilità che viene avvertita dai più sensibili tra questi forzati del (non) lavoro. Va appena meglio a chi riesce ad essere assunto a tempo parziale e determinato in una vera azienda, magari in condominio con un amico (una settimana di lavoro uno, una settimana l'altro ...) o lavorando soltanto nei giorni festivi quando i titolari del posto sono in riposo.
La realtà, piaccia o meno (ed infatti, ancora, i media ed i sindacalisti non lo dicono), è un'altra: ormai non c'è più nulla da fare in un mercato saturo, esausto, costretto ad inventare l'inutile ed il virtuale. Nel contempo le opere pubbliche italiane languono, prigioniere della corruzione partitocratica: una rete stradale e ferroviaria estesissime ma fatiscenti, edifici pubblici ospitati in palazzi ottocenteschi, aerei e treni ad altissimo rischio di catastrofe; sui treni e sugli aerei la gente ci deve salire comunque: la tecnologia è meglio metterla a "Gardaland" o a "Mirabilandia"!
Quando, più di un anno orsono, intitolammo una delle nostre copertine "La fine del lavoro" intendavamo riferirci alla fine di un'epoca, di un modo di intendere il lavoro. Nonostante un qual certo apparente nostalgismo deve essere chiaro che la fine del lavoro segna anche la fine di un certo vetero-capitalismo, il capitalismo della fabbrica e dei quartieri operai.
Il nuovo capitalismo non ha più bisogno di ciminiere e grandi stabilimenti, quanto dei lussuosi uffici delle banche e degli avvocati d'affari, creatori di danaro e distruttori di uomini. Riteniamo che anche in questo contesto debbano essere meditate le impersonali parole di J. Evola: "non dove ci si difende ma dove si attacca; la distruzione del vecchio mondo, se pure ne prefigura uno peggiore, deve farci sperare che -toccato il fondo e concluso un ciclo- il sole ritorni a brillare per il Sangue".
Più buio che a mezzanotte non viene!
 
Graziano Dalla Torre

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