domenica 18 novembre 2012

Denaro e democrazia

Intanto ringrazio Pier Luigi per avermi fornito l'occasione di rispondere al suo post, sebbene non ne condivida l'assunto. Più condivisibile mi sembra invece il post di Pierre che invece ne mette in risalto i limiti ed anche le storture... Ed anzi forzando un pò il suo elaborato discorso si può addivenire sinteticamente a quanto segue..

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Oggi rispetto ad una parte cospicua del XX sec. , siamo al cospetto di una situazione che appare comparativamente rassicurante per le sorti dei sistemi retti da governi democratici. 

Per un primo verso è infatti molto cresciuto il numero dei paesi retti da sistemi  "democratici" anche se i singoli paesi si trovano ad uno stadio (temporale, strutturale, sistemico) assai differente dal modello democratico. Per un secondo verso, è assai difficile riscontrare l'esistenza  soggetti collettivi (partiti, gruppi, associazioni sindacati ecc) che in tali paesi si pongano in posizione alternativa rispetto alla "democrazia" vigente.  Ne discende che, in sede planetaria, tale regime sembra presentarsi come  il trionfatore  nell'ultimo scorcio del XX sec. e nell'iniziale XXI. Tuttavia, questo scenario non risulta così scontato come certe interpretazioni e previsioni ottimistiche lascerebbero supporre. Non è chiaro, ad esempio, quali conseguenze potrà avere per la sussistenza di numerosi regimi "democratici" l'impatto della travolgente crisi demografica mondiale, calcolata per i prossimi vent'anni pure se varie e gravi preoccupazioni sono ampiamente lecite e plausibili. 
Già nel quindicennio appena trascorso, sono apparsi evidenti  i sintomi  di una sfida che, pur prendendo le mosse culturali e strutturali da lontano, sta trovando il "terreno" per il suo attacco definitivo. Per comprendere i caratteri e la profondità di questa sfida occorre esaminare  il rapporto tra dimensione politica e dimensione economica quale si è venuto presentando e modificando nel corso di oltre due millenni e mezzo. Tale itinerario - estremamente variegato e non necessariamente lineare - può schemiticamente riassunto nei seguenti termini.

I stadio
Inizialmente - e per secoli - nell'antica civiltà europea (greca e romana soprattutto) la politica è stata intesa come regno dei fini dell'azione collettiva e l'economia come regno dei mezzi. I fini della comunità sono indicati dalla politica strettamente intrecciata alla religione. L'economia, viceversa,  è il luogo specifico per la produzione dei mezzi di sussistenza occorrenti alla comunità.  In tale contesto l'idea di cittadinanza è strettamente connessa alla politica nella sua coerenza con la sua religione patriottica; l'idea di cittadinanza, dunque, con tendenziale esclusione dei produttori. Come ha mirabilmente sintetizzato Aristotele: "cittadino è colui che, da giovane, porta le armi, nell'età matura attende ai consigli deliberativi  e alle cariche magistrali, da anziano assolve alle funzioni sacerdotali". Ove è evidente che servizio militare  e difesa  della patria, partecipazione all'assemblea e alle magistrature (civiche e giudiziarie), onoranze agli dei, costituiscono l'esistenza stessa della vita pubblica e ne sanciscono la superiorità su ogni attività umana. Attraverso un lungo processo di degenerazione socio-culturale che implica e include profonde modifiche culturali, lo spirito europeo che il nucleo costitutivo dello spirito occidentale ha modificato la collocazione della economia nella divisione del lavoro sociale.

II Stadio
L'economia non è più soltanto scienza e prassi dei mezzi, sapere e azione strumentale, ma  diventa anche uno dei fini dell'azione individuale e collettiva da perseguire a tutti i costi. 
In questa fase si fa avanti - a causa dell'influenza del cristianesimo - il reciproco affrancamento di dominio spirituale e temporale,  talchè religione e politica assumono ruoli distinti e soprattutto distanti, ma si profila e successivamente, passo passo,  si consolida la figura dell'homo economicus come soggetto dotato di un'autonomia categoriale e dignità funzionale, rispetto all'homo politicus, precedentemente in una posizione di esclusiva centralità nell'arena della decisione pubblica.  La politica conservò ancora  il suo primato, in quanto ad essa si continuò a conferire il compito di enucleare e formulare l'interesse generale; ma, nel far ciò, la politica stabilì che lo sviluppo economico (compito precipuo degli uomini economici che si rifanno alle coordinate del profitto, del mercato e  dell'impresa) diventasse uno dei grandi fini della società da comporre ed equilibrare con le altre finalità dell'esistenza collettiva.
A partire dai primi decenni dell'ottocento, questo schema di rapporto tra politica ed economia fu messo in discussione e poi sempre più incisivamente confutato man mano che ci si avvicina al nostro tempo. E qui si potrebbero indicare tre filoni fondamentali.

  1. il primo filone è quello del liberismo radicale che tendenzialmente volge a ridurre gli spazi della mano pubblica nella vita collettiva, immaginando che la mano del mercato possa direttamente  ristabilire l'equilibrio nella società; 
  2. un altro filone è quello del marxismo che finisce per postulare la fine dello Stato come proiezione istituzionale della politica e immaginare una società (come si afferma nell'Ideologia tedesca) dove l'uomo possa fare oggi questo e domani quello, in una sorta di flessibilità ante litteram,  di radicale diversificazione nella vita economica; 
  3. il terzo filone è quello del positivismo sociale, il quale presenta, rispetto al marxismo, la persistenza  della  divisione del lavoro e attraverso questa  immagina un potere depoliticizzato ed affidato ai direttori della produzione. 
I crescenti mutamenti nelle strutture aziendali e nei relativi assetti di comando, con il progressivo distacco tra la proprietà e la gestione dei mezzi di produzione,  la diffusione dell'azionariato societario,  il ruolo del sistema creditizio, l'internalizzazione dei processi finanziari, l'emergenza a getto continuo delle novità tecnologiche, l'espansione della rete mediatica, converge e viene indirizzato nella direzione di un "humus" simbolico, di un'affermazione ideologica di un intreccio di comportamenti concreti che trovano il loro acme nella rivendicazione del primato generalistico della economia, e nella conseguente subordinazione e strumentalizzazione della politica fino alla sua estinzione.

III stadio fondamentale
Il terzo stadio si caratterizza proprio per il tentativo dell'economia di divenire essa stessa la funzione generalista nella società, sottomettendo la funzione politica e considerandola come una funzione tendenzialmente marginale, fino al suo conseguente esaurimento.
Qui il tecnocrate, il bancocrate. il tecno-burocrate (manager) per un verso si costituiscono di fatto in arcipelago oligarchico, con suoi specifici interessi che vengono promossi a dignità di interessi generali, per un altro verso, mirano a imporsi in nome della competenza, dell'efficienza, della produttività, del calcolo economico, categorie  da sempre giudicate improprie ed estranee al comportamento politico.
Regime intrinsecamente politico, sia nella versione antica che moderna. la democrazia può conservare i suoi caratteri peculiari al cospetto di una sfida di tale intensità e qualità? Perchè questo è il nocciolo del problema.
 Nelle società post industriali oggi non c'è un attacco frontale alla democrazia alla quale vengono riservati omaggi di rito, pur se cresce l'influenza pesante e la pressione condizionante dei soggetti economici a tutti e tre i livelli. Ciò detto, agisce e si fa strada una delegittimazione costante per vie interne del sistema democratico che ne svuota progressivamente i contenuti sostanziali e i presupposti ideologici.L'universo mediatico, ampiamente controllato dai soggetti economici, direttamente o indirettamente, in virtù dei flussi pubblicitari, si incarica di pubblicizzare in tutti i sensi il ruolo dei potenti dell'economia e di colpire la politica,le sue istituzioni e i suoi dirigenti,ben oltre le colpe e i demeriti attribuibili alla politica e ai politici.

L'idea di cittadinanza patriottica, cruciale per la democrazia, è vulnerata dal protagonista per eccellenza dell'economia globale: l'apolide che deliberatamente rifiuta ogni appartenenza e identità nazionale e politica, che non sente vincoli, legami, lealtà o doveri di alcun genere e verso chicchessia   perché solo a tale condizione ritiene di poter dispiegare al meglio la sua azione economica, finanziaria e gestionale, ricavandone i maggiori profitti sui mercati globali.
La crescente mobilità territoriale - continentale ed intercontinentale -  di imprese e iniziative economiche e soprattutto finanziarie,  con intrecci societari inestricabili,  si accompagna a difficoltà sempre maggiori per la cosiddetta opinione pubblica di individuare, localizzare e in qualche modo controllare i centri delle decisioni economiche, le quali sono ormai parte precipua del sistema decisione economiche una volta collettive, ora appannaggio di pochissime persone che non sono controllate dal mercato ma che, viceversa, controllano il mercato, ne distorcono la logica competitiva e ne indirizzano i consumi, tal che tendono ad attenuarsi sia i controlli politici nell'arena politica sia i controlli economici nell'arena economica.
Un politico di casa nostra, nel visitare la sala di una grande società finanziaria americana, racconta l'enorme trepidazione che c'era intorno alla scrivania, dove alcuni giovani rampanti vendevano e compravano ingenti quantità di titoli del debito pubblico italiano, con ciò determinando una crescita oppure una caduta del tasso di interesse.  In pochi secondi, cioè, venivano decise le sorti di un popolo... e non astrattamente. Si decideva concretamente della possibilità di concedere o negare fondi per scuola, sanità, di garantire servizi sociali ecc.   La sensazione diffusa è quella perciò di un profondo sconforto,  di una impotenza diffusa che non riguarda solo gli ultimi, ma anche coloro che la gente reputa come personaggi politici importanti ed influenti.  Oggi il potere della politica è assai limitato.  La quota percentuale entro cui la politica "conta" è assai ridotta. Oggi si calcola che un quarto dell'umanità vive in stati falliti: ossia in stati che non possano più garantire ai loro cittadini le risorse minime di serena convivenza e sicurezza economica.  La crisi del sistema statale fa si che vasti territori siano sottratti alla giurisdizione statale. E ciò è avvenuto proprio in nome dell'a "democrazia".  In realtà la democrazia è stata il "grimaldello" attraverso cui l'oligarchia bancaria internazionale ha esautorato la politica tradizionale dai compiti che la storia le aveva attribuito.

La sovranità della legge, essenziale per la democrazia,  come sistema assiologico e funzionale, fa fatica a reggere l'urto di una realtà ove il fatto prevale sul diritto, le regole spesso non esistono, lo scavalcamento dei confini nazionali,  lascia all'intraprendenza finanziaria dei più forti e spregiudicati campo libero per le loro scorribande corsare e per una conseguente concentrazione di risorse economiche ma infine anche simboliche, che, per un verso, accentuano la configurazione oligarchica della società, per un secondo e correlativo verso, incrementano le diseguaglianze economiche oltre le soglie di ogni umana comprensione. Inoltre, è attiva nel paradigma culturale delle "corporations", l'idea che la politica sia il dominio dell'incompetenza, dell'inefficienza e che, di conseguenza, scopo primario della mega impresa sia quello di accrescere la propria capacità di controllo sull'ambiente in cui opera, in primis, appunto, sulla politica, intesa come la parte più irrazionale dell'ambiente stesso.  E poi, davvero non conosciamo esperienze - anche odierne - di incompetenza, inefficienza, inaffidabilità, di tecnocrati, burocrati, economisti, banchieri, ecc.?
Ma questo non significa - di per sè - le la fine della politica. In effetti a pensarci bene, la politica ha un avvenire. Per esempio una oligarchia economica, a dispetto della sua ideologia antipolitica, assume oggi il cuore di un regime politico oligarchico. E in questa visione hanno preminenza grandi centri economico-finanziari, formalmente multinazionali ma concretamente nelle mani di talune persone, di talune potenze nazionali,  piuttosto che altre.

Allorchè si formulano tali affermazioni non si vuole affatto negare l'importanza del profitto economico, dello sviluppo o del benessere globale. Si vuole solo, per converso, denunziare la tendenza rilevante oggi all'assolutizzazione del criterio economico come misura di tutte le cose, come parametro inglobante e assorbente tutto il resto, come terribile semplificatore della complessità antropologica e sociale, come deterministico negatore della varietà e della imprevidibilità dell'esistenza individuale e collettiva.
© Arthos

1 commento:

  1. Ottimo articolo. Ne prendo spunto, a mia volta, per preparare un adeguato seguito.

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